Mnemagoghi, Il fabbro di sé stesso
3.7. Una vita concreta: la dedizione al lavoro
Del mio lavoro mi innamorai fin dal primo giorno, benché non si trattasse d’altro, in quella fase, che di analisi quantitative su campioni di roccia […] stimolante e nuova era un’altra sensazione: il campione da analizzare […] era un pezzo di roccia, viscera della terra, strappata alla terra per forza di mine [SP 913].
Nel capitolo Nichel il personaggio Levi si entusiasma per il primo lavoro che gli viene assegnato: trovare il modo di estrarre il nichel dagli scarti di lavorazione della cava di amianto. Il lavoro è uno dei temi più ricorrenti della scrittura di Levi ed è centrale nel
Sistema periodico. Il libro nasce come biografia di un mestiere, quello di tecnico chimico
svolto da Levi per trent’anni. Nel Sistema periodico si assiste inoltre al passaggio di testimone fra il mestiere di chimico e quello di scrittore dell’autore: «Il lavoro, anzi, i miei due lavori (la chimica e lo scrivere) hanno avuto, e tuttora hanno, un’importanza fondamentale nella mia vita. Sono convinto che l’uomo normale è biologicamente costruito per un’attività diretta ad un fine»199.
L’importanza rivestita dal lavoro sembra derivare per Levi, direttamente dai suoi antenati: «non erano tutti materialmente inerti, perché ciò non era loro concesso: erano anzi o dovevano essere, abbastanza attivi per guadagnarsi da vivere e per una certa moralità dominante per cui ‟chi non lavora non mangia”» [SP 861]. Questa concezione si ricollega al castigo biblico della cacciata dall’Eden: Dio condanna l’uomo a procurarsi il cibo con il sudore della fronte, dunque con la fatica. Tuttavia Levi respinge l’idea che il lavoro sia solo fonte di tormento: «Io penso che il lavoro non sia soltanto per necessità una maledizione biblica, non è soltanto il sudore della fronte: è qualcosa di più, è qualcosa in cui si butta la propria vita e in cui è bene che si recuperino certi valori»200. Il lavoro per
Levi non è solamente un obbligo, ma può essere una virtù, qualora esercitato con passione: qualunque lavoro può essere amato «da quello manuale a quello intellettuale, purché esso non sia inteso come una condanna o una schiavitù ma come uno strumento
199 MONDO 1975, p. 84. 200 Ivi, p. 83.
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per realizzarsi»201. L’importanza di credere nel lavoro che si sta facendo è centrale:
«Tanto mi aveva esaltato l’analisi del nichel nella roccia, nella mia incarnazione precedente, tanto mi umiliava adesso il dosaggio quotidiano del fosforo, perché fare un lavoro in cui non si crede è una grande afflizione» [SP 948]. Nel capitolo Fosforo il personaggio Levi si ritrova alle prese con la messa a punto di una fantomatica cura per il diabete a base di fosforo. Il lavoro è imposto dal commendatore su basi scientifiche alquanto discutibili e questo fa perdere a Levi l’interesse per quanto sta facendo: il lavoro in questo caso è umiliante perché percepito solo come cieca applicazione, di un metodo per altro inutile, priva di qualsiasi possibilità di inventiva.
A ben guardare però il lavoro per Levi non è tutto uguale. Esistono dei mestieri verso cui l’autore prova un’intensa simpatia e altri verso cui mostra forti riserve. Il lavoro che Levi sembra apprezzare maggiormente è innanzitutto manuale, artigianale, creativo e solitario. Il lavoro è connesso con il mettersi alla prova: il lavoro vero è quello che vede l’uomo artefice alle prese con imprevisti e problemi da risolvere. L’estrazione del nichel richiedeva intuizione, arguzia e molta applicazione tanto che ogni piccolo risultato, anche parziale, si trasforma in una vittoria:
Pensavo di aver aperto una porta con una chiave, e di possedere la chiave di molte porte, forse tutte. Pensavo di aver pensato una cosa che nessun altro aveva ancora pensato […] e mi sentivo invincibile e tabù, anche di fronte ai nemici vicini, ed ogni mese più vicini. Pensavo, infine, di essermi presa una rivincita non ignobile contro chi mi aveva dichiarato biologicamente inferiore. Non pensavo che […] il nichel prodotto sarebbe finito per intero nelle corazze e nei proiettili dell’Italia fascista e della Germania di Hitler [SP 918].
