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2.Due studi fotografici, molteplici pro- pro-cessi migratori

Nel documento Gentes - anno IV numero 4 - dicembre 2017 (pagine 156-159)

Il primo esempio che prenderò in considerazione è stato parte di un’esperienza osservata in prima per-sona in occasione della progettazione della mostra fotografica “Fotostudio Baghdad” a cura di Mirjam Shatanawi, presso museo etnografico di Amsterdam nel 2012. Le seguenti riflessioni rispetto ad alcune dinamiche relative alla migrazione sono successive di qualche anno rispetto alla partecipazione nella re-alizzazione della mostra e di una tesi magistrale in antropologia visuale sulla sua progettazione, che ha comportato la consultazione della traduzione delle memorie scritte dal fotografo e la realizzazione di in-terviste con iracheni residenti nei Paesi Bassi e con il personale del museo.

La mostra è stata conseguente all’acquisizione di parte dell’archivio fotografico di uno studio iracheno, lo Studio Iman, collocato ad Al-Husseiniya, una citta-dina nella provincia di Diyala realizzata per i reduci della guerra contro l’Iran, a circa trenta chilometri di distanza da Baghdad, attivo dal 1991 nonostante le vicissitudini attraversate dal suo gestore, il fotografo Yaseen Ebrahim Al- Obeidy. Le persone che si sono messe in posa per più di quarant’anni davanti all’o-biettivo di Yaseen Al-Obeidy sono perlopiù bambini e bambine, preadolescenti, giovani e adulti. I soggetti sono soltanto di sesso maschile nelle foto recenti. Una ventina di donne dalla pubertà all’età adulta sono

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tratte nelle immagini in bianco e nero fino agli anni Ottanta ad eccezione di un due fotomontaggi digitali. La preponderanza maschile dei soggetti ritratti, so-prattutto nelle fotografie più recenti, è dovuta alla de-cisione del fotografo di evitare l’esposizione pubbli-ca di ritratti di donne adulte in tale contesto. Mirjam Shatanawi, curatrice presso il museo per le aree del Medio Oriente e del Nord Africa, è giunta a conoscen-za del lavoro di Yaseen Al-Obeidy nel 2011 grazie alla segnalazione di un’altra curatrice del museo che ha assistito ad una performance teatrale a cui ha parte-cipato il figlio del fotografo, Zaid Al-Obeidy. Durante lo spettacolo diretto dalla regista lettone Elīna Cērpa, Zaid Al-Obeidy ha interpretato il ruolo di sé stesso per narrare il mestiere di suo padre mentre alcune foto-grafie venivano proiettate come parte della scenogra-fia. Solo poche settimane dopo che il museo si è messo in contatto con lui, Zaid ha dovuto lasciare i Paesi Bas-si a causa del mancato riconoscimento dello status di rifugiato e ritornare in Iraq. La mostra inaugurata nel 2014 era organizzata secondo una disposizione che sottolineava da un lato la storia dell’attività fotografi-ca di Yaseen Al-Obeidy e l’evoluzione del mezzo foto-grafico e, dall’altro, le pratiche di presentazione del sé da parte dei soggetti ritratti.

Il corpus della mostra e gli accadimenti che hanno portato le fotografie in questione ad essere esposte nei Paesi Bassi interagiscono su più livelli con il tema della migrazione.

Nel corso della sua vita, Yaseen Al-Obeidy ha lavora-to in vari studi fra Baghdad, Bashra e Al-Husseiniya a seconda del periodo e dei cambiamenti geopolitici in atto. Tra i quali due colpi di stato, la salita al potere del partito baatista, la dittatura di Saddam Hussein, lo scatenarsi di tre guerre e i disordini provocati nel 2011 dalle violenze, allora presentate come settarie, che stavano portando al nascente Stato Islamico. La storia del suo studio fotografico è anche una storia di migrazione interna e di sfollamento, che segue la car-riera di Al-Obeidy in studi gestiti da altri fotografi nei primi anni della sua carriera ed in seguito alla chiusu-ra dello studio di Bashchiusu-ra dovuta alla guerchiusu-ra.

