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Epica chimica: vittorie e sconfitte nella lotta contro la materia

Mnemagoghi, Il fabbro di sé stesso

3.4. Epica chimica: vittorie e sconfitte nella lotta contro la materia

Per me la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze future, che avvolgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mosè, da quella nuvola attendevo la mia legge, l’ordine in me, attorno a me e nel mondo. [SP 876].

Nel capitolo Idrogeno del Sistema periodico il giovane Levi ha già chiaro in mente quale sarà il suo destino: diventare chimico. Questa scelta è motivata da una straordinaria sete

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di conoscenza e desiderio di comprendere il mondo. La chimica, agli occhi del giovane Levi, appare come una «potenza» depositaria di leggi cosmiche, capace di mettere ordine null’universo. L’orizzonte in cui l’autore descrive le sue aspettative riguardo la chimica è un orizzonte mitico, paragonato all’evento biblico in cui Mosè ricevette da Dio le tavole della Legge. Si profila dunque l’idea di un’epica chimica, ovvero di una chimica interpretata come una serie di imprese eroiche contro la materia: il cosmo e l’uomo sono fatti della stessa materia, ma questa è stolida e «manifesta un’astuzia tesa al male, all’ostruzione, come se si ribellasse all’ordine caro all’uomo: come i fuoricasta temerari, assetati più della rovina altrui che del trionfo proprio» [SP 1015]. La materia si ribella alla comprensione dell’uomo, al bisogno di ordine che quest’ultimo ha ed ogni confronto con essa può portare ad una vittoria o ad una sconfitta:

Siamo qui per questo, per sbagliare e correggerci, per incassare colpi e renderli. Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all’intelligenza; devi girarle intorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo. I miei colloqui settimanali col Tenente sembravano piani di guerra [SP 916].

Le armi in possesso del chimico sono poche: le leggi della scienza e la propria intelligenza, costantemente messa alla prova nella ricerca di soluzioni. Il mestiere del chimico è quello di un soldato che appunta un piano di guerra per riuscire a sfondare le difese della materia e trovare ciò che cerca. In questo atteggiamento di continua ricerca Levi identifica la nobiltà dell’uomo (tratto tipico per altro del cavaliere errante dei poemi cavallereschi):

La nobiltà dell’Uomo, acquisita in cento secoli di prove ed errori, era consistita nel farsi signore della materia, e che io mi ero iscritto a chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. Che vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi [SP 891].

La nobiltà consiste nel comprendere i segreti della materia, mettendosi costantemente alla prova con essa. Per essere eroici cavalieri della chimica non basta applicare passivamente metodi già collaudati in precedenza. È necessario anche sperimentare, non accontentarsi degli strumenti già forniti da altri, ma cercare di volta in volta la strada giusta:

C’era un metodo, uno schema ponderoso ed avito di ricerca sistematica […] ma io preferivo inventare volta per volta la mia strada, con rapide puntate estemporanee da guerra di corsa invece dell’estenuante routine della guerra di posizione: sublimare il

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mercurio in goccioline, trasformare il sodio in cloruro e ravvisarlo in tavolette e tramoggia sotto il microscopio. In un modo o nell’altro, qui il rapporto con la Materia cambiava, diventava dialettico: era una scherma, una partita a due. Due avversari diseguali: da una parte, ad interrogare, il chimico implume, inerme […] dall’altra a rispondere per enigmi, la Materia con la sua passività sorniona, vecchia come il Tutto e portentosamente ricca d’inganni, solenne e sottile come la sfinge [SP 889].

Anche in questo caso ricompare la metafora della guerra, stavolta in un duello tra il chimico e la materia: «Il nostro chimico-scrittore riversa sul lettore un flusso di qualificazioni che descrivono una Materia trascendente: enigmatica, passiva, sorniona,

vecchia, totalizzante, portentosa, ricca, ingannevole, solenne, sottile, e ancora

enigmatica»187. Sono tutte qualità che possono essere attribuite anche alla sfinge, creatura mitica cui la materia viene paragonata, nota proprio per la sua insondabilità e enigmaticità. Per trasmettere il sapore epico del mestiere di chimico, Levi ricorre dunque a diversi modelli culturali: le sacre scritture, la mitologia classica, l’epica cavalleresca, giocando sempre con la metafora della guerra. Questa ricorre più volte nel corso del