Ritorna nel tema del lavoro quello del confrontarsi: nel caso del chimico il proprio mestiere è solo un’estensione della lotta contro la materia, ma più in generale il lavoro è inteso da Levi come un banco prova di fronte al quale il lavoratore deve rispondere da solo alle proprie domande. Levi esalta i mestieri creativi e artigianali, specialmente se hanno a che fare con il lavoro manuale. Nel capitolo Idrogeno il giovanissimo protagonista si rammarica di non saper far niente con le mani: «cosa sapevamo fare con le nostre mani? Niente, o quasi» [SP 877]. Il non saper fare priva l’uomo della sua qualità principale, quella di essere faber, artefice. Passano dunque in secondo piano il lavoro ripetitivo della classe operaia, il lavoro d’ufficio, ma anche una serie di mestieri legati al
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commercio. Levi nei panni del SAC, servizio assistenza clienti, si ritrova malissimo perché è un mestiere che necessità sì di una grande inventiva, ma tesa solo a convincere una controparte ad acquistare un prodotto. In Uranio Levi descrive il SAC dapprima come «un lavoro delicato e complesso, non molto diverso da quello dei diplomatici» [SP 1001], salvo poi concludere che «tutte le strategie e tattiche del SAC si possono descrivere in termini di corteggiamento sessuale» affini a quelle del mondo animale. Il mestiere di venditore ha qualcosa di animalesco, di primordiale, ma è soprattutto un gioco di inganni, per cui l’autore non nutre troppa simpatia. Levi emette un giudizio ancora più negativo nel capitolo Arsenico sul mestiere di commerciante:
Chi per mestiere compra o vende si riconosce facilmente: ha l’occhio vigile e il volto teso, teme la frode o la medita, e sta in guardia come un gatto all’imbrunire. È un mestiere che tende a distruggere l’anima immortale; ci sono stati filosofi cortigiani, filosofi pulitori di lenti, perfino filosofi ingegneri e strateghi, ma nessun filosofo, che io sappia, era grossista o bottegaio. [SP 985].
Nell’avversione alla compravendita di Levi c’è probabilmente un altro sottinteso: infatti in questo tipo di mestiere l’ottica del lavoro ben fatto viene completamente distorta. Fare bene il proprio mestiere coincide unicamente con l’idea di maggior profitto. Levi lega strettamente il mestiere di venditore con l’idea del raggiro e della menzogna e infatti, in
Arsenico, tutti coloro che portano prodotti ad analizzare, nel piccolo laboratorio dove Levi
lavora, sono bottegai che non si fidano della merce acquistata. Il caso più eclatante è quello del ciabattino che ha rischiato l’avvelenamento da parte del suo rivale.
Nel Sistema periodico Levi non è l’unico lavoratore che compare e i suoi mestieri non sono gli unici protagonisti. Nei vari capitoli compaiono anche altri personaggi che condividono per il loro lavoro la stessa dedizione dell’autore: uno di questi è proprio il ciabattino del capitolo Arsenico:
Il mio mestiere è di fare il ciabattino. Se si incammina da giovani, non è un brutto mestiere: si sta seduti, non si fatica tanto, e si incontra gente per cambiar parola. Certo non si fa fortuna, e si sta tutto il giorno con le scarpe degli altri in mano: ma a questo si fa l’abitudine, anche all’odore del cuoio vecchio […] il ciabattino di San Secondo sono io; conosco tutti i piedi difficili, e per fare il mio lavoro mi bastano il martello e lo spago. [SP 987]
Quello del ciabattino è un lavoro manuale in cui bastano poche cose: occhio, esperienza e pazienza. Non è un lavoro particolarmente remunerativo, ma dal modo in cui il ciabattino ne parla si percepisce un certo affetto per il proprio mestiere, specialmente
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quando rivendica la sua posizione di ciabattino rinomato: «il ciabattino di San Secondo sono io». A questa figura, esemplare del lavoro artigianale, si oppone nel racconto il rivale: «un giovanotto, neppure di qui: alto, bello e pieno d’ambizione; ha messo bottega a un tiro di schioppo, e l’ha riempita di macchine» [987]. Questo misterioso personaggio cerca con ogni mezzo di sbarazzarsi del suo vecchio concorrente: prima offrendo prezzi molto bassi, poi facendo circolare falsi pettegolezzi sul suo conto, infine cercando di avvelenarlo. La bassa statura morale del rivale non artigiano è evidente, e si ricollega proprio al suo mestiere: non artefice dei suoi prodotti, ma solamente venditore e per di più con l’unico interesse per il guadagno. Al contrario il ciabattino si dimostra uomo pieno di dignità anche di fronte alla notizia che lo zucchero donatogli dal rivale contiene arsenico. Non lo denuncerà perché lo ritiene un povero diavolo e non desidera rovinarlo, piuttosto riporterà di persona lo zucchero al rivale: «così vedo che faccia ha e gli spiego due o tre cose» [SP 988].
