• Non ci sono risultati.

Lo stile: l’italiano marmoreo, il plurilinguismo e altre impurità linguistiche

Un testo che mette ordine tra i propri elementi, con l’intento di trasmettere l’esperienza vissuta al lettore, richiede il medesimo rigore imposto alla struttura anche nella lingua in cui viene scritto. La lingua del Sistema periodico è esemplare del modo di scrivere di Levi: uno stile piano, con il gusto per la brevitas pregnante, che mira ad ottenere precisione, chiarezza e trasparenza60. Una scelta naturale, se si considera che l’esigenza narrativa di Levi scaturisce dal bisogno di testimoniare, capire e trasmettere quanto ha vissuto ad Auschwitz, lottando anche contro una teoria dell’indicibilità comune a molti superstiti. La tendenza a misurare il linguaggio, dosando le parole e mettendole al posto giusto, è andata oltre la necessità primaria della testimonianza ed è diventata il tratto distintivo dello stile di Levi. L’autore riassume compiutamente le sue idee in merito alla scrittura nell’articolo Dello scrivere oscuro, pubblicato nel 1976 su La Stampa:

A mio parere non si dovrebbe scrivere in modo oscuro, perché uno scritto ha tanto più valore, e tanta più speranza di diffusione e di perennità, quanto meglio viene compreso e quanto meno si presta ad interpretazioni equivoche. [AM 839]

58 BALDISSONE 2016, pp. 16-26. 59 Ibidem.

38

Un testo deve essere scritto in modo da agevolarne la comprensione ed evitare potenziali incomprensioni. Levi però è consapevole che un testo puramente trasparente non è possibile, perché nel processo dello scrivere emerge comunque quel «Doppelgänger, fratello muto e senza volto» che è l’Es. Ne deriva che molto spesso i critici letterari scoprono nei testi cose che gli stessi autori non sapevano di aver scritto. Riferendosi allo scrivere in modo oscuro, Levi parla di una scrittura irrazionale scaturita dall’Es:

È un fatto contro cui non si può combattere: questa fonte di inconoscibilità e di irrazionalità che ognuno di noi alberga dev’essere accettata, anche autorizzata ad esprimersi nel suo (necessariamente oscuro) linguaggio, ma non tenuta per ottima od unica fonte di espressione. [AM 840]

Il «linguaggio del cuore» non è uguale per tutti, ma anzi è soggettivo e mutevole come le mode, per cui il rischio dello scrittore che si affida a questo linguaggio è quello di ritrovarsi a gridare da solo nel deserto, di non essere compreso. Ciò che più preme a Levi è però altro:

Neppure è vero che solo attraverso l’oscurità verbale si possa esprimere quell’altra oscurità di cui siamo figli, e che giace nel nostro profondo. Non è vero che il disordine sia necessario per dipingere il disordine; non è vero che il caos della pagina scritta sia il miglior simbolo del caos ultimo a cui siamo votati. [AM 843]

Levi sta cercando di esorcizzare proprio il caos linguistico contro il quale ha sempre mostrato poca simpatia fin da Se questo è un uomo: il caos, l’indicibile, l’inimmaginabile devono essere compresi e comunicati grazie all’uso del linguaggio articolato. Levi sceglie appunto quello dell’italiano letterario: «Per esorcizzare l’anarchia della parola non vi è nulla di meglio dell’italiano “marmoreo” cui Levi, nonostante ogni critica, rimane fedele»61. Cases fa qui riferimento ad un passaggio del Sistema periodico: nel racconto

Arsenico, Levi si trova a discorrere con un ciabattino torinese che ha portato ad analizzare

un pacco di zucchero rivelatosi contaminato con l’arsenico:

Era palese che non attendeva altro se non una minima sollecitazione da parte mia per raccontarmi una storia; non gliela feci mancare, e la storia è questa, un po’ deperita per effetto della traduzione dal piemontese, linguaggio essenzialmente parlato, all’italiano marmoreo, buono per le lapidi [SP 987]

39

In questo caso la chiarezza che scaturisce dall’uso dell’italiano, utilizzato per permettere ai lettori la comprensione del racconto in dialetto, è un fattore negativo e limitante perché non può dar conto della coloritura del parlato piemontese, con argute venature astigiane, del ciabattino. L’italiano è talmente deleterio da valergli gli appellativi di marmoreo e buono per le lapidi: una lingua inflessibile e incorruttibile e sostanzialmente inespressiva.

