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Lo spazio: un’altra finzione

2. Finzione del testimone e finzione letteraria

2.4. Lo spazio: un’altra finzione

Il processo di arrotondamento non coinvolge soltanto personaggi ed eventi, ma anche i luoghi. La scrittura di Levi è spesso corredata da mappe che mostrano al lettore il percorso dei personaggi nello spazio. Cartine illustrative come queste compaiono sia nella Tregua sia in Se non ora quando?, riportando i toponimi e il percorso tracciato attraverso di essi. Questa scelta è influenzata sia da una motivazione documentaria, sia da un interesse personale dell’autore: «Io quando leggo un libro desidero sapere il più possibile sui dati Spazio e Tempo; se mancano le date e i luoghi mi sento frustrato e allora, per rappresaglia, ho fornito i dati il più possibile precisi»134. Levi però non si limita a fornire dati spaziali in modo neutro: la precisione è data non solo dalla cura con cui descrive i luoghi, ma anche dal modo in cui questi vengono aggiustati per creare un tutt’uno con la scena che contengono. Alcuni luoghi che compaiono nel Sistema periodico sono molto diversi dai loro referenti esistenti o hanno avuto una storia diversa. Nel capitolo Mercurio le vicende si svolgono in un’isola chiamata Desolazione, di cui l’autore fornisce anche una mappa su sui sono annotati alcuni toponimi. Levi stesso nell’appendice dell’edizione scolastica riferisce che gli eventi narrati nel capitolo ricordano «molto liberamente alcuni fatti della storia dell’isola Tristan da Cunha. È vero che essa è di natura vulcanica, che il clima è umido, che fu sede di una guarnigione inglese al tempo della prigionia di Napoleone a Sant’Elena, che fu popolata da naufraghi di varia provenienza […] tutto il resto è invenzione» [AP 1431]. È invenzione dunque non solo la vicenda, ma anche la mappa fornita da Levi. L’autore non utilizza una cartina esistente, ma ridisegna liberamente a mano la mappa, che ricorda l’isola reale solo per la sua forma arrotondata. Il nome, Desolazione, è in realtà un soprannome poco conosciuto dell’isola stessa, che Levi ricavò

133 GRASSANO 1980, p. 168. 134 VALABREGA 1981, p. 892.

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probabilmente dalla lettura del testo di Bazin, Les bienheureux de la Désolation135. La

scelta di questo nome è paradossale, ma molto indicativa: la piccola isola è effettivamente sperduta nel mezzo dell’oceano e non c’è nulla se non i suoi quattro abitanti, ma sia Levi che Bazin vi ricreano una sorta di paradiso terrestre, un luogo di beatitudine, fuori del tempo della storia, dove gli abitanti si accontentano di quello che hanno. Il resto dei toponimi presenti sulla mappa però non corrisponde affatto alla realtà della piccola isola: il monte Snowdon, «Duckbill», la «Foresta che Piange», Aberdare, l’«Isola delle Foche», l’«Isola delle Uova» e «Holywell», “Pozzosanto” sono tutti nomi che Levi fa inventare ai personaggi residenti nell’isola e che rispecchiano la natura stesa del luogo. Il monte si chiama Snowdon perché è alto più di 2000 metri e per buona parte dell’anno ha la cima innevata; la punta estrema dell’isola ricorda il becco di un’anatra e quindi prende il nome di Duckbill; due delle isole che compongono l’arcipelago oltre a Desolazione prendono il nome dai loro abitanti, le foche, e dalle uova di gabbiano con cui gli abitanti si nutrono; Aberdare non è il nome del vero insediamento, ma di una catena montuosa del Kenia; Holywell è così chiamato perché la moglie del caporale subisce uno strano fascino mistico quando si trova in questo luogo136; infine la foresta che piange è chiamata così dagli abitanti perché quando piove l’acqua scende dalle sue fronde come un pianto. La trasformazione dell’arcipelago va in direzione di un’ottica mitico-letteraria, per creare un luogo adatto ad un racconto «ambiguo e mercuriale». Nel capitolo Mercurio quindi l’arcipelago di Tristan da Cunha viene trasformato in un luogo simile ma finzionale. Ciò avviene comunque in un contesto di finzione perché il capitolo è invenzione dell’autore: Levi ha semplicemente preso ispirazione da quell’arcipelago per ambientare la sua storia. Un’osservazione del tutto analoga può essere fatta anche per la breve immagine della Sardegna restituita in Mercurio. In epoca antica non meglio specificata nel racconto, l’isola viene identificata con il suo nome greco Icnusa. Oltre ad essere la terra dei metalli, Icnusa, terra lontana, è anche bersaglio delle storie più strane. Tra queste anche quella secondo cui «tutto in quell’isola è fatto di pietra, le punte delle lance, le ruote dei carri, perfino i pettini delle donne e gli aghi per cucire; anche le pentole per cucinare, e addirittura che hanno pietre che bruciano» [SP 927]. L’insistenza sull’aspetto pietroso dell’isola crea un raccordo perfetto con il protagonista Rodmund, cercatore di piombo, che sceglierà Ichnusa proprio come luogo in cui stabilirsi dopo un lungo peregrinare. È la pietra dunque a collegare protagonista, vicenda e spazio in cui essa è ambientata.

