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Il ciabattino e il montatore: il linguaggio di Faussone

Mnemagoghi, Il fabbro di sé stesso

4. Il chimico, lo scrittore e il montatore: La chiave a stella

4.2. Il ciabattino e il montatore: il linguaggio di Faussone

230 DE RIENZO 1979, p. 123. 231 THOMSON 2017, p. 544. 232 Ivi, p. 545.

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Nel capitolo Arsenico del Sistema periodico Levi riporta il racconto del ciabattino di San Secondo. Questo personaggio in realtà parla dialetto piemontese, ma l’autore fornisce una traduzione in italiano letterario del suo racconto per permetterne la comprensione. In alcuni punti tuttavia affiorano delle caratteristiche tipiche del linguaggio parlato come la dislocazione a sinistra, l’uso pleonastico del pronome complemento (a me mi) e l’inserimento di modi di dire colloquiali e dialettali: «Faccia attenzione che io tutte queste cose gliele dico senza volergli male […] ma lui, me lo hanno detto, voleva male a me: a

me mi raccontano tutto, e sa chi? Le vecchiette […] mi raccontano la rava e la fava. Lui mi voleva male a me» [SP 988].

Queste caratteristiche sono alcuni dei principali mezzi sintattici con cui Levi crea il linguaggio di Faussone nella Chiave a stella. Essendo il montatore un personaggio inventato, anche il suo linguaggio lo è:

Un’operazione letteraria, sicuramente, ma ha un fondamento di verità: questo linguaggio è effettivamente parlato dall’operaio colto piemontese. Non direi che è un imbroglio, un falso, semmai è un restauro. Il linguaggio popolare ha delle risorse eccezionali, usa delle incantevoli metafore: ho sentito il bisogno di fissarle sulla pagina scritta233.

Come Levi prende spunto da persone realmente esistenti per costruire il suo personaggio, così crea anche un apposito linguaggio per Faussone: l’italiano letterario avrebbe stonato in bocca ad un operaio specializzato giramondo e l’intento dell’autore era quello di restituire l’immagine di una persona vera. Per fare questo Levi non si limita a fornire una «traduzione del dialetto in italiano, né un italiano infetto di dialettalismi inseriti a macchia qua e là; piuttosto un italiano “pensato” in dialetto, la cui dialettalità è giocata, più che sul lessico, sulla sintassi»234. L’elemento sintattico più evidente è sicuramente la dislocazione235, sia a destra che a sinistra, a cui Levi ricorre spesso come si può vedere già nell’incipit del capitolo Clausura:

… Beh, è roba da non crederci: lo capisco che queste cose le è venuto voglia di scriverle. Sì, qualche cosa ne sapevo anch’io, me le raccontava mio padre, che in

Germania c’era stato anche lui, ma in un’altra maniera: ogni modo, guardi, io lavori

in Germania non ne ho presi mai, sono terre che non mi sono mai piaciute, e mi arrangio a parlare tante lingue, ma di tedesco non ne so neanche una parola. Un giorno o l’altro gliela voglio raccontare, la storia di mio padre prigioniero di guerra.

233 DE RIENZO 1978, p. 124. 234 MENGALDO 1990, p. 213. 235 Ivi, p. 209.

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[…] E neppure in prigione non ci sono mai stato, perché oggi come oggi per finire in prigione bisogna farla abbastanza grossa [CS 1043].

Nell’arco di poche righe si trovano ben otto dislocazioni di cui due concatenate: all’interno di una dislocazione a destra, in cui l’elemento dislocato è un intera frase, si ritrova anche una dislocazione a sinistra: «lo capisco che queste cose le è venuto voglia di scriverle». Questo passaggio di Clausura presenta inoltre un caso particolare di pleonasmo: invece del più comune pleonasmo di pronome complemento, che compare abbondantemente nel corso del libro (si pensi al passo citato nel paragrafo precedente «a

me i sogni mi piace farli venire veri»), qui troviamo una doppia negazione non necessaria

«neppure in prigione non ci sono mai stato». Sempre in questa citazione si possono notare alcuni modi colloquiali tipici del parlato. Iniziare il periodo con l’esclamazione «Beh» trasporta subito il lettore in una dimensione orale piuttosto che scritta. Stessa cosa vale anche per la frase, tipicamente colloquiale, «è roba da non crederci». Sempre collegato al parlato è il verbo «guardi» che non ha nessuna funzione all’interno del discorso se non quello di intercalare: infatti la frase avrebbe senso compiuto anche senza.