Il pericolo della sterilità di una lingua pura e perfettamente trasparente compare anche in altri scritti di Levi. Nell’articolo La Cosmogonia di Queneau, Levi commenta l’opera dell’autore francese, rivisitando le sue convinzioni in merito alla scrittura:

Ho sempre pensato che si deve scrivere con ordine e chiarezza; che scrivere è diffondere un messaggio, e che se il messaggio non è compreso la colpa è del suo autore; che perciò uno scrittore beneducato deve fare in modo che i suoi scritti siano capiti dal massimo numero di lettori e con il minimo di fatica. Mi vedo costretto a rivedere questi principi: penso che continuerò a scrivere come mi sono prescritto, ma penso anche che Queneau abbia fatto benissimo a scrivere nel suo modo che è esattamente opposto al mio, e che mi piacerebbe scrivere come lui se ne fossi capace. [AM 918]

Cosa distingue l’opera di Queneau dagli altri testi citati nel precedente saggio? Un senso nell’opera di Queneau c’è, non è per tutti, non è immediato, ma lo stile complesso e ricco di rimandi letterari è soddisfacente per il lettore che abbia la pazienza di portare a termine la lettura. È una scrittura complessa, ma non irrazionale, non votata al caos. «Ci sono scrittori che sotto al fracasso del discorso sgangherato e dissestato non nascondono nulla»62, l’autore francese non rientra fra questi. Analoga considerazione viene fatta per Kafka: Levi effettuò una traduzione del Processo che gli creò non pochi problemi, soprattutto per il modo di scrivere di Kafka, radicalmente diverso al suo:

Ora, io amo e ammiro Kafka perché scrive in un modo che mi è totalmente precluso. Nel mio scrivere, nel bene o nel male, sapendolo o no, ho sempre teso a un trapasso dall’oscuro al chiaro, come […] una pompa-filtro, che aspira acqua torbida e la espelle decantata: magari sterile. [RS 1096]

Di nuovo la purezza dello stile viene messa in discussione. Levi ha in generale una cattiva considerazione per il concetto di purezza: al di là dell’ovvio riferimento al mito subito della purezza della razza durante il periodo fascista, l’idiosincrasia viene piuttosto dalla chimica. Dalla purezza assoluta non germina nulla: sono l’impurità e l’imperfezione ciò che permette la reazione chimica e quindi la vita stessa: i gas nobili, perfetti così come

40

sono nel loro orbitale esterno completo, non reagiscono con niente. Un caso eloquente è quello descritto in Zinco: il giovane Levi, ammesso al laboratorio di chimica, si trova a dover preparare il solfato di zinco come esercizio; le sue conoscenze in merito a questo elemento lo portano ad una riflessione:

Il così tenero e delicato zinco, così arrendevole davanti agli acidi, che se ne fanno un sol boccone, si comporta invece in modo assai diverso quando è molto puro: allora resiste ostinatamente all’attacco. Se ne potevano trarre due conseguenze filosofiche tra loro contrastanti: l’elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo: l’elogio dell’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. […] Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape. [SP 884]

Lo stile e la lingua di Levi, che dalla chimica discendono, non possono comportarsi diversamente:

Questo senso dell’ordine che dagli atomi, dalle molecole, dal sistema periodico, si trasfonde naturalmente nel discorso è così forte che non teme il confronto con ordini linguistici diversi […] La chimica linguistica è anche alchimia, purché dalla combinazione eterodossa degli elementi risulti un composto cui presieda ugualmente una forza ordinatrice. Anzi una lingua troppo perfetta e armonica urta contro un fondamentale principio leviano: la necessità dell’imperfezione63.

La chimica linguistica deve possedere le caratteristiche del «‟weekly report” che si usa fare nelle fabbriche; deve essere conciso, preciso, e scritto in un linguaggio accessibile a tutti i livelli della gerarchia aziendale»64. Deve realizzarsi «col massimo rigore e il minimo ingombro» [SP 973] e contemporaneamente contenere delle imperfezioni che colorino il testo. Le prime due caratteristiche sono garantite dall’uso dell’italiano letterario. L’ultima è invece raggiunta attraverso un uso pacato di plurilinguismo e ed altre impurità stilistiche.

