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6.I principi interpretativi formulati dalla Corte Costituzionale italiana

Nel documento Gentes - anno IV numero 4 - dicembre 2017 (pagine 65-76)

Le questioni trattate dalla Corte europea sono state affrontati dalla nostra Corte Costituzionale quando è intervenuta, con la sentenza n. 164 resa il 9 aprile del 2014, per dichiarare illegittime alcune disposizioni della richiamata legge n. 40 del 2004.

In particolare, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 4, comma 3, che sancisce il di-vieto assoluto di ricorrere a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e dell’art. 9, comma 1 e 3, che contemplano l’impossibilità di espe-rire l’azione di disconoscimento di paternità e di in-staurare una qualsiasi relazione giuridica parentale tra il nato e il donatore di gameti, qualora si sia ricor-so alle tecniche vietate dal citato art. 4.

In effetti, la nostra Corte era chiamata a decidere sui quesiti formulati nelle ordinanze di rimessione dei Tribunali di Catania, Firenze e Milano.

Questi tribunali in sostanza chiedevano se i divie-ti contenudivie-ti nella legge n. 40 del 2004 violassero “il principio di ragionevolezza contenuto nell’art. 3 della Costituzione italiana”, in quanto una legge che si pro-pone di favorire la soluzione di problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità e infertilità, non avrebbe potu-to contenere trattamenti diversi a seconda del tipo di problemi accertati in ciascuna coppia, nonostante la sostanziale eguaglianza delle situazioni.

Inoltre tale trattamento discriminatorio, sempre a giudizio dei citati tribunali, sarebbe stato, sotto diver-so profilo, contrario «agli articoli 2, 3 e 31 della Co-stituzione che sanciscono il diritto fondamentale alla formazione di una famiglia e alla libertà di autodeter-minazione in relazione a scelte riconducibili alla sfera più intima della persona».

E così, secondo gli stessi giudici a quo il legislatore italiano avrebbe dovuto effettuare “un bilanciamento in favore del diritto alla maternità/paternità rispetto al diritto riconducibile ad una entità (embrione, feto)” che non può ancora considerarsi soggetto, nel senso pieno di persona già nata, secondo l’art 1 del nostro codice civile.

Di contrario avviso l’Avvocatura generale dello Stato secondo cui la ratio legis, a cui si è ispirato corretta-mente il legislatore italiano, sarebbe stata quella di tutelare il diritto all’identità biologica del nascituro, da

considerare quindi quale bene giuridico preminente.

Come si vede la nostra Corte costituzionale è stata chiamata a ponderare “plurime esigenze costituzio-nali” per valutare se la legge n. 40 avesse inciso su in-teressi tutelati a tale livello.

In altre parole la Corte ha dovuto effettuare un bilan-ciamento tra questi interessi in modo tale da

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rare un grado minimo di tutela legislativa ad ognuno di essi.

In sostanza vi è stata da parte della Corte la ricerca di un ragionevole punto di equilibrio tra contrapposte

esigenze, nel rispetto della dignità della persona

uma-na.

La Corte innanzitutto prende atto che il divieto con-tenuto nell’art. 4 comma 3 della legge n. 40 del 2004 non costituisce una scelta consolidata nel tempo in quanto le tecniche di fecondazione eterologa, prima di allora, erano considerate in Italia lecite e ammesse senza limiti né soggettivi né oggettivi.

Inoltre, constato che il divieto assoluto posto alla li-bertà di porre in essere tali tecniche «avrebbe dovuto essere ragionevolmente e congruamente giustificato dall’impossibilità di tutelare altrimenti interessi di pari rango».

Secondo la Corte, il progetto di formare una fami-glia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indi-pendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerato dal nostro ordinamento giuridico, com’è dimostrato dalla presenza dell’istituto dell’adozione.

Tuttavia, sempre secondo la Corte, la libertà e volon-tarietà dell’atto che consente di diventare genitore e di formare una famiglia non implica che tale libertà possa esplicarsi senza limiti ispirati da considerazioni e convincimenti di ordine etico.

