Mnemagoghi, Il fabbro di sé stesso
3.2. Radici profonde: ebraismo e alpinismo
Ci sono, nell’aria che respiriamo, i cosiddetti gas inerti. Portano curiosi nomi greci di derivazione dotta […] Sono, appunto, talmente inerti, talmente paghi della loro condizione, che non interferiscono in alcuna reazione chimica, non si combinano con alcun altro elemento, e proprio per questo sono passati inosservati per secoli […] Non deve essere un caso se le vicende che loro vengono attribuite, per quanto assai varie, hanno in comune qualcosa di statico, un atteggiamento di dignitosa astensione, di volontaria (o accettata) relegazione al margine del gran fiume della vita. Nobili, inerti, rari: la loro storia è assai povera rispetto a quella di altre illustri comunità ebraiche dell’Italia e dell’Europa [SP 861].
Il primo capitolo del Sistema periodico, Argon, funge da prologo della storia dell’autore. Levi scrive una microstoria dei suoi antenati, risalendo dalle origini della comunità ebraica piemontese per arrivare sino alla sua infanzia. L’ebraismo è, assieme all’alpinismo, una delle due radici identitarie di Levi. Eppure l’autore per lungo tempo non si è riconosciuto nell’etichetta di «scrittore ebreo» che la critica gli attribuiva: «dai miei lettori e dalla critica, in Italia ed all’estero, io vengo considerato uno ‟scrittore ebreo”. Ho accettato questa definizione di buon animo, ma non subito e senza resistenze» [PS 1571]. Queste resistenze derivano principalmente dal modo in cui Levi interpreta la propria identità ebraica: «l’ebraismo è per me una tradizione e una cultura, ed entrambi gli aspetti mi interessano. Mi interesserebbero anche se non fossi ebreo, io penso»165 L’identità ebraica non deve essere intesa in termini etnici o religiosi, ma piuttosto come fatto culturale166.
165 LEVI 1986, p. 166 PORRO 2017, p. 135.
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In effetti il capitolo Argon non si concentra sulla religione ebraica in sé, bensì sull’aspetto linguistico e culturale specifico della comunità ebraica piemontese: attraverso l’analogia scherzosa tra l’argon e i suoi antenati, Levi descrive aneddoti giocosi aventi per protagonisti «personaggi bizzarri e remoti», i barba e le magne di cui si è conservata memoria nella comunità a cui levi stesso apparteneva. La comunità ebraica piemontese, così come emerge anche dal racconto Argon, era una comunità integrata:
Come la maggior parte degli ebrei di antica discendenza italiana, i miei genitori e nonni appartenevano alla media borghesia ed erano profondamente integrati nel paese come lingua, costumi ed orientamenti morali. Nella mia famiglia la religione contava poco […] Cionondimeno, sia nella mia famiglia, sia nella generalità degli ebrei italiani, la coscienza del proprio ebraismo non era spenta. Si manifestava nella conservazione di alcuni rituali familiari […] nell’importanza che veniva attribuita allo studio, ed in una modesta ma interessante differenziazione linguistica [PS 1573- 1574].
La differenziazione linguistica è alla base del racconto Argon, ma nel passaggio conclusivo si ritrovano anche gli altri due tratti della coscienza ebraica familiare che Levi descrive in questo passaggio. Il giovane Levi si reca assieme al padre a fare visita alla nonna e nel tragitto si ferma ad acquistare del prosciutto:
Non che comprasse quest’ultimo a cuor leggero: piuttosto superstizioso che religioso, provava disagio nell’infrangere le regole del Kasherút, ma il prosciutto gli piaceva talmente che, davanti alla tentazione delle vetrine, cedeva ogni volta, sospirando, imprecando sotto voce, e guardandomi di sottecchi, come se temesse un mio giudizio o sperasse in una mia complicità [SP 873].
Le prescrizioni del Kasherút proibiscono di mangiare il maiale e l’effrazione del padre di Levi non è perpetrata tranquillamente, ma avvolta da un vago senso di colpa proprio perché non sta rispettando una tradizione (più che un precetto sacro). Poco dopo, non appena giungono a casa della nonna, il padre di Levi la saluta gridandole in un orecchio: «‟A l’è ‘l prim ‘d la scòla!”, è il primo della classe» [SP 873]. Anche questa, come l’acquisto del prosciutto, è una scena reiterata più volte, da cui trapela non solo l’orgoglio del padre per la bravura del figlio, ma anche l’importanza che lo studio aveva in famiglia.
