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Con la partenza di Daiberto per la Terra Santa e con la sua elevazione a patriarca di Gerusalemme la civitas pisana si era improvvisamente trovata priva della sua guida “morale” e “spirituale” ma anche politica. L’autorità del presule era stata riconosciuta nel momento stesso in cui Daiberto aveva a sua volta posto le basi per la civile convivenza cittadina e l’autonomia di Pisa era nata, per così dire, dal travaglio della guerra civile degli anni Ottanta.

Negli anni Novanta la situazione istituzionale di Pisa si caratterizza per una sostanziale fluidità: la figura del vescovo pisano o arcivescovo, nel caso di Daiberto, non si configurò mai con caratteristiche “signorili” e anzi a partire dal «Lodo delle Torri», come già detto, era ai cives riuniti nel commune consilum o nel commune

colloquium civitatis che spettava la salvaguardia della pace interna. Le figure dei consules che compaiono all’interno della documentazione intorno agli anni Ottanta

dell’XI secolo non devono essere interpretate come espressione di un assetto stabile e determinato quale si costituirà soltanto a partire dagli anni successivi e, forse, soltanto all’inizio del XII secolo105. Non è semplice, perciò, comprendere gli sviluppi della situazione pisana negli anni oggetto di questo paragrafo; tuttavia la rinnovata presenza della marchesa Matilde e il riconoscimento di una nuova istituzione, l’Opera di Santa Maria, costituiscono linee imprescindibili cui riallacciarsi per illuminare questo periodo.

Poco dopo la partenza di Daiberto la Marchesa ritornò ad operare su Pisa: probabilmente alla primavera del 1100 è databile un atto con cui Matilde destinò un appezzamento di terra posto nei pressi del vecchio palazzo marchionale al fine di sostenere la costruzione dell’erigenda cattedrale e il suo mantenimento. Tre anni dopo da Nonantola Matilde concesse sempre allo stesso scopo le curtes di Pappiana e

105 Per questa posizione sui consoli cfr. M. Ronzani, Le prime testimonianze dell’attività dei consoli

pisani in quattro documenti del 1109 relativi ai rapporti fra l’autogoverno cittadino e i discendenti dei conti dell’erà ottoniana, in Quel Mar che la terra inghirlanda. In ricordo di Marco Tangheroni, a

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Livorno106. In assenza del presule i destinatari ultimi della donazione sarebbero stati i canonici ai quali, se avessero osservato la vita regolare, sarebbero passati i beni al momento del termine dei lavori. Si trattava, come fa notare Ronzani, di una ridefinizione dei rapporti tra la marchionissa e Pisa, impostata esattamente sulla scorta dei medesimi concetti presenti nella donazione del 1077. La seconda concessione si differenziava nettamente dalla prima per la consistenza dei beni donati, per la formulazione, assai più chiara, e per i suoi “attori”. Tra questi comparivano, infatti, nuovamente i boni homines pisani annoverati fra i fideles della marchesa. Come già posto in luce, oggetto della donazione erano in parte i possessi marchionali che già Enrico IV aveva destinato ad utilitatem et edificationem Pisane

Ecclesie il 1 febbraio del 1089 dietro richiesta del visconte Ildebrando. I beni

venivano devoluti all’Opera Sancte Marie Pisane civitatis un’istituzione che vedeva proprio in quegli anni la sua nascita e si configurava come un’entità giuridica preposta ai lavori di edificazione della cattedrale, divenuti il fulcro degli interessi cittadini. Attraverso il suo riconoscimento questa istituzione si presentava come la destinataria naturale delle donazioni. L’Opera di Santa Maria diveniva, così, il canale privilegiato per consentire ai cives un riconoscimento, seppur mediato, della loro acquisita autonomia e lo snodo attraverso cui negli anni la civitas si relazionò al suo esterno. All’Opera fu rivolta anche la donazione del giudice cagliaritano Turbino, nel maggio del 1103, e negli anni a seguire a questo stesso ente furono rivolte moltissime altre donazioni: una fra tutte quella del castello di Bientina, in comproprietà con il vescovo pisano, ceduto dal marchese Rabodo nel 1116107. Non desta, perciò, alcun sospetto che tale istituzione fosse andata costituendosi proprio al momento dell’assenza di un presule che così significativamente aveva influenzato la vita cittadina. Proprio in quel primo scorcio di inizio XII secolo, inoltre, è assai probabile che si andassero affermando le istituzioni consolari108.

106 MGH DD MT, nn. 63, pp. 190-191 e 74, pp. 218-219. Per la prima concessione cfr. Ronzani,

L’affermazione, cit., p. 17 nota 62 che ipotizza di datarla a giugno.

107 Per la donazione di Turbino si veda Tola, Codice diplomatico della Sardegna, I, cit., p. 178; per la

donazione del 1116 CAAP, 2, n. 49, pp. 95-97.