Ma il punto centrale del ragionamento della Corte è che essa «non ritiene che gli stessi limiti possano consistere in divieti assoluti, proprio per la necessità di effettuare un bilanciamento quando sono in gioco interessi tutelati a livello costituzionale».

E comunque, secondo la Corte, la legge n. 40 ha inci-so sul diritto alla salute, accezione che deve essere in-tesa in senso ampio e tale da ricomprendere la salute psichica, la cui tutela deve quindi essere di grado pari a quello della salute fisica.

Qui si può osservare che l’impossibilità di avere fi-gli mediante il ricordo ad una procreazione medical-mente assistita di tipo eterologo, può di certo incidere negativamente sulla salute psichica dei componenti di una coppia.

Ora, “nel caso di patologie produttive di una disabili-tà, la discrezionalità spettante al legislatore ordinario, nell’individuare le misure di tutela di quanti ne sono affetti, incontra il limite del rispetto di un nucleo inde-fettibile di garanzie per gli interessati”.

In sostanza, «un intervento del legislatore sul me-rito delle scelte terapeutiche, in relazione alla loro appropriatezza, non può nascere da valutazioni di pura discrezionalità ma deve tener conto degli indi-rizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche acquisite».

Sul punto, secondo la Corte, «in materia di pratica

terapeutica la regola di fondo deve essere l’autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, deve operare le necessarie scelte professio-nali».

Per la Corte la tecnica consistente nella donazione di gameti (e quindi distinta da diverse metodiche quali la c.d. surrogazione di maternità, espressamente vie-tata dall’art. 12 comma 6 della civie-tata legge n. 40, come da sempre interpretata dalla nostra giurisprudenza, (v. in tal senso, la sentenza della Cassazione dell’11 novembre 2014, n. 24001, dove si dichiara lo stato di adottabilità di un bambino nato da una donna ucrai-na su commissione) non comporta rischi per la salute dei donanti e dei donatari.

Inoltre, sul paventato rischio di violazione del diritto del nascituro a conoscere la propria identità genetica, la Corte ritiene che la questione in Italia sia già stata sollevata e risolta, per le ipotesi di adozioni, da varie disposizioni che hanno infranto il dogma della segre-tezza sulla identità dei genitori biologici.

In definitiva, la Corte richiede sempre di verificare il rispetto della proporzionalità e della ragionevolezza: in altre parole il bilanciamento degli interessi costitu-zionali rilevanti deve avvenire attraverso una ponde-razione per accertare la proporzionalità e la

ragione-volezza dei mezzi prescelti dal legislatore.

Invece, secondo il pensiero della Corte «la preclu-sione assoluta di accesso alla procreazione medical-mente assistita di tipo eterologo introduce un evi-dente elemento di irrazionalità, poiché la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità, alla formazione della famiglia con figli, con incidenza sul diritto alla salute, è stabilito in danno delle coppie af-fette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis».

E ciò avviene, con una evidente lesione della liber-tà fondamentale della coppia di formare una famiglia con figli e senza, che questa assolutezza sia giustifica-ta dall’esigenza di tutelare il nascituro.

7. Conclusioni

In conclusione, vogliamo qui sottolineare che i

prin-cipi di proporzionalità e ragionevolezza sanciti dalla

Corte Costituzionale, sulla scia di quelli già eviden-ziati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, sono destinati a svolgere un ruolo crescente in futuro, in presenza di normative sempre mutevoli.

Ora, la presenza di principi destinati ad essere sem-pre applicati e a fungere da parametro di riferimento interpretativo per tutta le disposizioni nazionali non deve essere sottovalutata.

Soprattutto in una materia, come quella da noi esa-minata, dove non è sempre facile tracciare regole universali applicabili che siano in armonia con le

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genze di natura etica e con le conquiste scientifiche, sempre al fine di andare incontro alle legittime aspi-razioni dei singoli a formare una famiglia con prole.

