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Mano che descrive, mano che scrive, mano che lavora, mano che comunica.

Mnemagoghi, Il fabbro di sé stesso

3.8. Mano che descrive, mano che scrive, mano che lavora, mano che comunica.

Le nostre mani erano rozze e deboli ad un tempo, regredite, insensibili: la parte meno educata dei nostri corpi. Compiute le prime fondamentali esperienze di gioco, avevano imparato a scrivere e null’altro. Conoscevano la stretta convulsa intorno ai rami degli alberi, su cui amavamo arrampicarci per voglia naturale ed insieme (Enrico ed io) per confuso omaggio e ritorno all’origine della specie; ma ignoravamo il peso solenne e bilanciato del martello, la forza concentrata delle lame, troppo prudentemente proibite, la tessitura sapiente del legno, la cedevolezza simile e diversa del ferro, del piombo e del rame. Se l’uomo è artefice, non eravamo uomini: lo sapevamo e ne soffrivamo. [SP 877].

Questo passo di Idrogeno introduce un elemento narrativo di grande rilevanza nel Sistema

periodico e che si ritrova anche in altri testi. Si tratta della mano. Levi ricorda come la

sua infanzia fosse sostanzialmente estranea al lavoro manuale. L’utilizzo delle mani nella vita quotidiana si limitava all’esercizio della scrittura e al gioco, poco più che un ossequio alle origini della specie. Questa atrofizzazione della mano come strumento è vissuta come una condanna: l’uomo è artefice in quanto sa creare con le proprie mani in modo disciplinato, altrimenti non è uomo. La mano riveste un ruolo importante per l’uomo perché, nella teoria evoluzionistica di Darwin, è ciò che segna la differenza fondamentale con il suo progenitore:

Nei confronti di questo organo privilegiato, che nella catena evoluzionistica determina un solco profondo tra i primati e l’uomo, Levi non nasconde un interesse particolare anche perché nella sua scelta di vita e professionale – la chimica, il

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mestiere di scrivere, l’alpinismo – la mano è presente non soltanto come esecutrice, ma anche come indispensabile generatrice di idee204.

L’origine della specie di Darwin è una delle letture che Levi inserisce nella Ricerca delle radici e la teoria dell’evoluzione delle specie influenza molto gli scritti di Levi

(principalmente quelli fantascientifici con il binomio creazione-evoluzione). Nel passo di

Idrogeno la manualità viene esaltata come qualità intrinseca della specie umana. La mano

identifica l’homo faber, l’uomo artefice, ma soprattutto razionale, capace di comprendere:

L’esercizio dell’homo faber è il contatto diretto con il reale, contatto mediato dal proprio corpo e dai propri sensi. La «sensata esperienza» è tale perché ponderata e testata sensibilmente, non chiudendo l’intelletto al puro dominio del visivo-mentale, ma coinvolgendo nel proprio sforzo conoscitivo l’intelligenza distribuita del corpo205.

Esiste un legame forte tra manualità e razionalità: «La manualità è una forma di intelligenza, la sua forma elementare […] La mano è ciò che rende aristotelicamente l’uomo intelligente, in quanto mano e mente fanno parte di un medesimo dispositivo»206.

Mano e mente si muovono insieme non solamente per un rapporto di causa effetto (il cervello pensa e la mano esegue), ma anche da un punto di vista evolutivo, descritto proprio da Darwin, secondo cui alla liberazione della mano da semplice organo motorio sono corrisposte modificazioni del cranio e del cervello207. In pratica l’evoluzione della mano ha consentito anche al cervello di svilupparsi. Levi non è interessato alla mano solo da un punto di vista scientifico-teorico. Nelle sue opere la mano ha la particolarità di collegare a sé molti dei temi cari all’autore e descritti nei paragrafi precedenti. La manualità ha a che fare con il lavoro, con la scrittura, con la comunicazione e con la semplice descrizione dei personaggi.

La mano nel Sistema periodico compare anzitutto come elemento aggiuntivo alla più generale descrizione dei personaggi. Levi stesso in un’intervista insiste sull’importanza descrittiva di questa parte del corpo:

Delle proprie mani si risponde, in qualche misura; registrano più cose che non il viso. Il resto non si vede molto, del corpo: si vedono il viso e le mani. Le mani parlano di più, questo non è subconscio, è un fatto razionale. Non occorre essere Sherlock Holmes per ricavare dalle mani di qualcuno […] molto del personaggio stesso.

