In questo momento la situazione politica nella Penisola era in costante mutamento. Com’è noto, dopo l’incoronazione di Enrico IV, avvenuta a Roma il 31 marzo del 1084, il nuovo imperatore aveva rapidamente lasciato l’Urbe insieme a Clemente III all’apprestarsi dei Normanni venuti a liberare dall’assedio Gregorio VII. Roma venne saccheggiata dalle truppe del Guiscardo e il pontefice fu costretto a lasciare la città per ripiegare a Salerno. Nel giro di pochi mesi il quadro mutò ancora: nella seconda metà di giugno, Enrico IV lasciò l’Italia e nel luglio la vittoria di Sorbara riporatata dall’esercito della marchesa Matilde sembrò risollevare le sorti del «fronte gregoriano». Secondo Tilman Struve il 1085 «portò a Matilde un certo alleggerimento, in quanto nel corso di quell’anno alcuni capi del partito antigregoriano, tra cui l’arcivescovo Tedaldo di Milano e i vescovi Eberardo di Parma e Gandolfo di Reggio morirono inaspettatamente»34 e la marchesa riuscì nei mesi successivi ad insediare sulle cattedre di Modena, Reggio e Pistoia tre «gregoriani irreprensibili»35. Diversamente a Pisa la morte del presule Gerardo, l’8 maggio del 1085, seguita pochi giorni dopo da quella di Gregorio VII a Salerno, segnò l’inizio di un lungo perido di sedevacanza della cattedra che si concluse solo
34 Struve, Matilde di Toscana, cit., p. 441. 35
Ibidem, cfr. G. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer Reichsitaliens unter den sächsischen und
salischen Kaisern mit den Listen der Bischöfe 951-1122, Leipzig-Berlin 1913, p. 184 per Benedetto di
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nell’autunno del 1088 con la nomina del nuovo vescovo Daiberto. In questo momento l’imperatore - l’ultima autorità che la città aveva riconosciuto - era lontano, e la difficoltà della successione a Gregorio VII complicò ulteriormente la ricerca di una soluzione in tempi brevi. Per quanto la situazione pisana potesse essere nettamente differente dai tre casi di Modena, Reggio e Pistoia, poiché la città tirrenica aveva aderito al fronte filoimperiale e si era decisamente sotratta all’autorità marchionale, appare difficile immaginare che Matilde non tentasse quantomeno di cercare una soluzione alla vacanza della cattedra di Santa Maria, cosa che evidentemente non fu possibile.
Per contrasto una situazione che sembrerebbe suggerire alcune riflessioni potrebbe essere quella di Milano. Nel maggio del 1085 con la morte del presule Tedaldo a Milano si aprì un periodo di un anno di sedevacanza che coincise con la tormentata elevazione al soglio pontificio di Desiderio di Montecassino, che come è noto fu eletto il 24 maggio del 1086 ma accettò la consacrazione soltanto nel maggio del 1087. La realtà ambrosiana non è paragonabile a quella pisana per una serie di fattori che la rendono assai peculiare: la lunga tradizione di autonomia da Roma e la presenza della predicazione patarinica costituiscono soltanto alcuni di questi fattori. Per inquadrare almeno brevemente la situazione milanese bisognerà soffermarsi su alcuni aspetti, ponendo in evidenza che mentre Tedaldo era asceso al soglio arcivescovile grazie all’intervento decisivo di Enrico IV, per il nuovo presule milanese, Anselmo III da Rho, eletto nel luglio del 1086, il potere regio aveva giocato un ruolo importante anche se «la tesi di una nomina da parte di Enrico IV va rigettata sulla base del riconoscimento della canonicità dell’elezione da parte di Urbano II» come sostiene Lucioni 36. La posizione espressa da Lucioni consente di rimarcare anche un secondo aspetto significativo e cioè il recupero del legame tra la Sede ambrosiana e quella Apostolica che avvenne durante gli anni dell’episcopato di Anselmo III (1086-1093) e di Arnolfo III (1093-1097), periodo che Lucioni ha significativamente denominato «il decennio del cambiamento». Poco dopo la sua