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Tigre Reale I e II. Amour

pas-sion e amore coniugale in

Gio-vanni Verga

Jenny Luchini

Università per Stranieri di Perugia

Abstract

Tigre Reale è un romanzo di Giovanni Verga pubblicato nel 1875 ed

esi-stente in due redazioni: Tigre Reale I (la prima stesura) e Tigre Reale II (la versione definitiva, pubblicata nel 1875). Le due versioni sono così differenti che andrebbero considerate come due opere autonome. L’ar-ticolo vuole indagare le differenze che le caratterizzano soprattutto per quanto riguarda il modo di affrontare due temi da sempre contrapposti in letteratura: amour passion e amore coniugale. I finali delle due ver-sioni mostrano chiaramente la differenza di messaggio che Verga vuole proporre: in Tigre Reale I, infatti, il protagonista, Gustavo, pazzo di do-lore, getta un “grido terribile” e corre folle dietro al treno che contiene il feretro della donna amata, Lida, diretto in Russia. Possiamo intuire che ad attenderlo c’è la morte. In Tigre Reale II il ritorno al vincolo co-niugale sia del protagonista, Giorgio, che di sua moglie, Erminia, segna, invece, un distacco voluto dalle passioni, a favore di valori più alti come appunto quello del legame familiare. Quasi a voler dire che al cuore, se si vuole, si può comandare. Tigre Reale II, quindi, è un’opera per certi aspetti “originale” per l’epoca in cui viene composta, poiché a trionfare, alla fine, sono il matrimonio e i valori borghesi della famiglia.

Keywords: Giovanni Verga, Tigre Reale, Matrimonio, adulterio, amour

passion.

Tigre Reale è un romanzo pubblicato nel 1875. Gio-vanni Verga inizia a scriverlo nell’estate del 1873, in Sicilia, tra Catania e Sant’Agata Li Battiati, dove è trattenuto da un’epidemia di colera. A novembre, l’au-tore considera l’opera già compiuta (cfr. Verga 1988, p. XXII.). Con Tigre Reale I si indica generalmente la prima stesura dell’opera, mentre con Tigre Reale II si designa quella che poi verrà riconosciuta dallo stesso autore come versione definitiva e che sarà data alle stampe per i tipi di Brigola nell’estate del 1875. Va sottolineato che, da quanto riporta anche Danelon (cfr. Danelon 2004, p. 275), Verga ha modo di legge-re Madame Bovary di Flaubert proprio poco prima di redigere il romanzo, cioè tra il 1873 ed il 1874. Ver-ga all’inizio non apprezza molto l’opera del francese e sembra non comprendere le novità della narrativa flaubertiana, ma cambierà gradualmente opinione. Non è importante vedere le ascendenze letterarie tra Flaubert e Verga, ma certo è interessante sapere che anche Verga ha letto uno dei romanzi che hanno cam-biato il modo di amarsi e sposarsi nella letteratura europea e che, dopo averlo letto, ha scritto un’opera in due momenti diversi per parlare anch’egli di matri-monio e darne una, o meglio, due interpretazioni. Le due redazioni di Tigre Reale, infatti, sono molto diffe-renti l’una dall’altra nella loro compiutezza, tanto che andrebbero considerate come due opere totalmente autonome. Esse differiscono nella trama, nella forma, nell’onomastica, nei personaggi stessi e nei loro tratti fisici. Riguardo all’onomastica, in Tigre Reale I i