135 BALDISSONE 2016, pp. 35 – 36. 136 Ivi, pp. 38 – 39.

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Diversa invece è la trasfigurazione a cui va incontro la cava di amianto presente in

Nichel. Nel capitolo Levi descrive un episodio autobiografico, quindi reale, in un contesto

reale, ma che viene completamente trasformato dal ricordo. La miniera di amianto, che Levi colloca indistintamente vicino a Torino, esiste veramente e si trova nelle Valli di Lanzo presso Balanghero137. Venne chiusa definitivamente nel 1990, ma fu per lunghi anni al centro di polemiche per le condizioni di lavoro cui erano sottoposti gli operai. Già nel 1954 Calvino denunciava nel racconto La fabbrica e la montagna, uscito sulle pagine dell’ “Unità”, le condizioni precarie degli operai. Questi andavano incontro ad incidenti mortali con estrema facilità per un salario irrisorio. Calvino scrisse il testo in occasione di un lungo sciopero, protrattosi per trentacinque giorni, a seguito della riduzione del salario. Il racconto di Calvino offre una descrizione anch’essa letteraria dello stesso luogo citato in Nichel, ma di stampo completamente differente:

La montagna dell’amianto con le cime e le pendici scavate a imbuto, e la fabbrica compenetrata in essa. Quelle erano le cave, quelle gradinate grigie lucide ad anfiteatro tagliate nella montagna rossiccia di cespugli invernali; la montagna scendeva pezzo a pezzo nei frantoi della fabbrica, e veniva risputata in enormi cumuli di scorie, a formare un nuovo, ancora informe sistema montuoso grigio opaco [FM 941].

Anche Levi nel Sistema periodico si sofferma sulla descrizione della miniera. Benché si riscontrino gli stessi elementi riportati da Calvino (la montagna scavata ad imbuto, le gradinate, la spaccatura delle pietre e la formazione di un cumulo informe di macerie) la descrizione di Levi va in tutt’altra direzione rispetto al realismo:

Arrivammo alla miniera dopo cinque chilometri di salita in mezzo ad un bosco splendido di brina […] Il «qualche luogo» si era dunque localizzato nello spazio, senza però perdere nulla della sua magia. […] in una collina tozza e brulla, tutta scheggioni e sterpi, si affondava una ciclopica voragine conica, un cratere artificiale, del diametro di quattrocento metri: era in tutto e per tutto simile alle rappresentazioni schematiche dell’Inferno, nelle tavole sinottiche della Divina Commedia. Lungo i gironi, giorno per giorno si facevano esplodere le mine. […] al fondo al posto di Lucifero, stava una poderosa chiusura a saracinesca. […] Lo stabilimento era costruito in cascata, lungo il pendio della collina e sotto l’apertura della galleria: in esso il minerale veniva frantumato in un mostruoso frantoio […] L’operazione procedeva in mezzo ad un fracasso da apocalissi, in una nube di polvere che si vedeva fin dalla pianura […] il resto, migliaia di tonnellate al giorno, veniva scaricato a valle alla rinfusa. [SP 908 – 909]

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La cava viene resa un luogo sovrannaturale sia tramite il paragone con l’inferno dantesco sia allargando a dismisura gli spazi. La miniera è una voragine ciclopica, un cratere; la saracinesca sul fondo è poderosa; il frantoio è mostruoso; il rumore prodotto dalla frantumazione è da apocalisse; le tonnellate di scarto sono migliaia. Niente nella cava descritta da Levi è a misura umana, ma tutto un gigantesco spazio sovrumano, il luogo perfetto dove l’uomo può porsi in competizione con la materia. C’è poi un altro elemento che si ritrova sia nel testo di Calvino sia in quello di Levi: l’amianto. Anche in questo caso la descrizione che viene fornita dai due autori è diversa:

All’ora in cui monta un nuovo turno, gli operai vengono su dai sentieri del bosco, quelli di Balangero, quelli di Coassolo, quelli di Corio, con la loro aria di montagnini […] E paiono cacciatori che vadano per lepri: o soltanto per funghi, visto che non hanno un fucile. Ma non ce n’è di lepri nel bosco, non crescono funghi nella terra rossa dai ricci di castagno, non cresce frumento nei duri campi dei paesi intorno, c’è solo il grigio polverone d’asbesto della cava che dove arriva brucia, foglie e polmoni, c’è la cava, l’unica così in Europa, loro vita e loro morte [FM 942].

Calvino concentra l’attenzione sull’aspetto nocivo dell’amianto la cui polvere brucia tutto ciò su cui si posa, spogliando la montagna di flora e fauna e uccidendo gli stessi operai che vi lavorano. Questa dimensione di denuncia è completamente assente invece nella descrizione di Levi, che pure sull’amianto si sofferma a lungo:

Ci volle assai poco per appurare che scopo ultimo di quel lavoro da ciclopi era strappare alla roccia un misero 2 per cento d’amianto che vi era intrappolato […] C’era amianto dappertutto, come una neve cenerina: se si lasciava per qualche ora un libro su di un tavolo, e poi lo si toglieva, se ne trovava il profilo in negativo; i tetti erano coperti da uno spesso strato di polverino, che nei giorni di pioggia si imbeveva come una spugna, e ad un tratto franava violentemente a terra. [SP 909]

Levi parla della polvere di amianto quasi come di una coperta, che copre l’intera miniera e i suoi abitanti, ma non si preoccupa affatto della sua pericolosità. C’è ovviamente un fattore temporale che influisce: il racconto di Calvino è del 1954 mentre il testo di Levi risale sì al 1973, ma rievoca fatti del 1941-1942. Parlare di mortalità dovuta all’amianto sarebbe stato quantomeno anacronistico. In generale però la tossicità dell’amianto interessa poco a Levi. La «neve cinerina» è solo uno degli elementi che conferiscono allo spazio circostante l’atmosfera di un ricordo lontano, perso nelle nebbie della memoria. Contribuisce inoltre a separare creare quella «piccola repubblica autonoma» ricca di storie e aneddoti dove «tutti i cinquanta abitatori della miniera avevano reagito fra loro, a due, a due, come nel calcolo combinatorio […] ognuno con tutti gli altri» [SP 911].

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Nella memoria di Levi «le solitudini di amianto» sono un ricordo fortemente positivo. Coincidono con il primo vero confronto con la materia e non con i campioni di laboratorio. Coincidono anche con una dimensione sospesa e isolata dalla storia, che allontana Levi dalla discriminazione razziale e dagli eventi della seconda guerra mondiale: «questi vagabondaggi mi concedevano una tregua alla consapevolezza funesta di mio padre morente a Torino, degli americani disfatti a Bataan, dei tedeschi vincitori in Crimea, ed in somma della trappola aperta, che stava per scattare» [SP 915]. Lo spazio non è dunque semplicemente un contenitore di eventi, ma nei testi di Levi viene accuratamente soppesato, proprio come accade per i personaggi e gli eventi, al fine sia di rendere più coerente tutto l’insieme testuale sia di trasmettere qualcosa di più al lettore del semplice svolgimento dei fatti. La miniera diventa anche spunto per una riflessione etnologica138, sul fascino esercitato da luoghi come questo, al di là delle loro caratteristiche puramente materiali, sulle persone. La storia della miniera, della caccia al nichel non finisce con l’esperienza di Levi, ma continua:

Eppure questa storia non finisce qui. Nonostante i molti anni passati, la liberalizzazione degli scambi ed il ribasso del prezzo internazionale del nichel, la notizia dell’enorme ricchezza che giace in quella valle, sotto forma di detriti accessibili a tutti, accende ancora le fantasie. Non lontano dalle Cave, in cantine, in stalle, al limite fra la chimica e la magia bianca, c’è ancora gente che va di notte alla discarica, ne torna con sacchi di ghiaia grigia, la macina, la cuoce, la tratta con reattivi sempre nuovi. Il fascino della ricchezza sepolta, dei due chili di nobile metallo argenteo legati ai mille chili di sasso sterile che si getta via, non si è ancora estinto [SP 919].