Un altro personaggio dedito al proprio mestiere è il cercatore d’oro nel racconto
Oro. Levi inizialmente scambia il suo compagno di prigionia per un comune pescatore:
Ma io ho un mestiere speciale […] insomma faccio diversi lavori, ma nessuno sotto padrone. Noi siamo gente libera: era così anche mio padre e mio nonno e tutti i bisnonni fin dal principio dei tempi, fino da quando sono venuti i romani […] La nostra ansa, che ce la passiamo di padre in figlio […] io vivo di questo, e non ho altro al mondo, ma non cambierei con un banchiere […] Poi, devi capire che a lavare la sabbia non sono capaci tutti, e questo dà soddisfazione. A me, appunto, mi ha insegnato mio padre: solo a me, perché ero il più svelto; gli altri fratelli lavorano alla fabbrica. E solo a me ha lasciato la scodella [SP 959-960].
Il mestiere del cercatore d’oro è un segreto atavico che si tramanda di padre in figlio, non fornisce grandi ricchezze (infatti il personaggio sopperisce facendo il anche contrabbandiere), ma è fonte di grande soddisfazione. La prima deriva dal fatto che è un mestiere che non tutti possono fare: necessita di una certa predisposizione naturale e di qualcuno che insegni i trucchi del mestiere. La seconda soddisfazione deriva invece dal lavorare per sé stessi, senza padroni né orari. Verso quei mestieri che preservano l’indipendenza e la creatività individuale Levi mostra un particolare interesse perché, come dirà il suo alter ego nella Chiave a stella: «Il termine “libertà” ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo» [CS 1147]. Anche il mestiere di chimico è fonte di libertà come gli altri descritti nel Sistema periodico. Il mestiere del cercatore ricalca le
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«indefinite possibilità» che Levi attribuisce alla chimica nel Sistema periodico. Esiste un rapporto tra il mestiere di chimico e quello del cercatore d’oro: questi coincidono nella loro «forma essenziale e primordiale, la ‟Scheidekunst”, appunto, l’arte di separare il metallo dalla ganga» [SP 961]. Si assomigliano anche sotto il punto di vista della ricerca: il cercatore d’oro è cacciatore così tanto quanto il chimico. Analogo discorso può essere fatto per il capitolo Piombo. Il protagonista Rodmund è un cercatore e lavoratore di piombo:
Non sono neppure un cacciatore, benché il mio mestiere non sia poi così diverso dalla caccia. Mi lega alla terra, ma sono libero: non sono un contadino. Mio padre, e tutti i Rodmund in linea paterna, facciamo da sempre questo mestiere, che consiste nel conoscere una certa pietra pesante […] e cavarne il piombo nero […] Così dopo sei generazioni di sosta, io ho ripreso a viaggiare, alla ricerca di pietra da fondere, o da far fondere da altre genti, insegnandogli l’arte contro oro; ecco, noi Rodmund siamo negromanti: mutiamo il piombo in oro [SP 920-921].
