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La chimica e la scrittura: oralità, libertà, e ineffabilità della parola

Mnemagoghi, Il fabbro di sé stesso

3.6. La chimica e la scrittura: oralità, libertà, e ineffabilità della parola

Mi vennero raccontate moltissime storie […] non è chiaro perché queste vicende, sempre intricate e spesso intime, le raccontassero con tanta facilità proprio a me, che invece non potevo raccontare nulla, neppure il mio vero nome; ma pare che questo sia il mio pianeta (e non me ne lamento affatto): io sono uno a cui molte cose vengono raccontate [SP 911]

Nella cava di amianto in Nichel il giovane Levi entra in contatto con i personaggi che la abitano. I lavoratori stabili della cava hanno moltissime storie da raccontare, avvolte anche da un alone di mito, e il nuovo arrivato è interlocutore privilegiato a cui narrarle. La materia nel Sistema periodico diventa così occasione di racconto nel racconto. Non è solamente Levi, autore e personaggio, a narrare le proprie vicissitudini, ma la materia diventa occasione per alcuni personaggi di raccontare la loro storia all’autore. Il narratore si trasforma così in ascoltatore. Nel Sistema periodico questa metamorfosi avviene in diversi momenti. Oltre agli abitanti della cava, altri personaggi raccontano storie a Levi. il contrabbandiere in Oro che, durante la prigionia, attacca bottone con il giovane Levi raccontandogli del suo mestiere segreto. Arrestato per contrabbando in realtà il personaggio senza nome è un cercatore d’oro che vive e lavora da solo. La tavola di verniciai in Cromo è un altro luogo in cui i personaggi si raccontano storie l’un l’altro in un clima conviviale. Diverso è il caso di Arsenico dove a raccontare è il ciabattino di San Secondo. Qui si travalica il normale rapporto con il cliente a causa del fatto insolito costituito dallo zucchero avvelenato: «era palese che non attendeva altro se non una minima sollecitazione da parte mia per raccontarmi una storia; non gliela feci mancare» [SP 987]. Il ciabattino, venuto a ritirare il risultato delle analisi sullo zucchero contaminato, desidera raccontare la sua storia anche se davanti ha un perfetto estraneo. Quel perfetto estraneo è proprio Levi che si identifica con la parte dell’ascoltatore. Nel capitolo Argento invece ritorna il colloquio tra due amici: è Levi a chiedere di raccontare

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al suo amico Cerrato perché intende scrivere delle storie di chimica. Più complesso invece è il caso di Uranio. Se infatti in tutte le altre circostanze Levi si era dimostrato un ascoltatore ben disposto verso il narratore, nel caso di Bonino no. Da una parte l’incontro con Bonino dovrebbe essere un incontro di lavoro e non di piacere, dall’altra è proprio la qualità del racconto in sé a rendere l’ascoltatore indisposto:

Bonino non era un buon narratore: divagava, si ripeteva, faceva delle digressioni. Aveva poi il curioso vizio di omettere il soggetto di alcune proposizioni, sostituendolo con il pronome personale, il che rendeva ancora più nebuloso il suo discorso […] indecifrabile era l’origine della sua storia: profondamente sua, la sua, poiché, come seppi in seguito, la raccontava sovente a tutti, ma senza sostanziarla con l’apporto della materia, e con particolari via via più colorati e meno credibili col passare degli anni [SP 1004-1007].