Nonostante l’infanzia trascorsa nella tradizione ebraica, Levi ha acquisito una propria coscienza ebraica solo a seguito delle leggi razziali:
Se non ci fossero state le leggi razziali e il Lager, io probabilmente non sarei più ebreo, salvo che per il cognome: invece, questa doppia esperienza, le leggi razziali e
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il Lager, mi hanno stampato come si stampa una lamiera: ormai ebreo sono, la stella di David me l’hanno cucita e non solo sul vestito167.
L’ebraismo è diventato parte integrante di Levi come persona e per questo ha invaso la sua scrittura. Nella prima parte del Sistema periodico, Levi ripercorre il progressivo risvegliarsi della sua coscienza ebraica proprio a seguito della discriminazione fascista. Prima di allora infatti Levi non si era mai sentito diverso dai suoi coetanei:
Perché ebreo sono anch’io, e lei no: sono io l’impurezza […] l’impurezza, certo: poiché proprio in quei mesi iniziava la pubblicazione di «La Difesa della Razza», e di purezza si faceva un gran parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro. Per vero, fino appunto a quei mesi non mi era importato molto di essere ebreo: dentro di me, e nei contatti coi miei amici cristiani, avevo sempre considerato la mia origine come un fatto pressoché trascurabile ma curioso, una piccola anomalia allegra, come chi abbi il naso torto o le lentiggini [SP 886].
Nel capitolo Zinco Levi prova ad avvicinare una sua compagna di corso, trovandosi di fronte un doppio ostacolo: la sua nota timidezza e la sgradita sorpresa di essere considerato dal proprio paese diverso e impuro: «siamo nel 1938, le leggi razziali in Italia non sono ancora state proclamate, ma si sentono nell’aria: giornali e riviste, orchestrati dal regime totalitario, parlano insistentemente degli ebrei come diversi, come nemici potenziali (o attuali) del fascismo, come ‟impurezze” nocive» [PS 1575]. L’essere ebreo non è più solo una curiosità sul proprio conto, ma comincia diventare un tratto distintivo in negativo:
Da pochi mesi erano state proclamate le leggi razziali, e stavo diventando un isolato anch’io. I compagni cristiani erano gente civile, nessuno tra loro né fra i professori mi aveva indirizzato una parola o un gesto nemico, ma li sentivo allontanarsi, e, seguendo un comportamento antico, anch’io me ne allontanavo: ogni sguardo scambiato fra me e loro era accompagnato da un lampo minuscolo, ma percettibile, di diffidenza e di sospetto. Che pensi tu di me? Che cosa sono io per te? Lo stesso di sei mesi addietro, un tuo pari che non va a messa, o il giudeo che «di voi tra voi non rida?» [SP 890].
Il comportamento antico è quello delle comunità ebraiche della diaspora, le quali, solitamente costrette nei ghetti, tendevano a non integrarsi. Per pura fortuna Levi era già iscritto all’università quando vennero emanate le leggi razziali, altrimenti non gli sarebbe stato concesso di farlo. Impedivano tuttavia a Levi di laurearsi con un tesi sperimentale,
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e quindi sostanzialmente di laurearsi. La difficoltà di trovare un docente disposto a prenderlo come assistente è descritta in Potassio: «nel giro di quei mesi avevo fatto disperati tentativi di entrare come allievo interno presso questo o quel professore. Alcuni, a bocca torta o magari con burbanza, mi avevano risposto che le leggi razziali lo vietavano; altri avevano fatto ricorso a pretesti fumosi e inconsistenti» [SP 809]. Grazie all’Assistente, alias Nicolò Luciano Dallaporta Xydias168, «antifascista naturaliter», Levi
riuscì a laurearsi lo stesso a pieni voti, ma anche in questo caso le leggi razziali lasciarono un segno: «avevo in un cassetto una pergamena miniata, con su scritto in eleganti caratteri che a Primo Levi, di razza ebraica, veniva conferita la laurea in chimica con 110 e lode: era dunque un documento ancipite, mezzo gloria e mezzo scherno, mezzo assoluzione e mezzo condanna» [SP 906]. Quella tesi, di per sé una vittoria contro il fascismo, diventa scherno e condanna per l’annotazione «di razza ebraica», precisazione che rendeva difficile a Levi trovare lavoro.