Pier Vincenzo Mengaldo evidenzia le caratteristiche dell’italiano usato dall’autore. Pur trattandosi di un’analisi generale, i risultati sono validi anche per Il sistema periodico. Per quanto riguarda il periodare, prevalgono le strutture paratattiche, che rispondono all’esigenza di essenzialità del discorso65; strutturalmente rilevante è anche la ripetizione

63 Ivi, 1987, p.7. 64 ROTH 1986, p. 1080. 65 MENGALDO 1990, p 171.

41

che permette a Levi di articolare con chiarezza i diversi segmenti del discorso, favorendo quindi la paratassi66. La patina letteraria è invece ravvisabile in numerosi fenomeni

linguistici. Il più evidente è l’utilizzo sistematico di ad, ed, e persino od di fronte a vocale, anche se rispettivamente diversa, talvolta presente sotto forma di accumuli: «[…] ed incerti […] ed usato per descrivere una merce od una persona di scarso valore» [SP 866]. Altra caratteristica è la collocazione letteraria degli aggettivi (che coinvolge più raramente anche nomi e verbi). Solitamente Levi si limita alla coppia o alla terna, cercando di evitare la pura ripetizione sinonimica: gli elementi sono per lo più disposti a climax, apparentati da legami fonici o ritmici, oppure giocati sulla diversità semantica67: «Giulia era una ragazza bruna, minuta ed espedita» [SP 943]; «[…] la chimica solitaria, inerme ed appiedata» [SP 1010]; «khanèc […] allude al collo come percorso vitale che può venire ostruito, occluso, reciso» [SP 870.]; «la nostra fame […] era un bisogno, una

mancanza, uno yearning» [SP 962]. Ci sono dei rari casi in cui si verificano dei veri e

propri accumuli68: «[…] due tipi di lettera; una lettera umile, calda, cristiana, di tedesco redento; una ribalda, superba, glaciale, di nazista pervicace […] meno pettinata, più

ruvida, meno rotonda» [SP 1021]. Si ritrovano poi sparsi nel testo grecismi e latinismi. Il

grecismo più rilevante nel Sistema periodico è sicuramente la hyle che compare in Zinco e sulla quale Levi innesta un riflessione linguistica: «la Hyle, che curiosamente si ritrova imbalsamata nelle desinenze dei radicali alchilici: metile, butile eccetera» [SP 884]; Alla

hyle si contrappone nei primi capitoli lo spirito, che compare in Potassio con il termine

«usía». Il sistema periodico è più ricco però di latinismi, che hanno per lo più una funzione tecnica69: «famulus» [SP 883]; «sarei diventato un fisico “ruat coelum”» [SP 899]; «spiritus mundi» ed «experimentum crucis» [SP ]; «La Paglietta, poverina, era poco meno che un lusus naturae» [SP 947]; «ossia aurum de stercore» [SP 994]; «”Nihil de

Principe”, nessuna accusa alla IG-Farben» [SP 1023].

Sempre nell’orizzonte di una ricerca di chiarezza va interpretato l’utilizzo che Levi fa delle citazioni, dirette o indirette, da autori e opere di ogni genere, andando dai testi sacri, alla mitologia ad autori contemporanei. Si tratta di un fenomeno di intertestualità che spazia dalla citazione vera e propria all’allusione70. In alcuni casi il riferimento ad un

altro testo si limita solamente al titolo dell’opera o al nome dell’autore che lo ha scritto.

66 Ivi, p. 174. 67 Ivi, pp. 178 - 181. 68 Ivi, p. 184. 69 Ibidem. 70 GENETTE 1997, pp. 3 –10.

42

La funzione di questi elementi intertestuali varia di capitolo in capitolo: a volte le citazioni sono parte integrante dell’episodio presentato nel racconto, come in Zinco. In altre occasioni invece Levi istituisce dei veri e propri paragoni tra ciò che sta narrando e un personaggio, o una particolare situazione, di un altro testo letterario. In ogni caso le citazioni vengono sempre contestualizzate e non sono mai fine a sé stesse. Contribuiscono invece ad arricchire il significato generale dell’episodio narrato. La letteratura ha per Levi un valore comunicativo, permette di esplicitare anche ciò che sembra inenarrabile. Questa era la funzione di Dante all’interno di Se questo è un uomo. Nel Sistema periodico la materia è meno complessa, ma il riferimento letterario contribuisce sempre a regalare al lettore qualcosa in più rispetto alla sola esperienza vissuta. In Argon il Libro della Genesi viene chiamato in causa per spiegare il legame profondo che intercorre tra la lingua ebraica e il dialetto piemontese. Senza il rimando diretto al testo sacro il lettore non avrebbe potuto apprezzare la commistione di sacro e profano che caratterizza il dialetto ebraico-piemontese. Nel racconto Zinco il giovane Levi intrattiene una conversazione con Rita, sua compagna di corso, impegnata anche lei nella preparazione del solfato di zinco:

