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Anni Settanta: l’operare estetico nel sociale

Nel documento Gentes - anno IV numero 4 - dicembre 2017 (pagine 185-188)

L’approccio partecipativo dell’estetica contemporanea:

2. Anni Settanta: l’operare estetico nel sociale

Il fervore socio-politico contagia, negli anni settanta, ogni aspetto del vivere quotidiano, compresa l’arte. Si sviluppa, infatti, la consapevolezza che essa, in quanto infrastruttura del reale, potesse essere un valido stru-mento per la trasformazione del contesto socio-cultu-rale; si captano le sue possibilità educative, etiche e politiche (cfr. Celant 1976, p. 18).

All’istantaneità delle avanguardie subentra, sin dai primi anni Settanta, una possibilità di comunicazione capace di rompere i vincoli monologici e di disporsi come strumento di conoscenza ed intervento nel re-ale: l’oggetto con cui l’artista si confronta ed entra in rapporto si costituisce, dunque, nella relazione che egli intende testimoniare come «nuova apertura dia-logica e costruttiva di rapporti e relazioni effettive esi-stenziali» (Crispolti 1968, pp. 42-43).

L’atteggiamento di base, sostiene Crispolti, è «un inedito impegno relazionale» (Crispolti 1968, p. 51): l’arte tende ad opporsi al conformismo della tradi-zione accademica incarnando, in tal modo, l’apertura verso nuovi valori in senso ontologico e sociale. Del resto «l’arte per eccellenza è ipotesi di valore non ce-lebrazione di valori acquisiti» (Crispolti 1968, p. 97).

È proprio a partire da tali concezioni che la ricerca artistica degli anni Settanta struttura le sue metodo-logie e si impegna «a superare ogni ostacolo che li-miti il rapporto con il reale» (Celant 1976, p. 28). Il fare artistico si affaccia sui bisogni reali, si relaziona con essi; abbandona gli spazi ad esso deputati, supe-rando la dicotomia opera d’arte-museo/galleria, e si immerge nel presente (cfr. Celant 1992, p. 415). Non è un caso, infatti, che uno dei grandi temi della ricer-ca artistiricer-ca di questi anni risulterà essere proprio «l’impegno dell’arte su un piano politico e sul piano più generale del suo rapporto con la vita e la ridefi-nizione dell’arte in termini costruttivi che ingloba la dimensione dell’ambiente urbano e della

partecipa-zione creativa dello spettatore» (Popper 1980/1994, p. 138). Si gettano, quindi, le basi per una «nuova arte popolare, di partecipazione creativa e di trasforma-zione ambientale» entro le quali l’artista ridefinisce la propria posizione in una «responsabilità esteti-co-sociale» (Popper 1980, p. 138). Partendo da tali presupposti, nel volume La pratica sociale dell’arte, Octavio Paz ribadì quanto l’aspetto peculiare dell’ar-tista, in quegli anni, era quello di essere «un animale politico, nel senso pieno del termine, non solo un ani-male sociale, ma, come vuole la concezione marxiana, uomo che può individualizzarsi solo in società» (De Paz 1976, p. 217).

Da artista, dunque, ad operatore culturale le cui pri-orità diventano le masse ed i loro rapporti interper-sonali, la libertà delle coscienze, il senso della realtà e dei suoi limiti: «artista-operatore – scrive Crispolti – che vuole operare per la società in senso conoscitivo, contestatario e intimamente rivoluzionario» (Crispol-ti 1971, p. 24).

Qualche anno dopo lo scritto di Crispolti, sarà Enzo Mari a tornare sulla questione nel suo Falce e martello dove scriverà che:

«(...) per un artista esistono quattro tipi di comportamento nel momento in cui vuole contribuire con la propria capacità tecnica alla lotta di classe. 1. Attuare la propria ricerca di linguaggio alla condizione, da un lato, di essere coerente con ciò che implica la sua definizione, dall’altro, di cercarne gli interlocutori effettivi nell’ambito della propria classe. 2. Celebrare la rivoluzione mediante oggetti realizzati utilizzando linguaggi già conosciuti nell’ambito delle poetiche tradizionali. 3. Progettare opere concretamente funzionali a specifici momenti di lotta. 4. Mediare la propria coscienza tecnica» (Mari 1973, s.p.).

A cambiare, dunque, sarà anche il linguaggio dell’ar-te: non solo e non più oggetti-capolavoro, quanto piuttosto esperienze estetiche costruite sulla consa-pevolezza che solo dal rispecchiamento in una data situazione possa nascere un coinvolgimento morale tale da suscitare una partecipazione concreta.