prota-gonisti si chiamano Gustavo de Marchi e Lida, in Tigre Reale II, invece, si chiamano Nata e Giorgio la Ferlita. La moglie di Giorgio si chiama Erminia Ruscaglia, il cugino della quale è Luigi Bianchi nella prima versio-ne, Carlo nella seconda. In comune le due redazioni hanno solamente la fabula, che vede il protagonista maschile, ricco e vanesio, innamorarsi di una nobil-donna, moglie di un ambasciatore russo, malata di tisi e in fin di vita, che evita di donarsi a lui totalmente se non in situazioni estreme, il tutto per mantenere intatti il vagheggiamento e il desiderio folle che di lei ha il giovane. Nella prima versione Gustavo non è sposato, nella seconda sì; ma la cosa che più contrad-distingue le due versioni sono i due finali, diametral-mente opposti. In Tigre Reale I la passione di Gustavo per Lida è una passione distruttrice che ben presto porta alla morte: è il tipico amour passion da sempre contrapposto, nella letteratura, alla quiete coniugale e tema tanto caro anche al Verga della produzione gio-vanile. Amour passion che trova il suo luogo privile-giato nel cuore, misterioso e affascinante scrigno di sentimenti: «tutti i grandi misteri del cuore hanno un non so che di augusto» (Verga 1988, p. 32) e ancora «certi drammi intimi, fugaci, comunissimi, nascondo-no emozioni più terribili assai di quelle che scuotonascondo-no il cuore umano su un campo di battaglia» (Verga 1988, p. 35). Le passioni del cuore sono così misteriose che spesso sono incomprensibili anche a chi le ha prova-te: «allorquando si leggono romanzi non se ne fanno, e in quel momento in cui non se ne fanno riescono inesplicabili o assurdi quegli stessi misteri del cuore che si sono provati altravolta» (Verga 1988, p. 35). Ol-tre a questo è assolutamente ben visibile nella bella e fatale Lida il cosiddetto “mito del muliebrismo” (Rus-so 1983, pp. 42-46), mito in cui la donna, capriccio-sa, bizzarra e truccatissima, mette in atto le più varie strategie di finzione e freddezza per attrarre a sé in maniera fatale gli uomini. Inoltre, la malattia conferi-sce a lei e alle altre donne fatali un certo fascino kit-sch, un misto tra attrazione e ripulsa. Anche questo è un tema caro a Verga e a tutta la cultura ottocentesca. Lida, in particolare, viene così descritta:

«Superba straniera della cui opulenta beltà non erano rimasti che gli avanzi arsi e consunti dalla febbre, il sorriso triste, e i begli occhi così azzurri che sembrava avessero dei riflessi grigiastri, quasi felini, e nei quali sembrava veder balenare ancora un non so che di avido, di lascivo, di selvaggio, come la terribile carezza di una leonessa» (Verga 1988, p. 9). O ancora: «ella è ancora una gran bellezza, forse più seducente perché è meno una bellezza fisica… Non state ad innamorarvi di cotesta malattia però!» (Ver-ga 1988, p. 27).

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bello, svelto ed elegante, con una certa aria da com-messo viaggiatore e con tendenze da epicureo. Ab-bonda di immaginazione così come difetta di razio-cinio, e ciò lo porta ad esaltare e ad esagerare tutto. Ovviamente egli non si rende minimamente conto di queste sue qualità. Il matrimonio tra Lida e il mari-to, ambasciatore russo, viene descritto come uno dei soliti matrimoni di facciata, in cui i due coniugi sono legati soltanto da necessità formali. Quando sono in-sieme essi parlano pochissimo:

«Egli [il marito] andò a stringere la mano della ba-ronessa, che in quel momento saliva sul ponte, segui-ta dalla sua cameriera e col velo sul viso. Il barone le disse poche parole in russo; si volse a dar degli ordini ai domestici che accompagnavano sua moglie, quindi le porse il braccio, e scese con lei la scaletta […]. Sce-na domestica colma di belle maniere e di aristocratica freddezza […]. Ella non gli rivolse una sola occhiata, come non rivolse una sola parola alla sua cameriera». (Verga 1988, p. 38).