Fra Rita e me esisteva in quel momento un ponte, un ponticello di zinco, esile ma praticabile; orsù, muovi il primo passo. Ronzando intorno a Rita mi accorsi di una seconda circostanza fortunata: dalla borsa della ragazza sporgeva una copertina ben nota […] era il mio viatico di quei mesi, la storia senza tempo di Giovanni Castorp in magico esilio sulla Montagna Incantata. [SP 885]

Il libro di Thomas Mann è una lettura del giovane Levi, ma si trasforma nell’occasione di confronto tra idee diverse: «mi dovetti presto convincere che lei quel romanzo, lo stava leggendo in tutt’altro modo. Come un romanzo appunto […] Non importa: anzi, c’è un terreno di dibattito» [SP 885-886]. Il libro offre dunque un pretesto per una condivisione formativa e per un’autoriflessione sulla propria condizione di ebreo. In Ferro invece compare Dante che ha avuto un ruolo centrale in Se questo è un uomo: «di voi tra voi non rida» [SP 890] è una citazione da Paradiso V. Dante ritorna anche in Potassio: il professore di fisica si rivolge al giovane Levi con «due parole del Vangelo: “Viemmi retro”» [SP 900]. In realtà le parole del professore non sono tratte dal testo sacro, ma da una citazione che Dante fa di esso in Inferno XIX: «Deh, or mi dì: quanto tesoro volle/ Nostro Segnore in prima da san Pietro/ ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?/ Certo non chiese se non “Viemmi retro”» [INF XIX 90-93]. Come Dio con queste parole affida a San Pietro le chiavi del cielo, senza chiedere null’altro se non la fede, l’assistente, in modo molto più terreno, medita di affidare al giovane Levi le chiavi della verità attraverso

43

lo studio dell’astrofisica: «la fisica era prosa: elegante ginnastica della mente, specchio del Creato, chiave del dominio dell’uomo sul pianeta» [SP 902]. Altra allusione dantesca è il quia: «bisognava andare oltre, non accontentarsi del “quia”, risalire alle origini, alla matematica ed alla fisica» [SP 899]. La parola è tratta da un verso di Dante «State contenti, umana gente, al quia», in Purgatorio III, che contiene un ammonimento di segno opposto rispetto a quello di Levi71. Dante torna anche nel seguente passaggio: «non c’è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria» [SP 904]. Sono le stesse parole che Francesca da Rimini riferisce a Dante nel V canto dell’Inferno72: «E quella a

me: ‟Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice/ ne la miseria» [INF V 121- 123]. In Potassio compaiono anche due rimandi all’ Orlando furioso. Il primo è l’ippogrifo, fantastica creatura alata che accompagna i paladini nelle loro meravigliose avventure: «Non inforcai il nuovo gigantesco ippogrifo che l’Assistente mi offriva» [SP 902], ovvero la possibilità di dedicarsi all’astrofisica e scoprire «l’intima essenza delle cose e dell’uomo». Il secondo è invece una citazione esplicita al XXXIV canto: «trovai dozzine di ampolle etichettate, come Astolfo sulla Luna» [SP 903]. Levi ricorre a Dante anche in Nichel, nella descrizione dell’enorme cava, paragonata ad un girone infernale, che contribuisce al clima soprannaturale del racconto. Connesso a questo elemento è probabilmente anche la scelta della mitologia classica che compare proprio ad inizio del capitolo: «Suonò il campanello: era un giovane […] ed io non tardai a ravvisare in lui la figura del messaggero, del mercurio che guida le anime, o se vogliamo dell’angelo annunciatore: di colui insomma […] che ti fa cambiare vita» [SP 906]. Si tratta del tenente che inviterà Levi a lavorare nella cava di amianto dalle tinte magiche: soprannaturale il luogo, soprannaturale anche il suo messaggero. Sempre in questo racconto compare anche una citazione di Cesare Pavese: «Siamo chimici, cioè cacciatori: ‘nostre sono le due esperienze della vita adulta’ di cui parlava Pavese, il successo o l’insuccesso» [SP 916].