Il secondo livello di migrazione interna è quello re-gistrato dall’obiettivo delle sue macchine fotografi-che fotografi-che, nell’arco di quarant’anni, vede la popolazio-ne locale cambiare radicalmente, dal ceto medio dei raffinati ritratti in bianco e nero alle classi povere di sfollati da altre zona dell’Iraq degli ultimi decenni. L’inaugurazione della mostra è avvenuta nel 2014 in presenza dell’allora console iracheno nei Paesi Bassi, il cui orgoglio e nostalgia espressi davanti ai ritratti degli anni Sessanta sono andati attenuandosi mano a mano che procedeva verso i ritratti più recenti, che non sembravano quasi raffigurare i suoi connazionali.

Un altro aspetto è quello della migrazione interna-zionale, rimasto esterno dall’inquadratura delle fo-tografie esposte nella mostra, ma che costituisce la ragione fondamentale della loro esibizione pubblica. Il tentativo di Zaid, a sua volta fotografo, di trasferir-si nei Paetrasferir-si Bastrasferir-si e iniziare un’attività fotografica in proprio è stato bloccato dal respingimento della sua richiesta di asilo politico. I progetti migratori di Zaid, oltre alla professione esercitata assieme al padre, era-no esplicitamente affrontati nel corso delle perfor-mance teatrali sul tema della fotografia alle quali ha partecipato, così come un attacco subito nel 2007 e la decisione del fratello maggiore di partire per il Nord Europa, ma sono stati tralasciati dalla mostra se non per una rapida menzione nei testi introduttivi. Anco-ra prima della partenza di Zaid, il livello microstorico catturato dal succedersi degli scatti di Al-Obeidy ri-flette gradualmente l’abbandono del paese da parte dei ceti altolocati e del ceto medio in fuga dal partito Ba’ath e dalle guerre. La stessa acquisizione del primo studio di proprietà da parte di Al-Obeidy fu resa pos-sibile dalla vendita dell’attività da parte del vecchio proprietario, suo datore di lavoro, per procurarsi i fondi necessari ad emigrare negli Stati Uniti nel 1975.

Un ulteriore processo migratorio è quello delle foto-grafie stesse e del loro trasferimento in Europa dove, a differenza delle persone che le hanno portate lì, ac-quisiscono la possibilità di rimanere stabilmente, in-serite nella collezione del museo.

L’aspetto fondamentale e meno esplorato dalla mo-stra è quello della vita sociale e dell’uso delle immagi-ni da parte dei loro fruitori primari: chi le ha commis-sionate e chi vi è ritratto, ignaro della loro esposizione internazionale. Non è possibile confermarlo, ma le persone ritratte da Yaseen Al-Obeidy fin dagli anni Sessanta hanno avuto, nella migliore delle ipotesi, un destino simile a quello del fotografo e della sua fami-glia, con spostamenti interni ed internazionali, por-tando con sé parte delle stampe fotografiche originali, quando possibile, oppure inviandole ai propri cari. Gli esuli iracheni che sono stati intervistati durante la re-alizzazione della mostra ad esempio avevano recupe-rato parte delle fotografie di famiglia ricevendole per posta dai propri cari oppure ritornandovi soltanto in seguito alla caduta del regime di Saddam Hussein.

C’è tuttavia un altro aspetto che riguarda più in astratto la migrazione delle immagini: quello delle immagini digitali circolanti su scala globale nel web, come i fondali e le sagome senza volto utilizzate da Al-Obeidy e provenienti da forum specializzati su in-ternet, destinate alla creazione di ritratti aspiraziona-li. Le sagome usate da Al-Obeidy provengono in par-te dal sito inpar-ternet egiziano Swishschool, dove sono rintracciabili alcuni sfondi e vestiti ripetuti nei

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montaggi. La fornita collezione di immagini di vestiti di ogni foggia, scontornate e vuote in prossimità del viso, consente di ottenere ritratti agghindati a secon-da dell’occasione desiderata e dell’appartenenza set-taria che si intende dimostrare. Le immagini digitali

raw mostrano i soggetti davanti allo scarno sfondo

az-zurro dello studio, come nel caso di un padre in divisa da soldato che regge la figlioletta davanti all’obiettivo, ma il risultato finale è un mondo fantastico e surreale in cui i soggetti sono immersi in paesaggi paradisiaci, luoghi di pellegrinaggio o scenari romantici.