La storia che Bonino racconta suona falsa per la sostanziale incapacità del narratore di raccontare i fatti in modo coerente. A prescindere dal fatto che la vicenda di Bonino sia inventata, il modo incoerente di esporre i fatti, privi anche di una precisione grammaticale, invalidano qualunque tentativo di spacciarla per vera. Dal racconto di Levi, e dal suo stesso racconto, Bonino esce fuori come un mitomane che spera di attirare l’attenzione dello scrittore famoso, così magari da finire in un libro. Il racconto di Bonino finisce infatti con una esplicita richiesta: «così si convince, e magari, lei che è uno scrittore, in aggiunta alle sue storie un giorno o l’altro scrive anche questa» [SP 1005]. L’inattendibilità di Bonino può essere interpretata però anche come «lo spettro del narratore inattendibile che non viene creduto, l’ombra da cui Levi si sentiva perseguitato […] Per essere attendibile chi racconta deve essere un buon narratore; per essere vero un racconto deve anche essere ben fatto»194. Il timore di non essere creduto e di non essere ascoltato ha sempre accompagnato Levi fin dalla deportazione ad Auschwitz. In Se questo

è un uomo compare, nel capitolo Le nostre notti, il sogno del reduce, comune nella

tipologia a tutti i deportati:

Qui c’è mia sorella, e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di me […] è un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano

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confusamente d’altro fra loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola [SQU 182].

Il timore più grande del reduce è quello non solo di non essere creduto, ma anche di non essere ascoltato. Dietro il personaggio di Bonino che racconta male fatti incredibili si cela il timore del testimone che deve narrare eventi veri ma normalmente inconcepibili. Il testimone, quantomeno, può avvalersi dei fatti come supporto alle proprie parole, mentre Bonino fornisce sostanzialmente un falso: cadmio al posto di uranio. Se il pericolo di non essere creduti è scongiurato, rimane comunque quello di non essere ascoltati. L’unico modo per ovviarlo è quello di rendere un racconto dei fatti coerente e più chiaro possibile. Il bisogno della testimonianza per Levi prende forma non solo di racconto orale, ma diventa un libro vero e proprio, la cui genesi si ritrova nelle pagine di Cromo:

Lo stesso mio scrivere diventò un’avventura diversa, non più un itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria a rispondere ai perché. Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del reduce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere complesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da studente nel penetrare l’ordine solenne del calcolo differenziale. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro [SP 973].

Se inizialmente scrivere è un modo per liberarsi di un tormento interiore, piano piano la scrittura per Levi diventa qualcosa di diverso. Si tratta di modellare il ricordo su carta, scegliendo con accortezza tempi e parole esattamente come nel calcolo differenziale della chimica. Lo scrivere diventa un piacere oltre che un dovere, ma rimane comunque ancorato al ricordo.

L’incontro con Bonino in Uranio mette però l’accento su un altro aspetto della scrittura di Levi, ovvero la libertà di inventare:

Invidiai in lui, io impigliato nella rete del SAC, dei doveri sociali ed aziendali e della verosimiglianza, la libertà sconfinata dell’invenzione, di chi ha sfondato la barriera ed è ormai padrone di costruirsi il passato che più gli aggrada, di cucirsi intorno i panni dell’eroe, e di volare come Superman attraverso i secoli, i meridiani e i paralleli [SP 1007].

Benché Bonino sia sostanzialmente un falsario, perché la sua storia non è vera, Levi invidia questa sua capacità di inventiva: non tanto perché Levi desideri costruirsi un’altra vita, ma perché la sua scrittura è permeata di esperienza vissuta, sua e di altri, e desidera

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tentare il salto verso una scrittura scaturita completamente dall’immaginazione. La scrittura finzionale ha il sapore della libertà perché non deve rendere conto di persone realmente esistite o di fatti realmente accaduti, purché si resti nell’ordine della verosimiglianza. Levi però già prima del Sistema periodico si era dedicato alla scrittura di alcuni racconti non inerenti alla testimonianza e orientati nell’orizzonte fantastico della fantascienza. Paradossalmente anche questi testi di Levi, che più si dovrebbero allontanare dall’esperienza vissuta e dalla rappresentazione del reale, si muovono nell’ordine del possibile:

In relazione a Storie naturali e Vizio di forma si è parlato genericamente di racconti fantascientifici o «fantabiologici» (nella dizione di Calvino), per una ovvia comodità di semplificazione critica. A una lettura anche superficiale non è comunque difficile rilevare come questi testi siano degli esercizi letterari che vanno al di là di una semplice proiezione di genere. Lungi dall’essere dei ‘divertimenti’ – come Levi, con un poco credibile understatement tende a rassicurare i propri lettori –, le Storie

naturali sono delle formulazioni fantastiche che si muovono partendo da presupposti

scientifici e tecnologici ben definiti e hanno la valenza filosofica e etica della migliore sciencefiction195.