204 VALABREGA 1997, p. 380. 205 ANTONELLO 2005, p. 110. 206 Ibidem.

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Quindi penso, a livello abbastanza consapevole, che sia utile descrivere le mani, come guida per chi legge208.

Le mani raccontano qualcosa delle persone: possiedono una storia che coincide con quella del loro possessore. Cicatrici, segni del tempo, trascuratezza oppure al contrario un’eccessiva cura, svelano qualcosa in più della semplice descrizione fisica. Levi ricorre alla descrizione delle mani specialmente con quei personaggi sconosciuti. Ad esempio, Levi indugia a lungo sulle mani del prigioniero nel capitolo Oro:

Il prigioniero mi guardava con curiosità […] aveva forse trentacinque anni, era magro e un po' curvo, aveva i capelli crespi in disordine, la barba mal rasa, un grosso naso a becco, la bocca senza labbra e gli occhi fuggitivi. Le sue mani erano sproporzionatamente grosse, nodose, come cotte dal sole e dal vento, e non le teneva mai ferme: ora si grattava, ora le strofinava una sull’altra come se le lavasse, ora tamburellava sulla panca o su una coscia; notai che gli tremavano leggermente [SP 959].

La prima cosa che Levi identifica del personaggio sconosciuto, oltre ai lineamenti del viso, è la particolarità della mani, deformate e incapaci di stare ferme. L’usura delle mani identificano il personaggio come un lavoratore, ma più particolare è il loro continuo movimento. Questa frenesia rilette l’insofferenza stessa del personaggio di ritrovarsi chiuso in cella anche se per poco: il cercatore è un uomo libero e a stare fermo in una prigione «diventa matto» come racconterà poi a Levi. Una descrizione simile spetta anche al ciabattino del racconto Arsenico: «Avrebbe potuto essere un filosofo contadino: era un vecchio robusto e rubicondo, dalle mani pesanti, deformate dal lavoro e dall’artrite» [SP 895]. Anche qui le mani deformate individuano subito la figura di un lavoratore, anche se Levi personaggio sbaglia pensando ad un contadino. In entrambi i casi la mani anticipano dei tratti dei personaggi che l’autore si ritrova di fronte. In particolare li identifica come artigiani (il cercatore d’oro saltuariamente lavora parte dell’oro che trova), esemplari dell’homo faber appena descritto: «attraverso la mano e le sue azioni Levi riesce a darci una rappresentazione psico-fisica più esauriente, inoltre tende a sottolineare la solidità e la concretezza dell’attività pratica che l’uomo dovrebbe saper svolgere esercitando gli strumenti che la natura gli ha dato»209.

Quando Levi descrive le mani dei personaggi non cerca solamente di sottolineare il rapporto con un mestiere. Homo faber è anche Sandro in Ferro le cui mani non sono

208 VALABREGA 1981, p. 895. 209 VALABREGA 1997, p. 388.

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simbolo tanto di lavoro manuale quanto di libertà: «Sandro andava su roccia più d’istinto che con tecnica, fidando nella forza delle mani, e salutando ironico, nell’appiglio a cui si afferrava, il silicio, il calcio e il magnesio, che aveva imparati a riconoscere al corso di mineralogia» [SP 893]. Il modo in cui Sandro affronta la montagna è istintivo, si affida all’esperienza diretta più che alla guida del CAI con tutte le sue prescrizioni. Anche scalare è un’attività manuale e pratica, ma l’attenzione che Levi dedica alla mano in questo passaggio di Ferro ha più a che fare con una visione della vita improntata all’indipendenza e la realizzazione personale piuttosto che alla manualità creativa. La descrizione della mano gioca poi un ruolo fondamentale nello scoprire inganni. Nel capitolo Mercurio il caporale Abrahams accoglie due naufraghi nella sua isola: «Hendrik era più anziano […] ha raccontato una storia poco chiara, di una rissa in cui avrebbe spaccato la testa del suo quartiermastro per cui in Olanda lo aspetterebbe la forca; ma non parlava come un marinaio e aveva le mani da signore, non da uno che spacca teste» [SP 933]. Il caporale si accorge qui che le mani di Hendrik sono troppo curate per essere quelle di uomo di mare e il sospetto incrina la storia che ha raccontato. Più avanti nel racconto si scopre infatti che Hendrik non è marinaio, ma un alchimista truffatore che aveva promesso di trasformare sabbia in oro. In questo racconto la descrizione delle mani fornisce un indizio rivelatore sulla natura di un personaggio che si dimostra ambiguo fin dall’inizio della storia. La mano come segno di riconoscimento è presente anche nel saggio Il segno del chimico nell’ Altrui mestiere:

Proporrei che i chimici (o gli ex chimici, come me) della mia generazione, quando vengono tra loro presentati, si mostrino a vicenda il palmo della mano destra: la maggior parte di loro, verso il centro, là dove il tendine flessore del dito medio incrocia quella che i chiromanti chiamano la linea della testa, conserva una piccola cicatrice professionale altamente specifica […] Questo, nel palmo della mano operante, era il nostro segno: di chimici ancora un poco alchimisti, ancora un poco costituiti in setta segreta [AM 955].

Come i massoni si riconoscono l’un l’altro al momento della stretta di mano, così anche i chimici della generazione di Levi possono riconoscersi per una singolare cicatrice alla mano causato dall’accidentale, e quasi inevitabile, rottura di un apparecchio di vetro rudimentale impiegato dagli studenti ancora inesperti. La cicatrice è dunque il segno rivelatore di un rituale iniziatico di passaggio come l’ingresso in laboratorio descritto in

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Molto importante è poi, nel Sistema periodico, il contatto tra la mano e la materia. È la mano che manipola la materia e per molti personaggi avere tra le mani il frutto del proprio lavoro è motivo di profonda soddisfazione: «L’ho rotto, ed eccolo, il dischetto lucido e pesante, che si incide con l’unghia, quello che ti allarga il cuore e fa sparire dalle gambe la stanchezza del cammino, e che noi chiamiamo “il piccolo re”» [SP 923]. Rodmund al termine di un lungo viaggio trova finalmente il suo amato piombo e lo saggia con le mani: ne valuta la pesantezza e lo incide con l’unghia per piacere. Similmente fa il cercatore in Oro: anche lui tiene da parte un po' del ricavato per fonderlo, per il solo gusto di averlo tra le mani e lavorarlo. Nel racconto Titanio c’è poi un contatto impedito che esula totalmente dal rapporto mano/lavoro ma non da quello mano/conoscenza:

L’armadio era così lucido, pulito e bianco che era quasi indispensabile toccarlo […] Maria sedette per terra zitta e tranquilla; ogni tanto […] si sporgeva in avanti fino quasi a perdere l’equilibrio, ma vide ben presto che mancava ancora un buon palmo a che potesse raggiungere l’armadio o la parete con le dita [SP 982].

La piccola Maria del racconto Titanio prova un irrefrenabile impulso a toccare con le mani gli oggetti dipinti dall’imbianchino. C’è ovviamente la fascinazione del colore abbagliante su una bambina, ma anche la necessità di capire: «era incomprensibile come tutto quel bianco potesse stare in una scatoletta così piccola» [SP 982]. Guardarci dentro non risolve il mistero, per capirlo la bimba è spinta a toccare con mano. Il toccare con mano, «tentare la materia incognita con l’unghia […] soppesarla nel cavo della mano» [SP 1006] sono deformazioni professionali del mestiere di chimico, il modo più semplice per approcciarsi alla materia nel tentativo di interpretare i suoi misteri. Si tratta della «chimica dei fondatori che […] affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia» [SP 1010].