L’ essere ebreo per Levi diventa anche motivo di orgoglio: il regime considerava gli ebrei un’impurezza della razza, ma in chimica l’impurezza permette la reazione, ovvero il modificarsi della materia e quindi, per estensione, la vita stessa. Nel momento in cui vengono promulgate le leggi razziali, essere ebreo diventa anche automaticamente un modo per essere nemico del fascismo e Levi era intrinsecamente antifascista: «perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono […] il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale» [Sp 884]. Questa forma di rivalsa sarà fatale a Levi al termine della breve esperienza partigiana: nel capitolo Oro l’autore ricorda come, durante l’interrogatorio della spia Cagni, questi insinuasse di sapere che Levi fosse ebreo per convincerlo a collaborare: «O ero ebreo, o ero partigiano; se partigiano, mi metteva al muro; se ebreo, bene c’era un campo di raccolta a Carpi […] Ammisi di essere ebreo: in parte per stanchezza, in parte anche per una irrazionale impuntatura d’orgoglio» [SP 958]. Questa ammissione e il successivo trasferimento al campo di Fossoli furono i primi passi verso la deportazione ad Auschwitz.
Connesso all’ebraismo è, nel Sistema periodico, il tema dell’alpinismo: nel capitolo
Ferro l’emarginato Levi si ritrova a scoprire l’esperienza della montagna grazie a Sandro,
altro isolato nel corso di chimica che frequentavano: «lui aveva un’altra materia a cui condurmi, un’altra educatrice […] l’autentica Urstoff senza tempo, la pietra e il ghiaccio
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delle montagne vicine. Mi mostrò senza fatica che non avevo le carte in regola per parlare di materia» [SP 892]. È grazie a Sandro che Levi scopre la passione per l’alpinismo. Andare su roccia era un modo per mettersi alla prova e misurare le proprie capacità, di prendere le proprie decisioni e di sbagliare anche. Per un errore di calcolo Sandro e Levi sono costretti a passare la notte all’addiaccio in montagna:
Era questa la carne dell’orso: ed ora che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino. Perciò sono grato a Sandro per avermi messo coscientemente nei guai, in quella e in altre imprese insensate solo in apparenza, e so con certezza che queste mi hanno servito più tardi [SP 896].
Sbagliare è una prova di libertà e anche un’occasione per imparare, volendo anche per opporsi al fascismo: «era una forma assurda di ribellione […] Tu, fascista, mi discrimini, mi isoli, dici che sono uno che vale di meno, inferiore, unterer: ebbene, io ti dimostro che non è così»169. L’alpinismo come lo praticavano Sandro e Levi era un continuo superare i propri limiti per dimostrare a sé stessi di potercela fare. Per Levi diventa anche un metodo di rivalsa nei confronti delle leggi razziali che lo definivano inferiore: un’altra forma di orgoglio simile a quello provato per l’essere ebreo. La passione per la montagna ha però radici, come l’ebraismo, nella famiglia di Levi: «ho cominciato ad andare in montagna a 13, 14 anni […] nella mia famiglia c’era la tradizione della montagna che fortifica, un po' l’ambiente che Natalia Ginzburg descrive in Lessico famigliare. Non l’alpinismo propriamente detto, non le scalate… Si andava in montagna così, per il contatto con la natura»170. La montagna resta una costante nella giovinezza di Levi, anche con l’approssimarsi della guerra, anzi, diventa un punto di riferimento:
Il Piemonte era la nostra patria vera, quella in cui ci riconoscevamo; le montagne attorno a Torino, visibili nei giorni chiari, e a portata di bicicletta, erano nostre, non sostituibili, e ci avevano insegnato la fatica, la sopportazione, ed una certa saggezza. In Piemonte, e a Torino, erano insomma le nostre radici, non poderose ma profonde, estese e fantasticamente intrecciate [SP 898].
Primo Levi sente le sue radici in Piemonte, nella tracce che la comunità ebraica piemontese ha lasciato su di lui tramite la sua famiglia, e nelle montagne, simbolo di
169 PAPUZZI 1984, p. 424. 170 Ivi, p. 423.
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libertà, di possibilità, ma anche di conoscenza. La montagna «suscitava in me una comunione nuova con la terra e il cielo, in cui confluivano il mio bisogno di libertà, la pienezza delle forze, e la fame di capire le cose che mi avevano spinto alla chimica» [SP 894].