36 A. Lucioni, Anselmo IV da Bovisio arcivescovo di Milano (1097-1101). Episcopato e società
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elezione Anselmo III chiese ed ottenne dallo scomunicato Enrico IV l’investitura regia e prestò a lui giuramento; tuttavia, come già accennato, Urbano II in seguito riconobbe come canonica l’elezione di Anselmo III, il che porta a ritenere che essa sia avvenuta a Milano e che la nomina sia stata espressione della volontà cittadina37. La situazione ambrosiana del 1086 costituisce un esempio di come la città abbia saputo trovare una sintesi dei contrasti interni e «porre in modo autonomo un proprio uomo sulla cattedra vescovile»38. Ciò dimostra come per Milano si possa parlare di «una designazione che si può presumere scaturita dalla volontà di trovare un candidato in grado di essere accettato da tutta la città o almeno di non provocare troppi dissensi»39. Diversamente a Pisa un lasso di tempo di circa tre anni e mezzo intercorso tra la morte di Gerardo e la nuova nomina farebbe intravedere una situazione di stallo all’interno della civitas. Inoltre, la nomina di Daiberto fu il frutto della lungimiranza politica di Urbano II, il quale riuscì a proporre un candidato di
37 Lucioni, Anselmo, cit., pp. 50-52 e p. 64. Su questi aspetti i rimandi classici sono anche a H. E. J.
Cowdrey, The succession of the archbishops of Miland in the time of Pope Urban II, in «The English Historical Review» 83 (1968) pp. 285-294; e a P. Zerbi, «Cum mutato habitu in coenobio sanctissime
vixisset...»: Anselmo III o Arnolfo III?, in «Ecclesia in hoc mundo posita». Studi di Storia e Storiografia medievale, Milano 1993, pp. 283-303, che hanno posto in evidenza la posizione non del
tutto antigregoriana di Anselmo III. La vicenda complicata del presule milanese, destituito da un legato papale e reitegrato nel suo incarico dopo un periodo di penitenza in monastero, è ripercorsa dal più volte menzionato studio di Alfredo Lucioni, Anselmo, cit., pp. 43-72. Elemento singolare che richiama il caso di Daiberto di Pisa è anche la posizione tenuta da Urbano II nei confronti dei due presuli. Nonostante Arnolfo avesse ottenuto l’investitura regia da Enrico IV, contribuì a ricostruire i legami con la Sede Apostolica sotto Urbano II. Il pontefice dal canto suo non giudicò invalida la sua elezione sebbene fosse stata irregolare poiché, diversamente da quanto prescritto dai canoni, Anselmo venne consacrato soltanto da un vescovo, essendo gli altri scomunicati. La situazione di Daiberto appare differente ma non dissimile per la reazione del pontefice nei suoi confronti: egli fu consacrato diacono dallo scomunicato Wezelo di Magonza, e per questo la sua elezione vescovile fu aspramente contestata; tuttavia, prima del suo insediamento sulla cattedra pisana, Daiberto ricevette una nuova consacrazione dal pontefice in persona. Proprio con questo presule la città venne pacificata e cominciò un periodo caratterizzato da un intenso legame tra la cattedra pisana e la Sede Apostolica. Un altro aspetto che accomuna i due presuli è costituito dalle accuse di simonia indirizzate alle loro persone pochi anni dopo la loro ascesa, in entrambi i casi Urbano II non si comportò in maniera dissimile. Si tratta, perciò di due presuli che pur provenendo da ambienti «scismatici» si rivelarono preziose figure di raccordo fra le loro sedi e il pontefice, guadagnando così la sitima di Urbano II. Lucioni, Anselmo, cit., p. 66 nota 80 che nota la vicinanza dei due casi da questo punto di vista e rimanda a M. Matzke,
Daibert von Pisa: zwischen Pisa, Papst und erstem Kreuzzug, Sigmaringen 1998, qui citato nella
traduzione italiana di M. Peltz, Daiberto di Pisa: tra Pisa, Papato e prima crociata, Pisa 2002, pp. 32- 41.