L’importanza del passaggio è relativa al momento che Levi sta vivendo: soltanto la chimica, in un contesto educativo fascista, fornisce i mezzi per diventare adulti consapevoli. Nel racconto immediatamente seguente, Fosforo, compaiono di sfuggita Rabelais, Le macaronee e Moby Dick: sono i libri che Levi porta con sé a Milano e non sono casuali. Rabelais verrà inserito anche nella Ricerca delle radici e costituisce l’ispirazione per Le storie naturali; Le macaronee testimoniano come già levi avesse interesse per fenomeni linguistici singolari; Moby Dick infine richiama la citazione di

71 Ibidem. 72 Ivi, p. 1428.

44

Pavese del capitolo precedente: «uccidere la balena bianca o sfasciare la nave» [SP 916].

Nel racconto Cerio, invece è Levi a paragonarsi ad un personaggio letterario:

Ad un certo punto mi ero accorto […] di stare rivivendo, io dottorino per bene, l’involuzione-evoluzione di un famoso cane per bene, un cane vittoriano e darwiniano che viene deportato, e diventa ladro per vivere nel suo ‹‹Lager›› del Klondike, il grande Buck del Richiamo della Foresta. Rubavo come lui e come le volpi […] rubavo tutto tranne il pane dei miei compagni.›› [SP 962-963]

L’interesse dell’autore è di porre l’accento sul processo di involuzione, rispetto alla società civile, e di adattamento per la sopravvivenza che ha caratterizzato l’esperienza del Lager. Cromo è un racconto particolarmente ricco di citazioni. Per la prima volta in questo capitolo compare l’identificazione tra Levi e il Vecchio marinaio, che sarà poi peculiare di altri testi: «mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbraccia in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi» [SP 971]. Compare poi il Gran Curvo, personaggio allegorico presente nel Peer Gynt di Ibsen. Il Gran Curvo rappresenta la materia ottusa e passiva che Levi si trova ad affrontare in tutta la sua attività di chimico. Il Gran Curvo funge inoltre da metafora della ricerca di sé stessi: «io sono io stesso, puoi dire lo stesso?» è l’enigma che il misterioso personaggio pone in risposta al giovane Peer Gynt. È la domanda a cui cerca di rispondere anche Levi, reduce dal campo di sterminio, nel tentativo di riappropriarsi della propria esistenza73. Si ritrova nuovamente Dante nel «piccolo minosse […] scritto con l’iniziale minuscola perché è un ben piccolo giudice»[AP 1436]. Infine Levi cita anche Shakespeare: «Angeli e Ministri di Grazia!» è infatti l’espressione usata da Amleto quando vede per la prima volta il fantasma di suo padre74. In Arsenico vengono nominati Mitridate e Madame Bovary: l’arsenico è un elemento che ha una lunga storia di avvelenamenti, letterari e non, alle spalle e queste due allusioni anticipano di poco il contenuto del racconto del vecchio ciabattino. Nel racconto Stagno Levi cita invece Manzoni (altro grande autore di riferimento oltre a Dante): «mala cosa nascer povero» sono le parole rivolte da Perpetua a Renzo nel secondo capitolo dei Promessi Sposi. Manzoni viene alluso anche in Argento: «dopo il primo lanzichenecco morto di peste è meglio non farsi illusioni: la peste è peste» [SP 1012]. Levi ricorda nell’apparato scolastico come Manzoni nei Promessi sposi affermi che le autorità milanesi avevano ignorato i primi morti di peste: Cerrato, protagonista del racconto, sa che un reclamo da parte di un’azienda difficilmente non

73 CERRUTI 2007, pp. 54-56. 74 Ibidem.

45

porta guai maggiori. Nel capitolo Uranio una citazione alla Bibbia rovescia la posizione di Levi, suo malgrado, da narratore ad ascoltatore delle improbabili avventure del caporeparto Bonino: «ripensai a quanti lunghi racconti avevo inflitto io al mio prossimo, a chi voleva ed a chi non voleva ascoltare, ricordai che sta scritto (Deut. 10.19) ‘Amerai lo straniero, poiché anche voi siete stati stranieri nel paese d’Egitto» [SP 1003]. Nel racconto Vanadio Levi utilizza nuovamente un personaggio letterario per descrivere le sue attitudini, stavolta però in opposizione: «non per fare vendetta: non sono un Conte di Montecristo» [SP 1019]. Infine Carbonio si apre e si chiude con due diverse citazioni. La prima è una citazione diretta alla Pucelle d’Orléans di Voltaire, riportata in lingua originale: «ma voix est foible, et même un peu profane, “la mia voce è debole, e perfino