Mentre il tema dell’alpinismo non troverà altro spazio letterario oltre al racconto
Ferro (e la sua prima stesura: La carne dell’orso), l’ebraismo, sempre inteso come
elemento culturale, è un tema che percorre tutta la scrittura di Levi: «l’esperienza delle leggi razziali mi ha aiutato a riconoscere, tra i molti filoni della tradizione ebraica, alcuni che mi piacevano […] L’indipendenza spirituale, che aveva suscitato e guidato le ribellioni dei giudei contro i romani. Anche la tradizione talmudica della discussione appassionata ma precisa, e quella della religione del libro»171. Questi filoni compaiono persino nelle raccolte di racconti cosiddetti fantascientifici. Un esempio è il racconto Il
Servo, raccolto in Vizio di forma, dove Levi rielabora il mito ebraico del golem, creatura
costruita dall’argilla e capace di rispondere a determinati comandi. Nella cultura ebraica Dio creò Adamo come un golem, ovvero forgiando l’argilla e imprimendo su di essa la parola sacra affinché si animasse. Oltre alla rielaborazione del mito questo racconto può inoltre essere considerato un midrash:
Termine che nella tradizione ebraica sta ad indicare un esercizio di ermeneutica pedagogica che ‟inventa” storie e dialoghi immaginari su personaggi biblici e che intenzionalmente forza il testo originale […] per ricavarne un insegnamento morale […] la storia del golem è un midrash moderno perché è già la storia di un apprendista stregone che gioca con una tecnologia che gli sfugge di mano172.
Il golem creato dal rabbino per svolgere lavori pesanti si rifiuta infine di obbedire distruggendo la casa del suo creatore. È un midrash anche il racconto Procacciatori di
affari173, appartenente alla medesima raccolta. Nel racconto i lettore assiste al dialogo tra
dei funzionari, interpretabili come angeli, ed un’anima in procinto di incarnarsi sulla terra. Secondo un’antica credenza ebraica infatti le anime attendono in un loro limbo di incarnarsi nel mondo. L’insegnamento morale è simile a quello del racconto Il servo. In un dialogo a tu per tu tra uno dei funzionari e l’anima, l’angelo-funzionario è costretto ad ammettere che «i piani terrestri presentano una faglia, un vizio di forma». Il vizio di forma è insito nella natura umana, nella non consapevolezza dei propri limiti. È compito degli
171 BRUCK 1976, p. 85. 172 GIULIANI 2015, p. 55-62. 173 Ivi, p. 57
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uomini, delle anime elette, (secondo l’idea ebraica del tiqqun ha’olam) riparare o correggere questo vizio di forma. Altri due racconti che trattano il tema della cultura ebraica si ritrovano in Lilít nella sezione passato prossimo. Il primo è proprio quello che dà il nome alla raccolta: per ripararsi da un temporale in Lager, Levi incontra un altro deportato, il Tischler. Questi rievoca la storia, appartenente alla tradizione popolare ebraica, di Lilít, prima moglie di Adamo. Al di là del tema del racconto anche il gioco che si istaura tra i due personaggi e tipico della cultura ebraica : «Si andava delineando una situazione tipica ed un gioco che mi piaceva, la disputa tra i pio e l’incredulo che è ignorante per definizione, ed a cui l’avversario, dimostrandogli il suo errore “fa digrignare i denti”» [L 252]. Il secondo racconto è invece Il cantore e il veterano che vede protagonista Ezra, orologiaio e cantore ebreo rinchiuso in Lager, che nel giorno di Kippur, giorno di purificazione e perdono, rifiuta la razione di zuppa quotidiana pur di rispettare la tradizione.
Il testo di Levi in cui la cultura ebraica gioca un ruolo molto importante è Se non
ora quando?. Il romanzo, pubblicato nel 1982, narra il viaggio verso Israele di un gruppo
di partigiani ebrei:
In un romanzo epico, qual è Se non ora quando?, le persone possono essere tante, ma è sempre la stessa persona che parla, da luoghi diversi della propria psiche. Ed è sempre l’anima ebraica che parla con se stessa, specchiandosi nei suoi dubbi, e dando così la parola ai recessi più nascosti ed intimi della sua esistenza174.