Quando Lida esce durante il giorno, alla presenza del marito, Gustavo cerca di fare il possibile per vederla, ma quelli sono gli unici momenti in cui lei riserba sor-risi solo al consorte, facendo di tutto per far ingelosire l’amante:

«Ella non sembrava accorgersi di lui: era timore del marito o diabolica civetteria? Quando sorrideva al marito, quel marito che non amava, colle sue labbra fresche, fra le quali luccicavano i suoi piccoli denti come perle di rugiada su foglie di rosa, come avesse bisogno di espandere su qualcuno la gioia del sentirsi rinascere, il povero innamorato sentiva acerbe punture di gelosia, e la seguiva, tutte le volte che poteva farlo, in carrozza, a cavallo, a piedi, per rubarle il sorriso che non gli era diretto, e di cui era geloso». (Verga 1988, p. 40). Raramente il barone russo cerca di essere galante con la moglie. Ecco di seguito un esempio della fredda cortesia che i due sposi sono soliti riservarsi a vicen-da. Una cortesia che ricorda il freddo alla schiena che Mastro Don Gesualdo proverà guardando lo stile di vita di sua figlia Isabella con il Duca di Leyra:

«– Sembrami però che stiate assai meglio in salute da qualche tempo – disse alla moglie dopo un lungo silenzio, come per un dovere di galanteria coniugale[…]. Dopo la fredda espressione di cotesta amicizia intima il barone rimase ora lungo tratto senza dir altro, leggendo e sorseggiando. – Volete che faccia della musica? – disse Lida come per fare anch’essa la parte di quello scambio di fredde cortesie. – Grazie, è già tardi – disse il barone, cavando il suo orologio, come ella gli avesse detto – Andatevene. Voi avete bisogno di riposo –. Ella gli porse la mano; il barone si levò e gliela strinse leggermente». (Verga 1988, p. 46). Effettivamente l’intimità coniugale non ha nulla di

invitante né di accogliente, a differenza di come ac-cade in un’altra opera verghiana di poco precedente, Storia di una capinera, in cui Maria, la protagonista succube di una monacazione forzata, spia, dalle varie finestre della propria esistenza, le famiglie intorno a lei, immaginando felicità a lei impossibili, invidiando la modesta serenità della famiglia del castaldo o di Nino e Giuditta. Sono ben altri, infatti, i tratti di una famiglia serena, ammirata perché idealizzata, realtà bellissima perché irraggiungibile. Basti un piccolo brano riportato di seguito per capire la differenza tra l’inferno di ghiaccio del brano precedente e il calore familiare illuminato dal fuoco che Maria vede nell’u-niverso matrimoniale:

«Pensava a quella nostra casetta, a quei campi, a quella capannuccia, a quel fuoco che cuoceva la minestra della castalda, domandavo a me stessa se quella povera contadina che si cullava i suoi bimbi sulle ginocchia, senza le mie tentazioni, senza i miei scrupoli, senza i miei rimorsi, non sia più vicina a Dio di me che mortifico con mille privazioni il mio spirito ribelle». (Verga 2004, p. 512) In Tigre Reale I, invece, la famiglia è proprio un le-game insopportabile. In un’altra scena assistiamo a un silenzio tra i due coniugi quasi angosciante: «I due sposi non si dicevano una sola parola. Si udiva il ru-more del pendolo dell’orologio, e il fruscio dei gior-nali che il barone andava sfogliando» (Verga 1988, p. 46). Il barone è certamente una figura opprimente, e in questo senso di angoscia senza amore Lida cerca di evadere come può. Il mezzo più facile e più affasci-nante è certamente quello di innamorarsi follemen-te di un altro uomo. In passato ella aveva già perso la testa per un polacco, e l’aveva persa «forse perché suo marito l’avrebbe strangolata senza batter ciglio se l’avesse saputo» (Verga 1988, p. 31), e, quando fugge da casa per raggiungere l’amante in Polonia, lo trova invece con una cameriera; da lì la propria ira e il pro-prio orgoglio si riversano così tanto su quest’uomo che egli, oppresso dal rimorso e dalla di lei freddezza finisce per uccidersi. Gustavo, per come è fatto, non può non innamorarsi di una donna di questo genere. Egli è allegro, bello, abbonda di immaginazione difet-tando però di razionalità, e ciò lo porta ad esagerare

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