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I primi imitatori di Luigi da Porto: la Giulietta ‘moralizzata’

Nel documento Gentes - anno IV numero 4 - dicembre 2017 (pagine 46-50)

di Bandello e l’Adriana sensuale

di Luigi Groto

Serena Cozzucoli,

Università per Stranieri di Perugia

Abstract:

Luigi da Porto, nato nel 1485, morì nel 1529 per le conseguenze di una grave ferita riportata in guerra. Non aveva pubblicato niente in vita: la novella di Giulietta, in particolare, venne edita a cura del fratello Bernar-dino nel 1530/31 con il titolo Historia novellamente ritrovata di due

no-bili amanti e quindi nel 1535, per lo stesso editore veneziano Bendoni;

e poi, con il nuovo titolo La Giulietta, nel 1539 sempre a Venezia da Mar-colini. Subito celebre, conobbe il normale destino dei rifacimenti e delle imitazioni. Nel 1553 Gherardo Boldieri pubblicava a Venezia per Gioli-to un adattamenGioli-to in versi (L’infelice amore de i due fedelissimi amanti

Giulia e Romeo scritto in ottava rima da Clizia veronese ad Ardeo suo,

opera fiacca e di un petrarchismo di maniera; nel 1554 Matteo Bandello (1485-1561) la introdusse nella seconda parte delle sue Novelle (II, 9), con il titolo La sfortunata morte di due infelicissimi amanti. Nella riscrit-tura del frate domenicano, all’epoca trasferitosi in Francia, la trama è praticamente identica, ma lo scopo è ammonitorio: censurare l’azzarda-ta decisione di Giulietl’azzarda-ta e di Romeo di contrasl’azzarda-tare la volontà dei genitori e sposarsi segretamente (esempio, secondo Bandello, da non seguire da parte di giovani). Interessante è poi il rifacimento di Luigi Groto, detto anche il Cieco di Adria (1541-1585), che nel 1578 mise in scena, in versi, la vicenda dei due amanti veronesi in una tragedia, Adriana, che antici-pa non poco il dramma shakespeariano: con un notevole successo, viste le nove ristampe che si succedettero dal 1582 al 1626. Qui la vicenda, ambientata in un lontano passato nella città di Adria, ripercorre quella originaria avvolgendo però la storia in un’atmosfera sensuale e luttuosa, e in un clima favoloso che era del tutto assente nel testo di partenza.

Keywords: Bandello, Groto, tragedia, Giulietta, Romeo

Dopo il 1530, anno della pubblicazione postuma della novella di Luigi da Porto1, a cui si riconosce il merito di aver per primo fatto vivere sulla carta la vi-cenda dei due amanti veronesi, il primo riferimento alla storia di Giulietta e Romeo è attestabile nel 1553 con la stampa a Venezia di un poema anonimo, L’infe-lice Amore dei due Fidelissimi Amanti Giulia e Romeo, scritto in ottava rima da Clizia, nobile veronese, ad Ardeo suo. Nonostante l’uso dello pseudonimo Clizia, è a partire dalla dedica2 apposta dall’editore Giolito che gli studiosi sono riusciti a identificare l’autore in Gherardo Boldieri3, nobile veronese della cui vita si possiedono poche informazioni. Il poemetto, sem-plice nello stile, attesta la rapida fortuna del testo daportiano e presenta una novità che riguarda pre-1  La novella daportiana venne pubblicata postuma nel 1530/31, presso l’editore veneziano Bendoni, con il titolo

Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti; nel 1535 è

attestata una successiva ristampa presso il medesimo editore e del 1539 è la stampa veneziana del Marcolini con il nuovo titolo

La Giulietta, curata dal fratello Bernardino.

2  In dedica alla duchessa di Urbino Vittoria Farnese Della Rovere: << E tanto più ho procacciato lor (alle rime) questo favore (di pubblicarle), quanto più ho conosciuto che dal cavalier Gherardo Boldieri, il quale a Vostra eccellenza le promise, non erano per ottenerlo >>.