L’influsso della cultura ebraica è ravvisabile fin dal titolo: «Il titolo del romanzo è tratto dal Pirké Avoth (Le massime dei Padri, sec. II d.C., raccolta compresa nel Talmud): ‟Se non sono io per me, chi sarà per me? E quand’anche io pensi a me, che cosa sono io? E se non ora, quando?”»175. Il protagonista, Mendel, orologiaio senza più patria, distrutta
dai nazisti, è in un certo senso il prototipo della Diaspora: senza radici, costretto a vagare per l’Europa nell’intento di ricostruirsi un futuro. Mendel è un personaggio dalla forte valenza simbolica a partire dal nome, che significa “Consolatore”. Tradizione vorrebbe che il protagonista consoli gli altri, ma questo non avviene: «un uomo non ha colpa del nome che porta: io mi chiamo Consolatore e non consolo nessuno, neppure me stesso» [SNOQ 648]. Mendel non consola nessuno, perché non è capace neanche di consolare sé stesso in un mondo in cui tutti i valori tradizionali sono saltati. Anche il suo mestiere di
174 MEGHNAGI 1991, p. 296. 175 MATTIODA 2011, p. 149.
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orologiaio ha un’importanza particolare nella cultura ebraica: «il tempo va contato accuratamente, poiché è il tempo dell’esilio, della diaspora delle genti dalla terra promessa, ma è anche il tempo dell’attesa del messia. Di qui l’importanza dell’orologiaio nella cultura ebraica»176. L’orologiaio è un uomo che aggiusta e Mendel vorrebbe poter rimediare alla distruzione del suo piccolo mondo, che pur prima malediceva, riavvolgendo il tempo. Sa però che questo non è possibile e si ritrova bloccato in una dimensione dal tempo fermo, tema con cui si apre il romanzo. Mendel è insomma un personaggio dall’anima ebraica che dà ampio spazio ai propri dubbi cercando di ricostruire sé stesso. Passando dall’inizio alla fine del romanzo, nel capitolo Luglio-
Agosto 1945, il personaggio Gedale, portatore anch’egli di un nome che non lo
rappresenta, suona un motivo con il violino mentre il treno che trasporta i partigiani valica il Brennero, l’ultimo viaggio verso Israele. «Il violino è un simbolo costitutivo dell’esperienza ebraica dell’esilio. Con esso gli ebrei hanno allietato le loro serate nelle calde e tiepide terre del Sud e nelle notti di gelido inverno polacco»177. Il violino può portare gioia o dolore (come accade nelle prime pagine si Se questo è un uomo), ma rimane comunque simbolo dell’esilio perché accompagna il viaggio. Per questo motivo il violino di Gedale si spezza mentre lo sta suonando: per i personaggi di Se non ora
quando? il passaggio del Brennero è l’ultimo viaggio verso il ritorno in patria, verso la
fine dell’esilio.
La voglia di scrivere questo romanzo nasce in Levi con il sorgere di una «polemica inter-generazionale […] sul comportamento degli ebrei di fronte alla strage nazista: veramente si erano lasciati condurre al macello senza resistere?» [PS 1563]. Levi desidera intervenire nel dibattito cercando di appellarsi alle sue esperienze e anche alla sua posizione di scrittore. Si potrebbe dire infatti che Se non ora quando? sia un seguito finzionale della Tregua. Durante il suo peregrinare in treno Levi, ad un certo punto, descrive come un vagone di giovani partigiani ebrei si fosse agganciato al treno con destinazione Israele. La materia prima del romanzo nasce da questo incontro sfuggente. L’interesse di Levi per questo tema nasce anche dalla «viva curiosità per la cultura ebraico-orientale, favolosamente ricca e vitale, eppure destinata al trapianto o all’estinzione» [PS 1564]. Levi entrò in contatto con la cultura ebraica orientale in Lager, ma ne ottenne una conoscenza superficiale. Per scrivere il libro quindi Levi studiò per un anno intero. Si dedicò alla lettura di materiali sulla cultura ebraica orientale (che si riflette
176 Ivi, p. 150.
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sui personaggi, sia nei nomi che nel loro modo di pensare), studiò lo yiddish (la pretesa del libro infatti è quella di far parlare i personaggi come se i loro discorsi fossero tradotti dallo yiddish) e documenti storici.