L’arte dei Rodmund si tramanda di generazione in generazione nella famiglia. Pur di non lasciarla morire il personaggio è disposto a mettersi in viaggio in cerca di un giacimento di piombo da lavorare. In questo passaggio ritroviamo gli stessi elementi che caratterizzano il mestiere del cercatore d’oro: la libertà, l’ereditarietà, la manualità, l’affinità con la caccia e un richiamo alle origini alchemiche della chimica.
Così come esistono per Levi dei lavori speciali, esistono anche dei non-lavori. Un esempio di non-lavoro è quello svolto nel Lager dai deportati:
Io tagliere fuori l’«Arbeit macht frei», perché veramente quello non era un lavoro. Era una pena. Neppure una pena biblica: «ti guadagnerai il pane col sudore della fronte». Lì era pane guadagnato per altri; mancava totalmente il rapporto causa effetto, cioè il lavoro che ti dà sostentamento. Quello non era un lavoro, era come prendere frustate202.
Arbeit macht frei, “il lavoro rende liberi”, era la scritta derisoria che accoglieva i deportati
all’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz. Il tipo di lavoro massacrante e insensato a cui erano sottoposti i prigionieri, una vera e propria forma di schiavitù, faceva parte della strategia di annientamento della dignità umana e conduceva spesso alla morte per stenti. Soltanto i nuovi arrivati nel campo potevano pensare che allo svolgere bene il lavoro assegnato potesse equivalere la sopravvivenza. Nonostante l’esercitare il mestiere
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di chimico sia stato un elemento di salvezza per Levi (perché gli permise di trascorrere l’inverno in un ambiente chiuso), l’essere chimico in Lager non è comunque un lavoro. In Cerio Levi scrive: «Ero chimico in uno stabilimento chimico, in un laboratorio chimico […] e rubavo per mangiare». Si tratta di un’affermazione paradossale che ribadisce ancora una volta l’irrazionalità del campo di sterminio. Il lavoro svolto in Lager è infatti completamente scollegato dalla sussistenza. Come ogni altra cosa in Lager anche il lavoro è sottoposto ad una logica paradossale incentrata sullo sterminio per cui si può sperare nella sopravvivenza solo se si elude il lavoro e si trovano altre scappatoie per procacciarsi il cibo. La riduzione delle barrette di Cerio in piccole pietre per accendini è una piccola vittoria non solo perché garantisce a Levi ed Alberto di che vivere per due mesi, ma anche perché ristabilisce la logica minima del lavoro: lavorare per mangiare. Nel capitolo La
zona grigia dei Sommersi e salvati Levi descrive invece il caso più drammatico di non-
lavoro all’interno del campo di sterminio: si tratta dei Sonderkommandos di Auschwitz, prigionieri a cui veniva affidato la gestione delle camere a gas:
A loro spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili: smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri [SS 1173-1174].
I benefici che i Sonderkommandos ricevevano per questo tipo di lavoro si limitavano a ricevere quantità di cibo adeguato per qualche mese: in quanto testimoni diretti del massacro, gli appartenenti alle squadre non sfuggivano allo sterminio, anzi le SS si adoperavano affinché nessuno di essi potesse sopravvivere. La creazione dei Sonderkommandos «è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo […] Attraverso questa istituzione si tentava si spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti» [SS 1176]. La linea di distinzione tra vittima e carnefice qui si annulla ed emettere un giudizio diventa impossibile. Se può essere esplicitato il perché esistessero queste squadre all’interno del Lager, resta difficile per Levi anche solo immaginarsi «cosa volesse dire» esercitare questo non-mestiere.