38 Lucioni, Anselmo, cit., p. 52. 39
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compromesso che, similmente al milanese Anselmo III, non suscitasse troppi malumori. Infatti una delle cifre distintive che accomunano questi due personaggi dalle vicende differenti è proprio il sostegno che ricevettero dal pontefice che riconobbe loro un ruolo di «cerniera» e di mediatori tra la realtà urbana e la Sede Apostolica.
L’anno immediatamente successivo alla morte di Gerardo, che coincise con la vacanza del soglio pontificio, ovviamente non può offrire alcuna possibilità di indagine per ciò che concerne i legami tra Pisa e la Sede Apostolica; tuttavia, è stato posto in luce, e lo si è già richiamato, che tra il 1085 e il 1086 vi fu all’interno della
civitas un forte rilancio della vita religiosa regolare e monastica. Una serie di atti di
donazione, analizzati con attenzione da Mauro Ronzani, furono indirizzati a beneficio del monastero di S. Michele in Borgo, del monastero della Gorgona, della nuova fondazione camaldolese insediatasi presso SS. Martino e Frediano, e dell’ospitale pauperum posto nei pressi della cattedrale e pertinenza dei canonici.
Last but not least dovrà essere menzionata la donazione della chiesa dei SS. Paolo e
Stefano non distante dal castello di Ripafratta 40. In particolare, in quest’ultimo atto compare tra gli attori principali Lamberto del fu Specioso, personaggio che nel 1061 risulta nel seguito del vescovo Guido e che con una certa continuità è menzionato tra gli adstantes ai placiti marchionali tra 1073 e 1077, in seguito nominato dal visconte matildino Ugo II amministratore dei suoi beni in caso di decesso41. La presenza di Lamberto del fu Specioso, evidentemente legato all’ambiente filomatildino, così come l’impegno di alcuni esponenti laici pisani nel sostegno alla vita monastica e regolare restituiscono certamente un’immagine di una civitas, ma forse più di una parte di essa, animata da un certo fervore ‘riformatore’ e ancora legata al potere marchionale.
40 Ronzani, Chiesa e civitas, cit., pp. 212-222, con riferimento ai negozi giuridici menzionati. 41
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I rapporti tra Pisa e la Sede Apostolica ripresero nel 1087, anno della spedizione contro le roccaforti nordafricane dei saraceni di al-Mahdīya e Zawīla, impresa condotta sotto l’egida di San Pietro e patrocinata dal nuovo pontefice, Vittore III42. L’azione bellica fu portata a termine da un contingente pisano e genovese con l’apporto di milizie provenienti da Amalfi e da Roma; essa si colloca all’interno della storia della città pisana come uno dei più brillanti successi ottenuti contro i sarceni. Sono ben note, infatti, le molte imprese che nell’XI secolo costituirono fonte di vanto e di arricchimento della città tirrenica: a partire dall’assalto del 1005 contro Reggio e Messina, ritorsione contro l’aggressione subita da Pisa nel 1104, passando dalla sconfitta dell’emiro Mudjhaid in Sardegna degli anni 1016-1017, per giungere alle vittorie di Bona, 1034, e di Palermo, 1064, queste azioni offrirono alla città una grande rilevanza poiché posero le basi della sua potenza nel Mediterraneo, facendo sì che essa negli anni a venire, soprattutto dopo l’impresa di al-Mahdīya, potesse assumere il ruolo di «braccio secolare» del Papato riformatore nello spazio mediterraneo43. La città di al-Mahdīya con il suo sobborgo fortificato di Zawīla costituiva nell’XI secolo uno centro attivissimo del commercio mediterraneo ma anche dell’attività piratesca e perciò rappresentava sia un potente concorrente che una fonte di pericolo per la sicurezza del commercio. L’impresa cominciò nel luglio del 1087 e dovette assorbire una parte consistente delle energie della civitas pisana; come messo già in luce da Tangheroni, essa ha avuto una duplice interpretazione: una «spiccatamente religiosa» che trae il suo fondamento dalla fonte principale per
42 Sull’impresa di Al-Mahdīya i primi punti di riferimento bibliografico sono Scalia, Il carme pisano,
cit., pp. 565-627, il contributo di Scalia reca la migliore edizione del carmen cui rimanderemo per le indicazioni ai versi nelle pagine seguenti; H. E. J. Cowdrey, The Mahdia Campaign of 1087, in «The English Historical Review» 92 (1977), pp. 1-29, entrambi offrono una panoramica dettagliata sulle fonti coeve che narrano l’avvenimento, mostrando particolare attenzione per le fonti arabe. Per un’analisi della struttura del componimento poetico oltre a Scalia è utile rimandare a von der Höh,
Erinnerungskultur , cit., pp. 120-154. Sul patrocinio del Victor apostolicus la fonte, talvolta messa in
discussione, è la Chronica Monasterii Casinensis, MGH, SS. VII, p. 751, sulla validità di questa informazione, Tangheroni, Pisa, cit., p. 45 in connessione al v. 36 del Carmen.