I racconti di Levi non mettono in scena mondi alternativi e non vi compaiono viaggi spaziali o creature mostruose provenienti dalle profondità siderali. Partono da elementi concreti a volte anche comuni, che fungono da spunti di riflessione: «non sono storie di fantascienza, se per fantascienza si intende l’avvenirismo, la fantasia futuristica a buon mercato. Queste storie sono più possibili di tante altre»196. Le Storie naturali di Levi contengono racconti su muffe, animali di vario tipo, macchinari per l’ufficio. Alcuni racconti inoltre, si tratta di Angelica farfalla e Versamina entrambi esperimenti finiti in disgrazia riecheggiano le esperienze del Lager o quantomeno tentano di riprodurre l’orrore del possibile: «quel possibile che aveva sperimentato nell’universo rovesciato di Auschwitz, là dove la razionalità e l’irrazionalità si erano scambiate di posto producendo una realtà orrenda»197. Un discorso analogo si potrebbe fare per Vizio di forma e le sezioni

Futuro anteriore e Presente indicativo di Lilít. Proprio in quest’ultima raccolta si trova il

racconto Una stella tranquilla, uno dei pochi che hanno dimensione cosmica. Il racconto descrive l’esplosione e la mutazione in nova di una stella chiamata Al-Ludra: l’evento catastrofico, con la scia di distruzione capace di provocare a livello di sistema solare, sulla

195 ANTONELLO 2005, p. 93. 196 BELPOLITI 2015, p. 355. 197 Ivi, p. 356.

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terra si riduce ad «un puntino appena percettibile» registrato su della carta fotografica. Il signor Ramón Escojido è addetto al controllo delle lastre fotografiche di un osservatorio in Perù e, nel finale del racconto, nota per caso il nuovo puntino apparso nella fotografia:

Quando capitano queste cose, novantanove volte su cento è un granello di polvere […] però sussiste la minuscola probabilità che si tratti di una Nova, e bisogna fare rapporto, salvo conferma. Addio gita: avrebbe dovuto ripetere la foto le due notti successive. Cosa avrebbe detto a Judith e ai ragazzi? [L 304].

Nell’arco di poche righe una catastrofe cosmica si è ridotta ad un piccolo dramma familiare: il signor Escojido è costretto a mandare a monte gli impegni presi con la famiglia per colpa di un puntino anomalo su una fotografia. Ed ecco il punto della riflessione di Levi: l’essere umano non è in grado di concepire e descrivere eventi che non siano a sua misura. La distruzione di un sistema solare per opera dell’esplosione della sua stella è un vento che un essere umano difficilmente può anche solo immaginare e giunge per altro come fenomeno filtrato. Tutto ciò che gli strumenti e l’occhio umano possono percepire sono: «un flutto di energia e la notizia modulata della catastrofe» [L 304].

Nel racconto questo finale è anticipato da una riflessione linguistica che riporta il lettore al Sistema periodico. Il narratore della vicenda si trova infatti di fronte ad un problema descrittivo notevole:

In un luogo dell’universo molto lontano di qui viveva un tempo una stella tranquilla […] Questa stella era molto grande, molto calda e il suo peso era enorme: e qui incominciano le nostre difficoltà di relatori. Abbiamo scritto «molto lontano», «grande», «calda», «enorme»: l’Australia è molto lontana, en elefante è grande e una casa ancora più grande, stamattina ho fatto un bagno caldo, l’Everest è enorme. È chiaro che nel nostro lessico qualcosa non funziona […] Per discorrere di stelle il nostro linguaggio è inadeguato e appare risibile […] è un linguaggio nato con noi, atto a scrivere oggetti grandi e duraturi press’a poco quanto noi; ha le nostre dimensioni, è umano. Non va oltre quanto ci raccontano i nostri sensi [L 301].