L’operatore instaura con il fruitore un rapporto di re-ciproca collaborazione che, alla fine, si risolve in una esperienza comune che, verificata nelle strade, nei luoghi di lavoro e nella città, si traduce in valore este-tico (cfr. Archivio Storico Arti Contemporanea, 1978, pp. 217-218). Si avverte, in questi anni, una tensione della ricerca artistica a lavorare ed operare in spazi socialmente praticabili quali scuole, quartieri e con-testi urbani, intesi non più soltanto come realtà topo-grafica, bensì come tessuto sociale che rappresenta, simbolicamente, la vita associata degli uomini, i loro rapporti, le loro vicende e le loro tensioni.

La città è considerata come «la forma fisica dei tipi più elevati e complessi di vita associativa», uno spazio sociologico, una rete di comunicazione di massa dal

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Gentes, anno IV numero 4 - dicembre 2017 Strategie e pratiche delle culture contemporanee

momento che in essa si svolge «la vita collettiva a par-tire dal suo livello quotidiano locale» (Guiducci 1975, p. 38), diventando così, «luogo di commercio sociale» (Crispolti, Somaini 1972, p. 73).

Ciò di cui si avverte l’esigenza è una riappropriazio-ne sociale di tali spazi intesi come luoghi di vita co-munitaria e come nuovo campo di operatività cultu-rale: per l’operatore culturale il campo urbano si pone come luogo primario nel quale la partecipazione di-venta metodologia estetica. Si tratta, dunque, di una prassi profondamente sociale oltre che di un momen-to implicitamente politico poiché essa, citando Enrico Crispolti, sperimenta «sistemi linguistici per l’autoge-stione, la promozione della creatività e l’autogestio-ne popolare» forl’autogestio-nendo «a tutti il modo di esprimersi graficamente e spazialmente e di contribuire alla for-mazione del proprio spazio» (Crispolti 1977, p. 82).

Lo scopo è quello di infrangere le barriere cultu-rali e sociali, e di rompere quell’inibizione creata da misure economiche, politiche ed educative derivanti da una gestione del potere di tipo gerarchico e pira-midale. Partendo dalla constatazione che un siffatto sistema socio-politico tenda a reprime le istanze so-ciali, espressive e creative dell’individuo, l’ideologia della partecipazione vuole essere un mezzo per sti-molare una presa di coscienza di tale repressione: l’e-spressione artistica, dunque, è dimensione collettiva della stessa. «Per molti operatori – ha scritto Giovanni Rubino – il passaggio per trovare un diverso modo è stato quello di lavorare in gruppi» (Rubino 1977, s.p.).

La dimensione partecipativa trasforma così l’ope-ratore in co-opel’ope-ratore innanzitutto inserito e pie-namente attivo nel suo contesto sociale, urbano ed umano. Se da una parte questa apertura orizzontale, una sorta di flatbed steinberghiano (Steinberg 2008),1

comporta le ritrosie di una élite culturale abituata alle ermetiche chiusure, dall’altra mette in circolo una se-rie di energie e azioni difficilmente ascrivibili al set-tore estetico così come allora veniva riconosciuto. Il mutamento come scrive Crispolti, non è infatti dei ruoli, bensì di segno operativo verso quei ruoli e per fare questo «occorre che il momento produttivo (cioè la creazione) sia il più prossimo al momento organiz-zativo (ciò la mediazione)» (Crispolti 1977, p. 22).

L’artista si trova, dunque, ad interagire in un luogo

1  Leo Steinberg nel suo Other Criteria del 1972 usò il concetto di pianale (flatbed) «per descrivere il piano pittorico caratteri-stico degli anni Sessanta. Una superficie pittorica la cui ango-lazione rispetto alla stazione eretta dell’uomo è la condizione preliminare del suo contenuto» (Steinberg 1972, p. 129.) Nello stesso saggio Steinberg scrive: “tendo a considerare il passaggio dalla posizione verticale a quella orizzontale come l’espressione del più radicale cambiamento nel contenuto dell’arte: il passag-gio dalla natura alla cultura”, (Steinberg 1972, p. 131).

che potremmo definire mediale; lavora nello spazio delle possibilità, piuttosto che delle certezze; prende atto del contesto e da questo avvia un discorso di ri-appropriazione che sia, innanzitutto, esperienziale.2

Una siffatta esperienza, che abbia una declinazione politica o una poetica, rimarrà sempre un atto parte-cipativo. Una metodologia artistica così concepita di-venta, inevitabilmente, un sistema di relazioni sociali: un ambiente come sociale (cfr. Crispolti 1976) avreb-be detto Crispolti qualche anno dopo.

L’obiettivo sarebbe dovuto essere quello di costru-ire una nuova società attraverso la prassi artistica, laddove il termine costruzione non va inteso come un processo di ideazione o di invenzione, bensì come processo di riunione e confronto.