Più che ribadire un’appartenenza identitaria sulla base della quale è stata impostata la società irachena in seguito all’ultimo intervento armato statunitense, i ritratti di Yaseen Al-Obeidy espongono una intenzio-ne performativa analoga a quella che Tina Campt, intenzio- nel-la sua analisi delnel-la fotografia di studio e vernaconel-lare rispetto alla diaspora africana in Germania, ha ricol-legato alle pratiche di self fashioning (v. Campt 2012) e di presentazione del sé da parte dei soggetti foto-grafati, desiderosi di “uscire bene” 6 nelle immagini. La mostra “Fotostudio Bagdad” ha messo in evidenza questo aspetto affiancando immagini in cui lo stesso soggetto si presenta come devoto in pellegrinaggio in un caso e come amante ideale nell’altro.

Il progetto migratorio che il figlio secondogenito di Al-Obeidy non è riuscito ad attuare nei Paesi Bassi, aprire un proprio studio fotografico nel paese di arri-vo, è stato invece realizzato da altri fotografi migranti, come per esempio Lee To Sang. Lo studio di questo fotografo surinamese di origini cinesi e indonesiane è stato raccontato nel documentario To Sang Fotostudio di Johan van der Keuken, che ne narra la biografia fra tre paesi e l’interazione quotidiana con gli altri abi-tanti di un quartiere multietnico di Amsterdam negli anni Novanta. Il documentario ha portato l’attività di To Sang all’attenzione del fotografo Martin Parr, che ha inserito degli scatti del suo studio nella serie

Au-toportraits e da lì nel circuito della fotografia d’arte.

Al di fuori dal contesto europeo, il successivo esem-pio di studi fotografici gestiti da migranti è Sajeev

6  Anche Pinney utilizza la locuzione “uscire bene” per indi-care la riuscita di un ritratto di studio: «Consumers still opt to surrender themselves to their local studio impresarios, in the hope that under their skilled direction they will ‘come out better’. Wanting to ‘come out better’ in their photographs is the aspiration of every visitor to the studio, and they denote by this the desire not to replicate some pre-existing ‘something else’ (for instance that impossible subjectivity of who they ‘really’ are), but to submit themselves to masterly pro-filmic techni-cians who are able, through the use of costume, backgrounds, lighting and camera angles, to produce the desired pose, ‘look’, mise-en-scene, or expression» (Pinney 2012, p. 145).

Digital Photo Studio, collocato nel quartiere di Little India a Singapore.

Lo studio in questione è un piccolo negozio gestito da K. Sajeev Lal assieme alla moglie Sheeja Shaj, dove i clienti, soprattutto lavoratori provenienti da Tamil Nadu e dallo Sri Lanka si recano per farsi scattare un ritratto di fronte ai fondali dipinti o ai montaggi digitali realizzati da Sajeev. Parte del suo archivio di immagini scattate fra il 2005 ed il 2015 sono state raccolte nell’istallazione fotografica intitolata “Sajeev Photo Studio: A Decade of Portraiture in Little India” e messe in mostra presso il centro Objectifs di Sin-gapore, con la curatela del progetto Invisible Photo-grapher Asia. Lo stesso spazio dello studio fotografico di Sajeev è concepito come un’istallazione fotografica, con le pareti tappezzate dai ritratti in una dimensione semi-pubblica.

I testi dell’esposizione indicano come scopo prin-cipale delle immagini realizzate presso lo studio di Sajeev l’invio delle foto ai propri parenti in madrepa-tria che le utilizzeranno l’organizzazione di matrimo-ni combinati. La riuscita stessa della ricerca di una moglie viene ricondotta in gran parte alla bravura del fotografo, che vanterebbe una percentuale di riuscita altissima. Anche in un periodo storico in cui è dispo-nibile un’offerta di applicazioni digitali e siti specializ-zati per la ricerca di una partner, la realizzazione del ritratto del pretendente viene affidata a un professio-nista a maggior ragione per l’importanza della prima impressione sul profilo online.