La manualità ha molto a che spartire con il mestiere di chimico, ma anche con quello di scrittore: «Il testo letterario è in un certo modo imparentato con il lavoro manuale. Si fa, almeno mentalmente, una scaletta, un disegno, e poi si cerca di realizzare il manufatto nel modo più conforme al progetto»210. Il Sistema periodico è il testo in cui chimica,

manualità e scrittura si trovano a convivere. Levi costruisce il testo intessendo rapporti precisi tra i vari capitoli, seguendo dunque una sorta di progetto mentale. Ma come la chimica e la manualità si intersechino con la scrittura viene descritto nel finale stesso del libro:

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Questa cellula appartiene ad un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l’atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. È quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no, fa sì che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su ed in giù, fra due livelli di energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo. [SP 1032].

Nella chiusura di Carbonio ritorna la correlazione tra mano e cervello: l’atomo di carbonio protagonista del racconto è finito nel cervello dell’autore, precisamente in quella parte addetta allo scrivere e contribuisce al suo corretto funzionamento. Il pensiero si traduce in un processo fisiologico211: è il cervello a guidare la mano nello scrivere, modulando la forza e l’intensità del gesto a seconda del segno da produrre. L’immagine della mano che scrive si ritrova anche in una delle poesie raccolte in Ad ora incerta. Nella poesia Nel principio Levi scrive: «Da quell’unico spasimo tutto è nato:/ lo stesso abisso che ci avvolge e ci sfida,/ Lo stesso tempo che ci partorisce e travolge,/ Ogni cosa che ognuno ha pensato,/ E mille e mille soli, e questa/ Mano che scrive» [AOI 704]. La poesia è una riflessione sull’origine del cosmo a partire dalla teoria del big-bang. Da un’esplosione si sarebbe generato l’intero universo e avrebbero avuto inizio anche tutti i processi evolutivi. Culmine di questa riflessione evolutiva è proprio la mano che scrive. Levi cerca in entrambi i casi di ricondurre il principio della scrittura alla razionalità, facendo dipendere direttamente l’atto dello scrivere da un processo chimico-biologico- evoluzionistico il cui esecutore materiale è la mano.

Non sempre però questo rapporto di dipendenza razionale è rispettato: «La mano, attivata da movimenti muscolari e da idee, sembra essere dotata di una intelligenza sua propria, di una volontà autonoma di comportamento, un organo pensante insomma, che può ribellarsi o prendere decisioni personali»212. Ritorna qui la riflessione sulla scrittura del saggio Dello scrivere oscuro: così come non esiste una scrittura completamente razionale e lucida, nemmeno il corpo umano si muove sempre secondo ciò che la mente sta pensando, anzi sono molti i movimenti involontari (o dettati dal subconscio) che lo animano. Il caso di una mano che agisce liberamente è quella del protagonista del Dialogo

di un poeta e di un medico. Il racconto mette in scena l’incontro tra un poeta (un alter ego

di Giacomo Leopardi in versione contemporanea) ed un medico, presumibilmente uno

211 VALABREGA 1997, p. 383. 212 Ibidem.

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psichiatra. Benché il titolo rievochi le Operette morali di Leopardi, l’analogia non si spinge oltre: infatti il dialogo non è un vero botta e risposta tra due personaggi (come avviene nelle Operette morali di Leopardi), ma un racconto con tanto di narratore esterno. Nel corso del testo il pensiero del poeta recanatese diventa di fatto l’anamnesi di una malattia per la quale il medico prescrive un «trattamento d’appoggio». Dopo la prescrizione, l’incontro termina:

Il poeta scese le scale e si avviò verso la farmacia più vicina. Mentre camminava, infilò nella tasca del pastrano la mano che stringeva la prescrizione, e vi ritrovò certi foglietti che aveva dimenticati. Vi aveva annotato alcuni pensieri che gli erano occorsi qualche giorno prima, ed a cui aveva meditato di dare veste di canto. La sua mano, come mossa da una volontà sua propria, appallottolò la prescrizione e la gettò nel rigagnolo che scorreva lungo la via.

Mentre la mente del protagonista è impegnata a ricordarsi degli appunti per una poesia scritti su dei foglietti, la mano ne approfitta per liberarsi della prescrizione medica indesiderata. La mano in questo racconto si sottrae al dominio della mente, o meglio approfitta di un momento di distrazione, per eseguire invece un comando dettato dal subconscio: infatti il poeta non desidera davvero seguire quel trattamento, la sua mente continua ad essere interessata da alcuni pensieri che possono essere trasposti in canto e che fanno capo a quel pensiero di cui dovrebbe invece liberarsi. Altro esempio di gestualità involontaria è quella che accompagna il linguaggio: nella comunicazione la postura del corpo e la gestualità, in particolare il movimento delle mani, hanno una loro importanza e non sono mai programmate o pensate intenzionalmente.