Ciò che viene riconsiderato, negli anni Settanta, è, dunque, il modo di vivere, interagire ed essere creati-vi della e nella società, in modo da raggiungere quella libertà espressiva che potrebbe rendere ogni indivi-duo un elemento attivo e creativo del proprio conte-sto (cfr. La Pietra 1983, p. 7).

Questa operatività estetica nel sociale si esplicita secondo diverse modalità di rapporto partecipativo: dagli interventi ambientali all’animazione fino ad im-plicazioni di diretto impegno politico, come presenza contestatoria nelle lotte urbane ed operaie o come lavoro culturale attraverso le istituzioni o meno (cfr. Crispolti 1994, pp. 138-139). Il fine è nobile: far in-contrare le varie forze del territorio in una prospet-tiva di gestione orizzontale, paritetica e decentrata delle problematiche culturali.

Ed è per questo che l’operatività nel sociale focalizza tutte le sue energie sul recupero e sulla valorizzazio-ne delle medie e micro comunità (quartieri e periferie ad esempio) che dispongono «di una propria vitalità, capitale di energia, inventiva e originalità a tal punto da potersi imporre come modello» (Crispolti, Restany 1976, p. 453) ed essere considerate non più come aree ripiegate su se stesse, bensì come zone socio-logiche nelle quali possa realizzarsi una diretta par-tecipazione dei cittadini volta alla comprensione dei problemi della comunità stessa in relazione dinamica con la città, il Paese e il mondo (cfr. Ellena, Contessa 1980, p. 119).

L’operatività estetica nel sociale, per tali ragioni, at-traverso la partecipazione, punta alla responsabiliz-zazione degli individui valorizzandone gli specifici patrimoni culturali, mirando all’aumento

dell’attivi-2  Non bisogna dimenticare che già nel 1934 il sociologo John Dewey nel suo Art as Experience aveva sottolineato la necessità per l’arte di scendere dal suo piedistallo e di farsi esperienza ca-landosi nella vita quotidiana di chi di essa fruisce. Per lo studioso era indispensabile che si stabilisse una linea di continuità tra l’e-sperienza estetica e i normali processi di vita (cfr. Dewey 1934).

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smo e alla restituzione del potere e delle responsabi-lità. Ed è su questi presupposti che sono “costruite” le “opere d’arte nel sociale”. Ciò che ne risulta è un’opera il cui valore «sta nella sua capacità emergente, nella sua profondità e spessore poiché l’opera valida è sem-pre problematica in ogni epoca ed in ogni occasione, perché nello spessore dei suoi umori e delle sue indi-cazioni culturali, si troveranno sempre ragioni di ri-lettura ed attualità» (Crispolti, Restany 1976, p. 440). Oramai l’asse si è spostato: dal feticismo dell’oggetto allo sviluppo di processi e lavori dialogici e comuni-tari; si accantonano i problemi del consumo formali-stico del prodotto artiformali-stico per concentrarsi sui suoi aspetti contenutistici dal momento che non è la forma nel suo rappresentarsi ad interessare, ma il significa-to della sua funzione.

Il dualismo, centrale per gli anni in questione, tra l’opera oggetto/feticcio e l’opera come azione/com-portamento si palesa, già nel 1972, con la mostra, a cura di Francesco Arcangeli e Renato Barilli, Opera o

comportamento presentata durante la XXXVI Biennale

di Venezia.3 Scrive Arcangeli:

«Se l’arte, tradizionalmente intesa da secoli ad essere opera affidata a un tempo lungo e durevole, dovrà far posto a un’arte così direttamente vissuta da avere se mai il rischio d’una esteticità troppo diretta e mentalmente separata, anche se diffusa animosamente entro l’esistere, non sarà certo questa Biennale a dircelo. L’alternativa, si ripete, è di fondo, è un’alternativa di ideali e di modi di essere» (Arcangeli 1972, p. 93).

Del resto, citando Giulio Carlo Argan, «non è detto che, ad ogni atto artistico, debba corrispondere la produzione di un oggetto materiale» (Argan 1990, p. 324); allo stesso modo Enrico Crispolti scrisse che «il terreno d’incontro non è l’oggetto […], prodotto in sé conchiuso, quindi intimidatorio, ma il processo, cioè il costituirsi di un’esperienza» (Crispolti 1975, p. 9).