Anche il lessico, oltre alla sintassi, gioca un ruolo importante per costruire il parlato di Faussone. I punti di forza in questo caso sono l’utilizzo di termini dialettali piemontesi, quello di termini tecnici legati al mestiere di montatore e la resa di alcuni forestierismi con grafie corrispondenti alla pronuncia italiana236. Di termini e modi di dire dialettali se ne trovano in abbondanza in ogni capitolo. Alcuni esempi sono «farlecca», “cicatrice”; «fargli la fisica», “fare il malocchio”; «siulòt», “cipollini”; «resto panato», “essere fritto”; «laiani», “fannulloni”; «mucco mucco» “mortificato, umiliato”; «mettere la berta in sacco» “tacere”; ecc. Un caso particolare è il termine «malizia» che compare nel titolo del primo capitolo, Meditato con malizia: in questo caso il significato della parola è da intendersi come “disposizione ad operare il male”, significato comune dell’italiano. Nel corso del libro però la parola malizia ricompare invece con il significato della parola piemontese «malissia», “astuzia”237, come ad esempio in Tiresia: «tutti i sette sentimenti

e le malizie» [CS 1070], oppure in Batter la lastra: «era un mestiere come tutti i mestieri, fatto di malizie piccole e grosse» [CS 1097]. C’è poi un caso in cui il narratore interviene direttamente perché, nel riportare il racconto, ha dovuto modificare una parola facendone perdere le origini dialettali: «Lui veramente aveva detto “’na fija”, ed infatti, in bocca sua,

236 MENGALDO 1990, p. 212. 237 VILLATA 2018.

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il termine “ragazza” avrebbe suonato come una forzatura, ma altrettanto forzato e manierato suonerebbe “figlia” nella presente trascrizione» [CS 1067]. Né “ragazza” né

tantomeno “figlia” sono termini in grado di rispecchiare il dialettale «fija» e per questo Levi si sente in dovere di spiegare il motivo dello snaturamento. L’autore aveva già compiuto questa operazione anche in Arsenico quando recupera l’etimologia della parola ciabattino da «caglié». Tipico del dialetto piemontese è anche l’uso riflessivo di alcuni verbi che normalmente sarebbero invece attivi ad esempio «tutti i ragazzi si sognano» [CS 1037] invece del regolare “tutti i ragazzi sognano”. I tecnicismi provenienti dall’ambito lavorativo sono molto frequenti, specialmente quando si tratta di fare dei paragoni, ad esempio: «essere in bolla d’aria» con riferimento alla livella che permette di stabilire se un supporto è in piano grazie alla bolla d’aria contenuta al suo interno; oppure «essere fuori quadro», con riferimento ad una posizione scorretta degli elementi di montaggio. Il libro stesso si apre con una metafora, tra il raccontare e il costruire, giocata tutta su termini tecnici: «Lei poi, se proprio lo vuole raccontare, ci lavora sopra, lo rettifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli dà un po’ di bombè e tira fuori una storia» [CS 1037]. Infine, la serie di forestierismi molto più ridotta: nàit; flading; Samuliòt, blugins, Srimp, ecc.

Il linguaggio di Faussone è dunque molto diverso dall’«italiano marmoreo» che Levi ha impiegato nel Sistema periodico. L’autore però non abbandona la sua cifra stilistica: infatti nonostante gran parte della scena sia occupata dal montatore, il suo interlocutore si esprime invece in corretto italiano letterario, ricalcando le caratteristiche tipiche dello stile di Levi e del suo scrivere «chiaro». Eppure una contaminazione tra i due ambiti c’è: infatti anche l’alter ego di Levi si lascia trascinare nel gioco del raccontare storie. Non soltanto riporta le avventure di Faussone al lettore, ma in Acciughe I e

Acciughe II, è lui a raccontare due vicende personali al montatore, abbandonando il suo

ruolo di ascoltatore: «La novità linguistica di CS è infine dimostrata dal fatto che il parlare popolar-dialettale di Faussone contagia quello del narratore»238.