Sistema periodico, accompagnando il lettore fin quasi alla fine del libro. La battaglia con

la materia si acuisce in Cromo, al rientro dalla deportazione, quando Levi si trova a svolgere il suo primo vero lavoro:

Mi buttai nel lavoro con lo stesso animo con cui, in un tempo non lontano, attaccavamo una parete di roccia; e l’avversario era sempre ancora quello, il non-io, il Gran Curvo, la Hyle: la materia stupida, neghittosamente nemica come è nemica la stupidità umana, e come quella forte della sua ottusità passiva. Il nostro mestiere è condurre e vincere questa interminabile battaglia: è molto più ribelle, più refrattaria al tuo volere, una vernice impolmonita che un leone nel suo impeto insano: però, via, è anche meno pericolosa [SP 973].

Nessuna immagine mitologica questa volta per rappresentare la materia, ma una creatura del regno animale non meno suggestiva: il leone, simbolo di forza, potenza e comando. A mano a mano che si procede nel testo tuttavia l’aspetto epico della materia tende a scemare. La lotta rimane sempre lotta, ma assume i connotati di una guerra di logoramento senza fine:

Ti dànno l’impressione di combattere un’interminabile guerra contro un esercito avversario ottuso e tardo, ma tremendo per numero e peso; di perdere tutte le battaglie, una dopo l’altra, un anno dopo l’altro; e ti devi accontentare, per medicare

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il tuo orgoglio contuso, di quelle poche occasioni in cui intravedi una smagliatura nello schieramento nemico, ti ci avventi e metti a segno un rapido singolo colpo [SP 1010].

All’eccitazione giovanile per le possibilità infinite offerte dalla materia, subentra la consapevolezza che questa rimanga un avversario costante. Il chimico raramente riesce a penetrare i misteri della materia e si deve accontentare di queste poche vittorie che gli si presentano quasi per caso.

La guerra è solo una delle metafore che Levi utilizza per riferirsi allo scontro chimico-materia. L’altra, più nota, è quella della caccia atavica. Nel capitolo Nichel, Levi si paragona al cacciatore di Altamira che, come rito propiziatorio, dipingeva sulle pareti della grotta le sagome degli animali che avrebbe cacciato l’indomani:

Mi attardavo a raffigurarmi, disegnandole su carta, le lunghe catene di silicio, ossigeno, ferro e magnesio, col poco nichel intrappolato tra le loro maglie […] non mi sentivo molto diverso dal remoto cacciatore di Altamira, che dipingeva l’antilope sulla parete di pietra affinché la caccia dell’indomani fosse fortunata [SP 917].

In numerose interviste Levi ricorre alla similitudine venatoria per parlare della chimica: come la guerra anche il cacciare è uno scontarsi con qualcosa, cercare la strategia migliore per vincere, ma con una maggiore attenzione posta sui mezzi rudimentali adoperati. Il cacciatore non usa il fucile, ma l’arco e le frecce, così come il chimico possiede pochi strumenti per indagare la materia sfuggevole: «ho spesso pensato che P. fosse nel suo profondo un selvaggio, un cacciatore, chi va a caccia non ha che da prendere il fucile, anzi meglio la zagaglia e l’arco, e mettersi per il bosco: il successo e l’insuccesso dipendono solo da lui» [SP 882]. Nel Sistema periodico la caccia assume anche un valore rituale. Come un rito di iniziazione viene descritto infatti l’ingresso al «laboratorio di Preparazioni» degli studenti universitari in Zinco:

Di che cosa esattamente si trattasse, nessuno di noi aveva un’idea precisa: mi pare che fosse […] una versione moderna e tecnica dei rituali selvaggi di iniziazione, in cui ogni suo suddito veniva bruscamente strappato al libro ed al banco, e trapiantato in mezzo a fumi che bruciano gli occhi, agli acidi che bruciano le mani, e agli eventi pratici che non quadrano con le teorie […] insomma: non una parola, pronunciata o scritta, fu da lui spesa come viatico, per incoraggiarci sulla via che avevamo scelta, per indicarcene i pericoli e le insidie, per trasmetterci le malizie. [SP 882]

Esecutore del rito è il professor P., descritto anche lui come un cacciatore, il quale ammette gli studenti nel suo laboratorio senza fornire nessuna istruzione in merito alla pratica chimica: tutto si impara direttamente sul campo. La ritualità della chimica non