3  L’unico studio completo sul Boldieri è quello di G. Brognoligo che è riuscito a dimostrarne la paternità del poema.

valentemente l’uso dell’ottava, che rimanda alla tradi-zione dei cantari trecenteschi e di alcuni poemetti del Boccaccio. Non vi sono cambiamenti sostanziali nella trama, che sembra però proporre un’ambientazione borghese campagnola. Le divergenze, invece, riguar-dano il nome della protagonista e la sua morte: Giulia non si uccide trafiggendosi con un pugnale, come in Shakespeare, ma sceglie – sull’esempio di Da Porto – di lasciarsi morire richiamando a sé gli spiriti vitali; una morte di dolore che rende la scena più violenta rispetto ad altre versioni:

Mentre accoppiar i basci ultimi finge, et al frate tuttor le spalle volta, il suo Romeo con la sinistra cinge, e tutta in sé tien l’anima raccolta; con l’altra man chiude le labbra, e stringe le nari sì, ch’indi allo spirto tolta la via di star per troppo spirto in vita, scoppia; e dà insieme al duol fine alla vita (Romano, 1993, p. 211) Nel 1554, un anno dopo il poema di Boldieri, il ricor-do di Giulietta e Romeo si fa vivo grazie alla penna di Matteo Bandello, autore di una novella che ha susci-tato l’interesse di un vasto pubblico europeo, che ha contribuito, attraverso una serie di traduzioni talvolta poco fedeli, ad avvicinare sia da un punto di vista geo-grafico che linguistico, la novella alla famosa versione di Shakespeare. Si crede, infatti, che l’opera sia stata tradotta in Francia da Boaistuau nel 1559 con la sua Histoire tragique e che, a sua volta, la traduzione fran-cese sia stata tradotta in inglese nel 1562 da Arthur Brooke, la cui Tragical Hystory of Romeus and Juliet è riconosciuta come la vera fonte della tragedia shake-speariana.

Matteo Bandello, nato nel 1485 in una famiglia aristocratica lombarda, fu un frate domenicano che condusse una vita più laica e mondana che religio-sa. Scrittore inquieto, autore di diverse opere, tra cui un canzoniere in stile petrarchesco, ma reso unica-mente famoso dalla produzione in prosa, conosciuta maggiormente in Francia, a testimonianza della sua marginalizzazione rispetto al maturo rinascimento italiano. Dopo il Decameron, i suoi quattro libri costi-tuiscono la maggiore raccolta novellistica italiana: i primi tre furono pubblicati a Lucca nel 1554, mentre il quarto fu pubblicato postumo a Lione nel 1573, con un totale di 214 novelle. I materiali narrativi, tratti da fonti diverse, dalla più sofisticata tradizione letteraria a fatti di attualità, danno vita a casi strani e impreve-dibili, in un’alternanza di drammatico e comico.

La novella di Giulietta e Romeo è la nona del secon-do libro. I tempi di composizione non sono noti4, an-che se un chiaro riferimento nella lettera dedicatoria 4  È diffusa tra gli studiosi l’ipotesi di un incontro, agli inizi del suo soggiorno veneto, tra il Bandello e il Da Porto, al quale è dedicata la ventitreesima novella della terza parte.

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permette di collocare idealmente la scrittura dell’o-pera tra il 1531 e il 1536, individuando nella cita-zione dell’epigramma di Fracastoro sulle Tre Parche – terminate nel 1531 - un termine post quem e nella sua partecipazione alla guerra di Piemonte un riferi-mento ante quem. Si sa che dal 1529 Bandello visse a Verona per sette anni, in qualità di segretario presso Cesare Fregoso, e che la novella fu raccontata in occa-sione dell’ospitalità offerta al Fregoso stesso da Mat-teo Boldieri, certamente legato da vincoli di parentela al Gherardo Boldieri precedentemente menzionato. Rispetto al testo di Da Porto, la trama resta immuta-ta: stessi personaggi, stessi luoghi, stessa durata del-la storia che ricopre un arco di tempo di nove mesi. Anche la protagonista mostra non poche somiglianze, nel nome, nell’età, diciotto anni a dispetto della non ancora quindicenne Giulietta shakespeariana, e nella morte che avviene in maniera similare. Nella riscrit-tura, invece, ciò che inevitabilmente cambia è lo stile narrativo. Pur riprendendo dal predecessore in molti punti le stesse frasi5, i dialoghi sono più ampi e ricchi, alcuni personaggi vengono maggiormente definiti e si coglie un maniacale bisogno di spiegazioni, indugian-do su particolari insignificanti. Il più importante cam-biamento avviene, però, ad un livello profondo della tessitura dell’opera e consiste nella trasfigurazione della vicenda in chiave moralistica e con scopo am-monitorio. Nella lettera dedicatoria, con la quale Ban-dello è solito far precedere ogni novella e nella quale indica il nome del narratore e l’occasione in cui è stata raccontata, lo scrittore afferma chiaramente che il fine del racconto è quello di ragguagliare i giovani affinché imparino a controllare i propri impulsi sentimentali:

E perché mi parve degna di compassione e d’esser

consacrata a la posterità, per ammonir i giovini che imparino moderatamente a governarsi e non correr a furia, la scrissi (Perocco 2008, p.87) Anche la scelta di scartare il modello boccacciano della cornice e di incastonare le novelle in uno sche-ma epistolare sembra essere funzionale all’intento moralistico, perché consente allo scrittore di ricreare l’originaria dimensione discorsiva e di intervenire li-beramente con commenti educativi rivolti al lettore. Nella dialettica fra caso e passione, la classica visione romantica della storia viene superata a favore dell’os-sessione per un amore ben regolato, rendendo in tal modo la vicenda dei due amanti non la vera anima della novella ma uno strumento di riflessione sulle insidie dell’agire umano e il conseguente scontro con 5 "In verità il bandello non nasconde il plagio. Anzi, nella lettera di dedica al Fracastoro, egli accenna chiaramente all’origine dei suo racconto, pur innovando il contesto in cui esso viene a collocarsi" (Romano, 1993, pp. 22, 23).

le forze sociali. Si prenda ad esempio l’episodio della prima notte di nozze dei due giovani, consumata en plein air sulla panchina di un giardino. Si tratta di una scena di intensa sessualità e di chiara eco boccacce-sca, assente in altre versioni. Una novità assoluta di Bandello, che sembra trovare compiacimento nel ce-lare con tale scena una condanna nei confronti di un matrimonio che avviene senza la benedizione delle convenzioni sociali:

Cominciarono poi a basciarsi l’un l’altro con infinito diletto ed indicibil gioia di tutte due le parti. Ritiratasi poi in uno dei canti del giardino, quivi sovra certa banca che ci era, amorosamente insieme giacendo, consumarono il santo matrimonio. Ed essendo Romeo giovine di forte nerbo e molto innamorato, più e più volte a diletto con la sua bella sposa si ridusse (Perocco 2008, p. 105) La trasfigurazione della storia in chiave moralisti-ca coinvolge anche la figura di Giulietta, che perde l’innocenza della protagonista daportiana e sembra richiamare piuttosto l’esempio della Ghismunda di Boccaccio, da cui eredita consapevolezza, coraggio e sfrontatezza. L’acquisita sottigliezza psicologica di-venta per Bandello un ulteriore espediente con il qua-le accrescere il senso di condanna della donna presso la coscienza del lettore, acuita dalla messa in luce del-la fragilità di Romeo, dipinto come un uomo insicuro e in balìa della voluttuosità della sposa. È Giulietta la vera protagonista della storia, al cui cospetto Romeo appare paradossalmente alla stregua di un personag-gio marginale. Sotto questa luce, il fatto che sia lei con intraprendenza ad informarsi sull’identità del ragaz-zo prima che sia lui stesso a presentarsi o che divampi di rabbia alla richiesta di questi di entrare nella sua stanza, non fa che mostrarla più che consapevole nel suo peccato:

A questo Giulietta alquanto d’ira accesa e turbata gli disse: Romeo, voi sapete l’amor vostro ed io so il mio, e so che v’amo quanto si possa persona amare, e forse più di quello che a l’onor mio si conviene. Ma ben vi dico che se voi pensate di me godere oltra il convenevole nodo del matrimonio, voi vivete in grandissimo errore e meco punto non sarete d’accordio (Perocco 2008, p. 100) Nello scontro con il padre, che la promette in sposa a un altro uomo, Giulietta azzarda irruenza e ardore, più di quanto le fosse concesso, precisa lo scrittore. È attenta ai costumi, al senso dell’onore ma scardina nelle dinamiche le convenzioni sociali. Questi, però, non sono gli unici elementi di divergenza rispetto alla trama inaugurata dalla tradizione daportiana: è infatti interessante notare come Bandello riesca a en-fatizzare l’anomalia nella consuetudine dei costumi femminili, conferendo alla Giulietta, per antonomasia ingenua e pura, un ruolo primario nella pianificazio-ne del proprio matrimonio o pianificazio-nella scelta di ricorrere