Nei testi della mostra viene specificato che in se-guito al matrimonio lo studio viene scelto dal nuovo nucleo familiare quando il lavoratore migrante torna a Singapore per farsi ritrarre con la moglie prima e con moglie e figli poi. Solitamente i clienti sono giova-ni al primo o al secondo anno di permesso di lavoro a Singapore, che corrisponde al periodo in cui viene sanato il debito contratto per poter emigrare a costo di sopportare condizioni di pesante sfruttamento la-vorativo. I ritratti scattati nello studio di Little India che sono stati inclusi nell’istallazione mantengono quindi un carattere fortemente aspirazionale. Nelle immagini digitali composte i soggetti posano di fron-te agli iconici grattacieli della metropoli, riuniti senza apparente ricerca di verosimiglianza prospettica, con aerei che svettano pericolosamente in prossimità dei palazzi.

Questo aspetto, analogo ad altri casi di fotografia di studio a scopi matrimoniali7, mette in discussione e gioca sul noema della fotografia identificato da

Bar-7  Immagini simili sono realizzate anche in uno studio colloca-to ad Abu-Dhabi dove i lavoracolloca-tori stranieri richiedono ritratti da inviare in madrepatria. (v. Nereim 2013)

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thes: ça a été. Nelle sette tesi sulla fotografia, Pinney distingue fra il corpo della persona che si pone din-nanzi all’obiettivo e il valore di verità attribuito alle fotografie, ricollegandosi alla distinzione operata da Barthes fra corpo e corpus in La Chambre Claire. I ri-tratti aspirazionali che sintetizzano la cultura della mi-grazione tramite un fondale simbolico, e proprio per questo irreale e artefatto, si appropriano del valore di indicalità della fotografia (Pinney 2012, pp. 6-11). Anche in questo caso l’installazione fotografica apri-rebbe a ulteriori approfondimenti rispetto ai processi migratori. In primo luogo la ricostruzione dell’altro lato, la circolazione delle fotografie prematrimoniali nei paesi di origine e la realizzazione dei ritratti delle future mogli, dato che le immagini esposte riguarda-no prevalentemente soggetti maschili, accompagna-ti dalle mogli come per confermare il successo dello scatto precedente. La percezione dei ritratti da parte delle future mogli e delle loro famiglie è un aspetto ri-scontrabile tramite una ricerca multisituata, in modo da controbilanciare l’enfasi del fotografo nel sottoli-neare il tasso di successo senza considerare i fattori che concorrono alla scelta del pretendente. Restituire anche una prospettiva di genere alla pratica delle fo-tografie di studio aiuterebbe a valutare da un punto della teoria del mezzo fotografico quanto quella di-screpanza fra corpo e corpus sia condivisa all’infuori dello studio e dei suoi clienti. In secondo luogo, analo-gamente al rapporto fra dentro e fuori lo studio, seb-bene in modo meno problematico rispetto all’Iraq, an-che in questo caso si pone il confronto con quello an-che rimane oltre al fondale delle fotografie. In particolare la rivolta dei lavoratori indiani e cingalesi avvenuta a Little India nel 2013 alla quale il fotografo ricollega un calo lavorativo. Dietro le ragioni della rivolta stessa si celano le precarie condizioni dei migranti a Singapo-re, gli stessi che usufruiscono dell’attività dello studio per la realizzazione di ritratti fortemente aspirazio-nali. Il vissuto stesso di Sajeev rispecchia di per sé la condizione della minoranza indiana: nato a Singapore si trasferisce in India all’età di tre anni per raggiunge-re la madraggiunge-re, ma vi ritorna quindicenne per svolgeraggiunge-re lavori pesanti emancipandosi successivamente grazie alla fotografia. Dato che non si tratta di un tipo di fo-tografia documentaristica, l’effetto della situazione in atto influisce sulla quantità della clientela e sul ritmo di lavoro, ma non sulla qualità del ritratto: nulla deve trasparire dalle immagini offerte per garantirne la ri-uscita e assicurarsi le commissioni del futuro nucleo familiare.

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