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riguarda soltanto il momento di iniziazione, ma anche alcuni gesti comuni che fanno parte del bagaglio essenziale di ogni chimico, come ad esempio la distillazione: «Distillare è bello […] quando ti accingi a distillare, acquisti la consapevolezza di ripetere un rito ormai consacrato da secoli, quasi un atto religioso, in cui da una materia imperfetta ottieni l’essenza, l’‟usía”, lo spirito, ed in primo luogo l’alcool, che rallegra l’animo e riscalda il cuore» [SP 903]. L’atto della distillazione, praticato in chimica fin dalle sue origini, si trasforma in rito religioso proprio anche per la sua caratteristica di purificare la soluzione sottoposta a processo. Infine, qualcosa di magico e rituale si ritrova anche nelle origini stesse della chimica, connesse con l’alchimia: «Le origini della chimica erano ignobili, o almeno equivoche: gli antri degli alchimisti, la loro abominevole confusione di idee e di linguaggio, il loro confessato interesse all’oro, i loro imbrogli levantini da ciarlatani o da maghi» [SP 898]. Levi non può approvare l’alchimia in quanto tale perché più che scienza essa è connessa con la magia e la filosofia. L’alchimia tende al profitto e al raggiro piuttosto che alla conoscenza, ma proprio la sua poca concretezza la rende ricca di rituali e simboli che le conferiscono un alone mistico ed epico.

L’aura epica di cui Levi circonda la chimica nel Sistema periodico trova però scarno riscontro nelle esperienze vissute che Levi racconta: esercizi di laboratorio, analisi quantitative e qualitative, tentativi di recuperare vernici ed altri prodotti guastati. Più che vicende epiche si tratta di normalissima routine giornaliera:

Che cos’era poi, alla fine dei conti, quella chimica su cui il Tenente ed io ci arrovellavamo? Acqua e fuoco, nient’altro, come in cucina. Una cucina meno appetitosa, ecco: con odori penetranti o disgustosi invece di quelli domestici; se no anche lì grembiulone, mescolare, scottarsi le mani, rigovernare alla fine della giornata [SP 914].

Paragonare la chimica alla cucina non la rende certamente epica, anzi la trasporta in una dimensione di quotidianità che è quella del mestiere di Levi. Levi fu un tecnico chimico, addetto alla produzione di vernici per quasi trent’anni: la sua chimica è quindi strettamente connessa con la quotidianità. Quella del Sistema periodico è un’epica «bassa, non alta, quella pedestre, che è perfettamente consona al carattere di Primo Levi»188.

L’intento di dedicarsi ad un’epica della materia a misura d’uomo, Levi lo esprime nel capitolo Argento:

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In questo libro io avrei deliberatamente trascurato la grande chimica, la chimica trionfante degli impianti colossali e dei fatturati vertiginosi, perché questa è opera collettiva e quindi anonima. A me interessavano di più le storie della chimica solitaria, inerme, appiedata, a misura d’uomo, che con poche eccezioni era stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavoravano in equipe ma soli, in mezzo all’indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia.

All’amico Cerrato Levi chiede avventure condotte in solitario, casi quotidiani che però hanno richiesto tutta l’esperienza di chimico per essere risolti. È il confronto in singolar tenzone con la materia a rendere la chimica qualcosa di epico perché mette l’individuo nella condizione di dover dar fondo a tutte le sue capacità per cercare di spuntarla sulla sua avversaria:

La storia che Primo Levi ci ha raccontato fa scoprire le sfaccettature di un mestiere, quello del chimico, spesso avvolto un po’ dal mistero per la gente comune. Non credete a chi vi dà l’immagine di scienziati geniali, con quozienti intellettivi da vertigine, di cervelloni inarrivabili che riescono a capire cose complicatissime. Siamo persone normalissime: il nostro mestiere è assai più semplice di quanto si pensi189

Luigi Dei dedica queste parole al racconto Cerio, ma ritengo che possano essere espressione valida per l’intero Sistema periodico: infatti l’immagine del chimico, che Levi cerca di restituire, è proprio quella di una persona comune in lotta per le sue battaglie quotidiane.

3.5. L’elogio dell’impurezza e il caos primordiale: Zinco, La tregua,