43
Rimadi fondameltali sono M. Tangheroni, Pisa, l’Islam e il Mediterraneo, in Toscana e Terrasanta
nel Medioevo, a cura di F. Cardini, Firenze 1982, pp. 31-55; Scalia, Epigraphica pisana, cit., 234-286;
Id., Contributi pisani alla lotta anti-islamica nel Mediterraneo, centro-occidentale durante il secolo
XI e nei primi decenni del XII , in «Anuario de Estusios Medievales» 10 (1980), pp. 135-144. Cfr.
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questo evento, vale a dire il componimento celebrativo noto come Carmen in victoria
Pisanorum, e anche da un passo della Chronica Monasterii Casinensis; l’altra di
natura politica che pure non sfuggì all’anonimo poeta del Carmen, consapevole della rilevanza dell’azione per «la supremazia nel Mediterraneo»44. Entrambi questi fattori, appare evidente, dovettero essere conpresenti. Tuttavia ci sono altri elementi che devono essere presi in considerazione per una valutazione più completa dell’impresa: la spedizione, infatti, è stata interpretata sia come segnale della ritrovata intesa fra Pisa da un lato e Matilde di Canossa e il Pontefice dall’altro, che come tentativo dei Pisani di «accumulare meriti nel confronti della Sede Apostolica»45.
Certamente la presenza del vescovo Benedetto, probabilmente da identificarsi con il titolare della cattedra di Modena e fedele di Matilde, come capo spirituale della spedizione contribuisce a rafforzare l’idea che una rinnovata intesa fosse stata stabilita con la marchesa. Anche il richiamo, ripetuto all’interno del Carmen (vv. 16, 33, 265), alla liberazione dei prigionieri e annoverato tra le principali motivazioni della spedizione riecheggia la concessione matildina del 1077, ove si prospettava l’ipotesi che i cives potessero fruire delle beni donati in redentionem captivorum46
. All’interno del Carmen il commuovente planctus del visconte Ugo II (vv. 185-192), morto durante la spedizione, e il modo in cui il giovane pisano viene ricordato come il capud urbis (v. 167) e dux atque princeps cum corde fortissimo (v. 177) svelerebbe l’orientamento filomatildino dell’anonimo compositore. Inoltre, secondo Ronzani, l’ampio spazio, sette strofe, dedicate alla confusio triumphi generata dalla morte del visconte lascerebbe intravedere le ripercussioni della morte di Ugo II all’interno della vita cittadina, e cioè il sorgere di un pericoloso vuoto istituzionale47.
44
Tangheroni, Pisa, cit., pp. 45-47 e cfr. nota 45 del presente testo per la bibliografia.
45 Cfr. Matzke, Daiberto, cit., p. 53 per l’interpretazione sopracitata, ma anche pp. 41-46 sulle imprese
pisane contro i saraceni. Ronzani, Chiesa e civitas, cit., p. 224, offre una lettura differente in relazione alle parole del privilegio urbaniano del 1091.
46
Si accoglie qui una suggestione di M. Ronzani, Dall’edificatio ecclesiae all’«Opera di S. Maria»:
nascita e primi sviluppi di un’istituzione nella Pisa dei secoli XI e XII, in Opera: carattere e ruolo delle fabbriche cittadine fino all’inizio dell’età moderna, a cura di M. Haines-L. Riccetti, Firenze
1996, pp.1-70, in particolare, p. 13.