Tuttavia lo stesso Argan sostenne anche che non può esistere una prassi estetica che non sia d’élite in una società, come quella italiana a cavallo dei decenni ses-santa e settanta, nella quale gli stessi artisti

apparte-3  Gli artisti presentati da Barilli erano comportamentisti e con-cettuali, mentre Arcangeli presentava pittori e scultori apparte-nenti per lo più al naturalismo astratto. Scrive Barilli: «Questo confronto tra Opera e comportamento, […] è qualcosa di più, o per lo meno di diverso, da un puro e semplice confronto tra due ‘ismi’, tra due correnti o tendenze. Forse non si esagera asseren-do che si tratta di un confronto addirittura tra due modi di esse-re antropologici, di cui l’uno, quello dell’opera, rappesse-resenta una linea di assestamento ben nota da tempo all’uomo ‘occidentale’, che in essa ha conseguito alcuni dei suoi più tipici e validi risul-tati. L’altro modo di essere invece dovrebbe fornire una specie di punto di arrivo dei numerosi tentativi messi in atto ormai da un secolo a questa parte per sottrarre appunto l’uomo ‘occidentale’ alla sua orbita e per aprirlo all’ ‘altro’, cioè a possibilità di vita più ampie ed intense», (Barilli 1979, p. 96).

nevano, nella maggior parte dei casi, alla borghesia e non alla classe proletaria. Una simile direttrice critica fu percorsa anche da Lea Vergine che nel volume

At-traverso l’arte. Pratica politica/pagare il ’68 del 1976,

polemizzò contro quegli artisti pseudo-rivoluzionari che, nonostante le buone intenzioni, non riuscirono mai ad allontanarsi dal sistema mercantile; allo stesso modo si schierò con quegli artisti la cui ricerca fosse «a carattere prevalentemente estetico in contestazio-ne sistematica della comunicaziocontestazio-ne artistica contem-poranea» (Vergine 1976, p. 9).

L’oggetto artistico, dunque, anche se presente, rap-presenterà soltanto «uno strumento di rapporto, un momento valido in un circuito più ampio» (Crispolti 1977, pp. 201-202), in quanto ciò che conta è la mora-lità del fare e dell’agire artistico in una ricerca di rap-porti vitali e dialettici con la realtà. Gli artisti tendono a rifiutare la ricetta rassicurante e rispondente alle aspettative del sistema e scelgono la fruizione imme-diata dell’evento critico-estetico: gli interventi difficil-mente sono costruiti per durare nel tempo attraverso un oggetto; essi sono, piuttosto, una storia continua di episodi varianti ed in costante trasformazione (cfr. Celant 1976, pp. 102-103).

Quella del decennio in questione è una pratica esteti-ca che, ritengo, possa essere ben descritta dalle parole di Asher quando, nel 1970, affermò che tale metodo-logia è «della pelle contrapposta all’occhio» (Celant 1976, p. 122), un’esperienza che non va solo goduta con lo sguardo, ma sentita e vissuta.

Su tali presupposti si struttureranno, sul finire de-gli anni Sessanta e nel corso dede-gli anni Settanta, gran parte delle esperienze di arte nel sociale costruite a partire da interventi estetici in grado di interagire con il contesto ambientale, urbano e sociale nel qua-le prendono vita. Mi riferisco, ad esempio, a rassegne come Arte povera+Azioni povere (Amalfi) del 1968,

Campo Urbano (Como) del 1969, Volterra ’73, Gubbio ’76, la Biennale di Venezia del 1976. Quest’ultima, la

cui sezione italiana, Ambiente come sociale4, fu cu-rata da Enrico Crispolti e da Raffaele De Grada, offrì l’occasione per fare il punto, forse per la prima volta, sull’esperienze di arte nel sociale realizzate negli anni precedenti sull’intero territorio nazionale.

Sulle pagine del catalogo della suddetta rassegna si legge, infatti, che:

« (...) per l’operatore visivo (e non) la più attuale nozione di ambiente è certamente quella di 4  La sezione curata da Crispolti e De Grada conteneva, a sua volta, le seguenti sottosezioni: Ipotesi di realtà di una presenza

urbana conflittuale; Riappropriazione urbana individuale; Par-tecipazione spontanea; ParPar-tecipazione in rapporto o attraverso l’ente locale; Documentazione aperta.

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ambiente sociale [...]. Non si tratta di surrogare con ragioni di natura puramente sociologica o di azione politica [...] l’operazione visiva tradizionale [...] ma di sottolineare un tentativo molto attuale [...] dell’operatore artistico [...] nel contesto sociale, in un’esperienza cioè al di fuori dei termini canonici del consumo dell’arte: artista – oggetto estetico – galleria d’arte privata o museo – fruitore/collezionista. Queste esperienze rappresentano una notevole peculiarità della situazione culturale italiana oggi, e corrispondono pienamente ai dati e alle prospettive del dibattito politico in Italia» (Crispolti 1976, pp. 3-5).

Dichiarazioni forti queste, soprattutto perché pro-nunciate in ambito “ufficiale”, in quanto segnavano il riconoscimento istituzionale delle richieste di rinno-vamento espresse con forza dai movimenti artistici e politici dal 1968, e della relazione tra la creatività e i fermenti politici e il dibattito sociale in atto.

3. Dal ritorno alla pittura (e al

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