108 Quanto qui scritto sull’Opera costituisce soltanto a grandi linee il riassunto di quanto esposto da

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L’importanza che assunse l’Opera quale ente rappresentativo della civitas in assenza del vescovo è ben riassunta dal documento noto come proclamatio dei Casciavolesi. Infatti fu in primo luogo all’Opera, oltre che al clero, ai consoli e al populus, che si rivolsero gli homines liberi di Casciavola per protestare contro le violenze subite dai da San Casciano e fu sotto la protezione di questo organo che si posero i Casciavolesi109. «Agli occhi dei denuncianti- nota Ronzani- la città si identificava innanzitutto con la sua Chiesa vescovile (ossia in quel particolare frangente, con l’Opera S. Marie) [...]». Rendendosi fideles dell’Opera gli abitanti di Casciavola demandarono la risoluzione della questione alle autorità della civitas110, infatti, come nota Rossetti: «affidare se stessi e il proprio patrimonio alla chiesa vescovile, cuore e simbolo della unità della civitas, e all’Opera di Santa Maria, l’ente civico preposto al governo della cattedrale, diventò l’unico mezzo per assicurarsi la competenza del tribunale cittadino e sottrarsi agli abusi della giustizia signorile»111.

In questo torno d’anni un altro episodio contribuisce a delineare la nascente autonomia politica della civitas. Si tratta della guerra scoppiata nell’agosto del 1104 con la vicina Lucca per il controllo del ripatico in Valdiserchio. Il conflitto interessò principalmente i castelli di Vecchiano e Ripafratta che sorgevano sulle rive del Serchio: in particolare la fortificazione di Ripafratta era posta al confine tra le sfere d’influenza delle due città, ovvero i comitatus. Entrambi i castelli consentivano il controllo del fiume e, di conseguenza, dello scambio di merci; il Serchio di fatto rappresentava per Lucca l’unico accesso al commercio marittimo e alla costa. Lo scontro dovette originarsi dal tentativo attuato dai Pisani di esigere il pagamento del ripatico sull’importante corso d’acqua, scatenando così la reazione dei Lucchesi che già nell’agosto del 1104 espugnarono entrambe le fortificazioni112

. L’esito del

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Ronzani, Dall’edificatio, cit., pp. 23-24 e Id., L’affermazione, cit., pp. 18-19; G. Rossetti,

Costituzione cittadina e tutela del contado, una vocazione originaria di Pisa tra XI e XII secolo: i protagonisti e gli spazi, in Legislazione e prassi istituzionale a Pisa (secoli XI-XIII). Una tradizione normativa esemplare, a cura di G. Rossetti, Napoli 2001, pp. 105-161. L’edizione più recente del

documento è stata curata da G. Ammannati in Lettere originali del Medioevo latino (VII-XI sec.), I, Italia, a cura di A. Petrucci e G. Ammanati, Pisa 2002, pp. 151-157.

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Ronzani, L’affermazione, cit., p. 19.

111Rossetti, Costituzione cittadina, cit., p. 109. 112

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conflitto venne raggiunto nel 1110 grazie all’intervento di Enrico V, all’epoca in Tuscia, e previde l’assegnazione a Pisa di metà del castello di Ripafratta con gli spettanti diritti113. I cinque documenti del 21 novembre del 1110 che sanciscono il passaggio dell’importante fortificazione sotto la sfera d’influenza pisana sono di particolare interesse per la comprensione dello sviluppo istituzionale della città tirrenica. Da uno di questi cinque documenti, un breve recordationis stipulato da Ubaldo del fu Sismondo e sua moglie Matilda, emergono con maggior chiarezza rispetto agli altri quattro documenti i reali destinatari della donazione. Infatti, mentre nelle quattro cartulae offersionis le quote del castello vengono donate all’Ecclesia

episcopatus, nel breve i destanari divengono tre: il vescovo Pietro, gli Operai di S.

Maria e i consoli. La maggiore complessità di questo “destinatario plurimo” consente di identificare nella totalità della civitas pisana il concreto beneficiario della donazione. Inoltre, come nota Ronzani, nel corso del documento la «realtà istituzionale di Pisa» viene progressivamente delineandosi: dal triplice destinatario (arcivescovo-operai-consoli) si passa al binomio arcivescovo-consoli, fino a giungere alla semplice quanto concreta definizione dell’entità cui il controllodel castello sarebbe stato destinato: l’ecclesia e la civitas114

. Sul principio del XII secolo la realtà politica ed istituzionale di Pisa andava configurandosi come uno stretto connubio fra la l’espressione del populus, ovvero di quel commune colloquium civitatis incarnato dai consules, e l’ecclesia.

V. I rapporti fra la Sede Apostolica e il vescovo Pietro (1105-1119) durante i