47
38
Il valore dell’impresa per il ristabilimento dei legami tra Pisa e la Sede Apostolica appare indubbio48, purtroppo, però il 16 settembre del 1087 Vittore III morì e quando il contingente pisano rientrò in patria non solo la civitas era ancor priva di presule, ma anche il capud urbis, il visconte Ugo II, l’ultimo riferimento intorno al quale i
cives, o forse una parte di essi, sembravano aver ritrovato la loro unità, era venuto a
mancare49. Si aprì così per Pisa un periodo caratterizzato da una guerra civile «strisciante» i cui limiti cronologici non sono facili da stabilire e di cui è testimonianza il già menzionato «lodo delle torri» con cui il nuovo presule Daiberto riuscì a pacificare la città50. Secondo quanto suggerito da Giuseppe Scalia, al periodo successivo al ritorno del contingente pisano da al-Mahdīya dovrebbe risalire anche la composizione del Carmen 51. Invero, altri sudiosi, hanno proposto datazioni differenti: Fisher ne ha ipotizzato la composizione intorno al 1120, mentre Cowdrey e Tangheroni, sebbene non si lancino in affermazioni assertive, sembrerebbero optare per un periodo più vicino agli anni della prima crociata52. Il testo del componimento poetico appare caratterizzato da un forte spirito di appartenenza alla civitas, che viene presentata come unita, e riflette la volontà celebrativa di una città consapevole della sua potenza militare. La datazione del Carmen ai mesi successivi al rientro da al-Mahdīya appare ad oggi ancora la più convincente; tuttavia tale periodo come appena richiamato fu caratterizzato dai violenti conflitti interni e, sebbene ciò non costituisca certamente un’argomentazione tale da escludere il 1087/1088 come periodo di datazione, forse potrebbe essere presa in considerazione l’ipotesi di
48
La situazione della sede vescovile di Genova, compartecipe dell’impresa sulle coste della Tunisia, appare assai ardua da delineare. Intorno al 1087 morì Corrado II, vescovo di deciso orientamento imperiale ma soltanto a partire dal 1090 la città ebbe una nuova guida spirituale nella figura di Airaldo, le cui modalità di elezione, mi pare, restino ancora oscure. Cfr. V. Polonio, Istituzioni
ecclesistiche della Liguria medievale, Roma 2002, pp. 23-24; L. Filangieri, La canonica di San Lorenzo di Genova. Dinamiche istituzionali e rapporti sociali (secoli X-XII), in «Reti Medievali»
2006/2, pp. 1-37, in particolare § 2.
49 Cfr. Ronzani, Chiesa e civitas, cit., p. 228. 50
Ronzani, Chiesa e civitas, cit., p. 229 e Id. Vescovo e città, cit., p. 129 per la definizione di questi mesi come caratterizzati da una «vera e propria guerra civile strisciante».
51
Scalia, Il carme pisano, cit., p. 570.
52 Fisher, The pisan clergy, cit., p. 185. Cowdrey, The Mahdia campaign, cit., p. 23; Tangheroni, Pisa,
39
collocare la composizione dell’opera ad un momento di poco successivo e di pacificazione, come quello inaugurato da Daiberto.
In conclusione ciò che preme sottolineare è che l’assenza per un così lungo periodo di un vescovo sulla cattedra di Santa Maria non può essere stata dettata unicamente dalle difficili condizioni di successione a Gregorio VII e dalla prematura dipartita di Vittore III. La lunga sedevacanza dovette avere più profonde origini probabilmente legate alla complessa situazione politica cittadina in cui l’equilibrio del potere dovette oscillare più volte tra filoenriciani e filopapali. Una conferma indiretta a quanto appena detto si potrebbe ritrovare nella scelta del nuovo presule in grado di non suscitare troppi malcontenti e che, riuscendo a trovare una soluzione al conflitto allora in atto, traghettò la civitas fuori dall’impasse.