Il lavoro è invece presente in tutti i testi di Levi: numerosi protagonisti nei racconti di Storie naturali (undici racconti su quindici) e Vizio di forma (nove racconti su venti) sono alle prese con lo svolgimento del proprio lavoro. In Storie naturali il personaggio
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che svolge il suo mestiere con particolare dedizione e passione è il signor Simpson, rappresentante di un’azienda americana, la NATCA, produttrice di innovative macchine dai più disparati effetti. Il signor Simpson è protagonista di cinque racconti: Il
versificatore, L’ordine a buon mercato, La misura della bellezza, Pieno impiego, Trattamento di quiescenza. In ognuno di questi racconti il signor Simpson declama le
qualità dell’ultima invenzione proveniente dalla NATCA. Unica eccezione è costituita dal racconto Pieno impiego dove un signor Simpson sessantenne mostra invece al suo interlocutore una sua invenzione tutt’altro che meccanica, il linguaggio delle api. Questa curiosa circostanza scaturisce dal fatto che Simpson non crede nel prodotto che dovrebbe sponsorizzare: «cavò di tasca una scatola metallica e la posò con dispetto sul tavolo. – Mi dica lei, come si fa a fare il rappresentante con amore?» [SN 607]. La macchina in questione è un ritrovato, dalle dimensioni ridotte e molto economico, in grado di rispondere a domande specifiche. La sua utilità è scarsa secondo Simpson perché è una macchina non specializzata, sa fare tutto e niente. Per questi motivi Simpson non riesce a svolgere il suo mestiere con la sua naturale dedizione, esattamente come succede a Levi nel capitolo Fosforo del Sistema periodico. Simpson è anche un caso di rappresentante anomalo: pur non producendo le macchine che commercializza, prova per loro vivo interesse. Non svolge il suo mestiere con l’intento di arricchirsi, ma perché ammira quello che le macchine sono in grado di fare.
Personaggio non finzionale è invece Mordo Nahum, il greco della Tregua, uomo particolarmente sensibile al tema del lavoro e con una propria teoria al riguardo:
«C’est pas des raison d’homme», mi rispose secco: dovetti rendermi conto che avevo leso un suo importante principio morale […] Fondamento della sua etica era il lavoro, che egli sentiva come un sacro dovere, ma che intendeva in senso molto più ampio. Era lavoro tutto e solo ciò che porta a guadagno senza limitare la libertà. Il concetto di lavoro comprendeva quindi, oltre ad alcune attività lecite, anche ad esempio il contrabbando, il furto, la truffa […] Considerava invece riprovevoli perché umilianti, tutte le attività che non comportavano iniziativa né rischio, o che presuppongono una disciplina e una gerarchia […] Quanto alle attività più elevate dello spirito, al lavoro creativo, non tardai a comprendere che il greco era diviso […] in conclusione il mio proponimento di starmene tranquillo ad aspettare il pane dei russi non poteva che apparirgli detestabile [T 337].
Il greco fa del lavoro un principio morale non discutibile e assoluto dell’essere umano, perciò, pur trovandosi nella condizione di poter essere mantenuto dai russi di Cracovia, preferisce recarsi al mercato per cercare di vendere le cose che è riuscito a portarsi dietro.
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La sua teoria del lavoro è indirizzata al guadagno è questa la rende per Levi poco condivisibile: il lavoro creativo è lavoro solo se porta al successo, anche spacciando opere false o sottoletteratura, mentre è «riprovevole ostinarsi a inseguire un ideale non redditizio» [T 337]. Il greco è disposto a considerare persino la vita ascetica purché si traduca in un barattare saggezza per ricchezza. La principale differenza tra Levi e il Greco nell’intendere il lavoro è proprio questa: per Mordo Nahum tutto è merce ed è lavoro soltanto ciò che tratta la merce in cambio di ricchezza. È una visione materiale, disincantata del lavoro, che estromette completamente l’aspetto affettivo e soprattutto prende in considerazione l’illegalità. Se il signor Simpson avesse seguito i principi morali del greco, sicuramente non si sarebbe fatto nessuno scrupolo ad usare il mimete per replicare diamanti o ad impiegare banchi di anguille per trafficare eroina. Riprovevole secondo questi principi sarebbe invece il cercatore d’oro che trattiene parte del ricavato soltanto per il piacere di lavorarlo: «non lo vendo mica tutto […] ci sono troppo affezionato. Ne tengo un po' da parte e lo fondo, due volte all’anno, e lo lavoro: non sono un’artista ma mi piace averlo in mano, batterlo col martello, inciderlo, graffiarlo. Non mi interessa diventare ricco: mi importa vivere libero» [SP 961]. Diverso è anche il modo che hanno Levi e il greco riguardo la libertà nel lavoro. Lavorare per qualcuno per Mordo