Diverso è invece quel tipo di linguaggio, il linguaggio dei segni ad esempio, che si basa interamente su gesti codificati e quindi presuppone un rapporto diretto tra pensiero e azione. Nel Sistema periodico Levi descrive un’unica scena in cui la parola viene accompagnata dal gesto. Si tratta nuovamente del colloquio con il cercatore d’oro che, mentre spiega il metodo della scodella al giovane Levi, accompagna le parole con le mani per spiegarsi meglio: «Con l’enorme destra leggermente inflessa a coppa, accennò al movimento rotatorio professionale» [SP 960]. In altri testi il rapporto tra mano e comunicazione diventa più complesso, in particolare per quanto riguarda la dimensione del Lager. Ad Auschwitz parte della comunicazione passava attraverso la violenza: «Pugni e schiaffi correvano tra noi come un linguaggio quotidiano, ed avevamo imparato presto a distinguere le percosse “espressive” da quelle altre, che venivano inflitte per ferocia, per creare dolore e umiliazione e che spesso conducevano alla morte» [L 248].

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Nel racconto Il giocoliere, raccolto in Lilít, Levi racconta un episodio in cui gli era capitato di poter scrivere una lettera da inviare a casa, ma viene scoperto dal Kapo:

Non avevo fatto i conti con il passo silenzioso di Eddy […] mi stese a terra con uno schiaffo violento; ed ecco, mentre scrivo oggi questa frase, mentre batto la parola «schiaffo» mi accorgo di mentire, o almeno di trasmettere al lettore emozioni e notizie falsate. Eddy non era un bruto, non intendeva punirmi né farmi soffrire, ed uno schiaffo dato in Lager aveva un significato assai diverso da quello che potrebbe avere fra noi, oggi e qui. Appunto, aveva un significato, era poco più che un modo di esprimersi [L 248].

Scrivere in Lager era un atto punito con l’impiccagione e lo schiaffo dato da Eddy serve come promemoria: infatti Levi, tentando di scrivere una lettera, mette in pericolo sé stesso e anche il suo Kapo. Lo schiaffo sostituisce la ramanzina verbale che, nel contesto del Lager, sarebbe stata impossibile: «fra Eddy rapinatore e giocoliere tedesco, e me giovane inesperto italiano frastornato e confuso, un discorso come quello sarebbe stato inutile, non capito (se non altro per ragioni linguistiche), stonato, perifrastico» [L 248]. La mano in Lager sostituisce il linguaggio verbale anche in episodi molto più degradanti che rasentano la violenza psicologica. Al termine del capitolo Esame di chimica in Se questo

è un uomo, il Kapo Alex si pulisce la mano sporca di grasso sulla spalla di Levi:

Ecco si guarda la mano nera di grasso viscido. Frattanto io l’ho raggiunto: senza odio e senza scherno, Alex strofina la mano sulla mia spalla, il palmo e il dorso, per nettarla, e sarebbe assai stupito, l’innocente bruto Alex, se qualcuno gli dicesse che alla stregua di questo suo atto io oggi lo giudico, lui e Pannwitz e gli innumerevoli che furono come lui, grandi e piccoli, in Auschwitz e ovunque [SQU 223].

Per quanto privo di aperto disprezzo, l’atto di Alex non è meno umiliante e degradante: la considerazione che lui, Kapo, ha degli Häftlinge è praticamente inesistente, pari a quella di uno straccio per pulirsi le mani. Benché anche lo schiaffo di Eddy sia degradante, perché assimilato alla bastonata che ricevono le bestie per non aver rispettato un divieto, Levi non ne ricava lo stesso giudizio di condanna per i due Kapo. Giudica Alex per il gesto della mano, non violenza fisica, ma comunque violenza, mentre non emette alcun giudizio su Eddy la cui violenza, seppur fisica, non è tesa al male, ma ad un tentativo di