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all’artificio della morte simulata, dopo essersi inter-rogata a lungo sull’assunzione della pozione6:

Con questo pauroso pensiero mille abominevoli cose imaginando, quasi si deliberò di non prender la polvere e fu vicina a spargerla per terra, e andava in strani e varii pensieri farneticando, de i quali alcuno l’invitava a pigliarla ed altri le proponevano mille casi perigliosi a la mente (Perocco, 2008, p. 123) Emerge con chiarezza nella riscrittura del frate do-menicano la convergenza nella figura di Giulietta di tutta una serie di pregiudizi antifemminili, che van-tano alle spalle una tradizione secolare. Misoginia - bisogna precisare – assente in Da Porto. Nella vi-sione bandelliana, l’impurità della ragazza sembra essere un richiamo alla dottrina del peccato originale, all’esempio della progenitrice biblica, responsabile dell’allontanamento dell’uomo da un primigenio stato di grazia. Facendo riferimento ad un’ulteriore novella bandelliana, Giulia da Gazuolo, l’ottava del primo li-bro, la difesa dell’onore sembra risultare come un compito unicamente femminile, anche se questo si-gnifica andare contro l’uomo amato o cercare la morte per riscattare la propria dignità. Esemplificativa, a tal proposito, risulta la trasfigurazione fisica di Giulietta, deturpata nella sua bellezza da un amore infelice, di cui ella stessa è stata l’artefice: «ella va come cera al fuoco consumandosi».

Nel 1578, la storia di Giulietta e Romeo che ben si prestava ad una trattazione integralmente drammati-ca, si trasferisce sulle scene teatrali grazie all’ Hadria-na di Luigi Groto, prima tragedia antecedente a quella shakespeariana di cui si ha testimonianza. Groto, nato ad Adria nel 1541, fu un poeta precoce, dalla spicca-ta curiosità, conosciuto come il cieco di Adria per via della sua cecità. Un uomo di teatro completo, istruito in varie discipline, non solo autore ma anche attore.

La Hadriana viene pubblicata a Venezia nel 1578 e rappresentata in occasione del carnevale, in quanto idealmente in linea per la sua tematica pietosa con la situazione drammatica vissuta dalla città afflitta da una pestilenza. Si crede, tuttavia, che la composizio-ne sia antecedente di qualche anno, in ragiocomposizio-ne della presenza di un riferimento alla tragedia nella dedica della Dalida, databile al 1572. Nonostante la discre-ta fortuna, come testimoniano le nove risdiscre-tampe suc-cessive che si sono susseguite dal 1582 al 1626, su di essa scende presto un silenzio secolare.

Rispetto alla tradizionale versione tramandata dal-6  Come spiega la Perocco, in contraddizione con l’ossessione narrativa verso i dettagli più minimi, il Bandello elimina -rispetto al Da Porto- l’interrogatorio finale del frate, sia per tutelare la moralità dell’ordine religioso, sia per non distrarre dal focus pedagogico.

le novelle, la vicenda viene ambientata in un lontano passato nella città di Adria - chiaro omaggio alla città natale dell’autore, nonché ambientazione idealmente in linea con il gusto umanistico dell’epoca- e si accen-de di una macabra sensualità, un’atmosfera luttuosa, del tutto assente nel testo di partenza, che sembra invece anticipare il più tardo Shakespeare. Lontana dalla fiacchezza e dal petrarchismo di maniera dei versi di Boldieri, la narrazione è intessuta di avver-timenti rivolti al lettore che potrebbero, però, erro-neamente condurre a individuare una consonanza con il modello bandelliano, per ciò che concerne gli intenti moralistici palesati dal frate. Nella tragedia del Groto, al contrario, i dettami pedagogici soccombono dinnanzi all’esigenza di drammaticità scenica, che pa-rimenti consente allo scrittore di sfoggiare un gusto ormai volto al barocco e un linguaggio metaforico e iperbolico:

Tu, donna, tu donzella, che sì superba vai di tua beltade, mira costei che già sì fresca, e bella, e viva, e sana e lieta entrò nel palagio, come dopo lo spazio di poche ore, ne viene portata fuori (Romano, 1993, p.349) La sostituzione di Verona non è poi che il primo dei tanti cambiamenti conosciuti dalla trama. Basti pensare alla trasformazione di Giulietta e Romeo in Adriana e Latino, figli rispettivamente dei rivali re di Adria e del Lazio. Anche il loro primo incontro avvie-ne in uno sfondo molto diverso da quello festoso ve-ronese: è in un campo di combattimento che Latino appare per la prima volta, segretamente osservato da Adriana, reclusa nel castello. Nel clima cupo, che lascia chiaramente presagire un finale tragico, gli sguardi furtivi tra i due giovani, della cui età non si fa menzione, pongono il lettore dinnanzi all’esempio di un amore che si muove per veduta. Nessuno scambio di parole precede i futuri incontri, resi possibili dal tramite di un mago, che sostituisce con una versione più esoterica la tradizionale figura del frate. Le unio-ni notturne richiamano lo scenario del giardino, già presente in Bandello, e la figura della nutrice conosce una maggiore caratterizzazione, in virtù della quale acquisisce un protagonismo che sarà centrale nella tragedia shakespeariana. Segue l’esempio di come la balia rivendichi il diritto di calcare la scena, ponen-dosi nel ruolo di precettrice di una ragazza offuscata dal peccato:

Non pensi tu, che sempre il tuo Latino avrà di te sospetto, avendo in mente quanto con lui oprasti: onde non nuoce mai a la donna star dentro a’ suoi segni (Romano, 1993, p.255) Nel normale destino di rifacimenti e imitazioni, gli interventi più importanti hanno però condizionato il

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percorso evolutivo dei personaggi. A dispetto dell’im-magine originaria, come possibile effetto della media-zione bandelliana, si accentuano in Latino i limiti di una personalità poco eroica, di una viltà che lo pone all’ombra della donna, la quale, per converso, si tra-sforma in una paladina audace ed estremamente sen-suale. L’amara riflessione sulla condizione femminile, con la quale Adriana rifiuta le nozze imposte, mostra senza eguali, in termini di potenza espressiva, lo spes-sore e la profondità di pensiero della giovane:

Che volete, signor, che vi risponda, se non che quando una di noi ci nasce, se le dovrebbe far del proprio sangue il primo bagno, e culla del feretro? Che posso dir, se non dolermi al cielo de lo infelice stato di noi donne, e invitar tutte in suon flebile unito a pianger meco le miserie nostre? […] E che vogliam far qui tra padri duri, tra crude madri, fra infedeli amanti, fra sposi alteri, tra tiranni ingiusti, tra gli uomini mortali a noi nemici? (Romano, 1993, p.319) Anche nel finale, Adriana esibisce una stupefacen-te impavidità d’animo, ricordando ai lettori di come si possa rivendicare la propria indipendenza con un chiaro progetto di morte: «Sforzato esser non può chi sa morire» (Romano, p.315). Così nel sepolcro, fingen-do dinnanzi al mago di aver ingerito il veleno dell’a-mato, si uccide trafiggendosi con un ago, variazione rispetto alle versioni precedenti dove – ricordiamo - Giulietta moriva richiamando a sé gli spiriti vitali. La tragedia, tuttavia, non raggiunge con la morte dei due amanti il culmine del proprio pathos; ci sarà, infat-ti, un colpo di scena che mirerà a conferire ulteriore drammaticità ad un destino intrinsecamente infelice: re Mezenzio, accecato dal dolore, si vendica della per-dita del figlio Latino, provocando l’inondazione della città7. L’acqua, fonte di vita, diventa uno strumento di morte, che cancella la città di Adria ma non il ricordo dei due amanti che sopravvive grazie ad un’incisione sul sepolcro:

La cui istoria, scritta in duri marmi (ma men duri però de la lor fede) trovò l’autor, con queste note chiusa: “A te, che troverai dopo tanti anni la scoltura di questo acerbo caso, si commette, che tu debbi disporlo in guisa che rappresentar si possa, porgendo un vivo esempio, in quella etate, d’un amor fido, ai giovani e a le donne, benché più lungo spazio ti convenga stringer di tempo che non porta l’uso. Del che, per iscusarti, hai qui licenza d’aggiungere una parte anzi il principio (Romano, 1993, pp. 241-242) Concludendo, si può notare come al cospetto della lettura romantica della storia prevalsa nel tempo, il

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