Il linguaggio umano è intrinsecamente relativo e soprattutto riesce a descrivere correttamente solamente quei fenomeni che sono alla portata dei sensi, ben osservabili dunque e commensurabili all’uomo stesso. Una stella sfugge completamente a queste caratteristiche tanto che per descriverla esiste un linguaggio apposito:

C’è sí il linguaggio delle cifre, elegante e snello, l’alfabeto delle potenze del dieci: ma questo non sarebbe un raccontare nel senso in cui questa storia desidera

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raccontare se stessa, cioè come una favola che ridesti echi, ed in cui ciascuno ravvisi lontani modelli propri e del genere umano [L 302].

Il linguaggio matematico riesce a descrivere effettivamente la massa di una stella, la potenza della sua esplosione e via dicendo, ma non è il linguaggio del racconto, specialmente di quel racconto che ha uno scopo etico, di rapportarsi quindi alla dimensione umana. Levi che si è sempre eretto a paladino della comunicabilità, soprattutto per quanto riguarda la testimonianza di Auschwitz, si scontra qui invece con l’ineffabilità della parola. Il linguaggio umano non sa render conto in modo coerente degli avvenimenti fuori scala, siano essi esplosioni cosmiche o, in piccolo, legami molecolari:

Sento talora l’insufficienza dello strumento. Ineffabilità, si chiama, ed è una bellissima parola. Il nostro linguaggio è umano, è nato per descrivere cose a dimensioni umane. Crolla si sfascia, è inadeguato (lo sono tutti i linguaggi e lo saranno sempre) quando si tratta di raccontare cosa avviene, per esempio, in una supernova, come ho tentato una volta nel racconto Una stella tranquilla198.

Ben prima del racconto Una stella tranquilla, il tema dell’ineffabilità della parola compare per la prima volta proprio nel Sistema periodico, nel capitolo finale Carbonio:

Se comprendere vale farsi un’immagine, non ci faremo mai un’immagine di uno happening la cui scala è il milionesimo di millimetro, il cui ritmo è il milionesimo di secondo, ed i cui attori sono per loro essenza invisibili. Ogni descrizione verbale sarà mancante, ed una varrà l’altra: valga quindi la seguente [SP 1029].

Così come la parola non è in grado di restituire la reale catastrofe prodotta dal collasso di una stella, non può nemmeno descrivere con esattezza il processo della fotosintesi clorofilliana che avviene su una scala infinitamente ridotta rispetto a quella umana. Il problema che sorge è quello della comprensione: è possibile comprendere qualcosa senza riuscire a ricostruirne almeno un’immagine mentale? Per Levi no. Da questo dipende anche l’incapacità di capire a fondo certi meccanismi naturali che ancora mancano di una descrizione certa: sappiamo che la fotosintesi esiste, ma le modalità con cui essa avviene non sono state definitivamente chiarite; altrettanto si può dire dell’esplosione delle stelle: «sappiamo che, non poi così di rado, qualcosa si impenna nel meccanismo atomico dei nuclei stellari, e che allora la stella esplode» [L 303].

I problemi fondamentali della scrittura di Levi diventano dunque temi dei suoi stessi racconti: ritroviamo nelle sue opere il rapporto con il racconto orale, il problema della

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finzione, il contrasto tra comunicazione e incomunicabilità. Tutti e tre sono presenti nel

Sistema periodico e contribuiscono a definire i contorni di Levi scrittore oltre che

testimone nell’opera in cui metaforicamente Levi si riconosce come tale.