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Francesca: ‹‹tosseco dolce›› al modo di Cecco d’Ascoli

Nel documento Gentes - anno IV numero 4 - dicembre 2017 (pagine 134-140)

Antonella Tropeano

Università per Stranieri di Perugia

Abstract

Il titolo del contributo ha come marcatore un ossimoro attorno al qua-le si procederà al fine di illustrare un iter interpretativo qua-letterario che sull’illustre storia di Paolo e Francesca narrata nel V canto dell’Inferno ha fatto calare la mannaia della riprovazione, dell’accusa, dello sdegno o del taglio apertamente polemico. Forza del sentimento d’Amore o colpa della lussuria? A questo interrogativo hanno cercato di dare una rispo-sta i numerosi studiosi nel tentativo di trovare qualche affinità con la visione dantesca della vicenda. Seguendo il filo delle considerazioni e supposizioni che in tanti secoli i vari commentatori dell’opera dante-sca hanno prodotto, attenendosi, a volte, alla complessità del testo, altre volte facendosi catturare dall’episodio della coppia dei miseri amanti, emergono delle immagini, dei particolari, delle tracce, presenti anche nei dipinti, che, a seconda delle emozioni dominanti, portano ad inter-pretare una Francesca peccatrice, in balìa della lussuria e per questo dannata, o una Francesca beata, simbolo di una passione terrena viva ed intensa, ammazzata brutalmente da un coniuge verso cui non nutriva alcun sentimento d’amore ma biasimata da un’ideologia medievale che dell’universo femminile metteva in luce solamente gli aspetti negativi. Lungo il percorso letterario ed esegetico tracciato dai commentatori, da quelli coevi a Dante fino ai nostri giorni, sorprendente appare la cita-zione di Cecco d’Ascoli, mandato al rogo per eresia. Essa, palesemente antidantesca, tratta dalla sua opera più famosa, l’Acerba, tra le più diffu-se nel Medioevo nonostante la condanna della Chiesa, fa riferimento ai due amanti riminesi con un’espressione particolare destinata a divenire celebre. I versi, criptici sotto alcuni punti di vista, costituiscono l’incipit per esaminare la diversa interpretazione e lo stile dei due autori, la cui formazione scientifica, filosofica nonché letteraria e morale ha condotto ad una visione del mondo, dell’amore e delle donne totalmente diver-gente.

Keywords: commentatori, colpa, amore, morte, Dante e Cecco

Gli antichi commentatori non hanno di certo vissuto le lacerazioni degli autori romantici e moderni ed il fascino sottile di una Francesca da Rimini delineata da Dante nel V canto dell’Inferno. Il mal d’amore di Francesca che non sopporta limiti, impedimenti, se-greti e per il quale viene condannata in eterno, senza possibilità di pentimento, è ciò che ha attratto mag-giormente i primi critici della cantica, basandosi sulle poche notizie che il Poeta ha trasmesso della vicenda, narrata per bocca della stessa donna.

L’intera storia è riassunta nel passo che il cronista riminese Marco Battagli enuncia lapidariamente nella Marcha, redatta in latino tra il 1350 e il 1355 circa: ‹‹Paulus autem fuit mortuus per fratrem suum Johan-nem Zottum causa luxuria››1. Da tale descrizione es-senziale, che si ignora quanto sia rispondente al vero, si dipana tutto un mondo di commenti e di giudizi, sia dal punto di vista esegetico che del giudizio etico e storico. Tale parabola interpretativa sembra ancora non totalmente conclusa.

Il problema nasce dal fatto che Dante è riuscito in 1 Marco Battagli, Marcha, ed. Aldo Francesco Massèra, Rerum Italicarum Scriptores, vol. 16, part. 13, Città di Castello, Casa Ed.

S. Lapi, 1913.

esigui e struggenti versi ad ‹‹adunare tanta ricchez-za di poesia, che non potrà esaurirne i segreti tesori l’ammirazione dei secoli futuri›› come ha afferma-to Parodi (Parodi 1965, p. 38). A parer di Pasquini, quell’abbondanza d’idee e di concezioni può esprime-re qualcosa anche ai lettori contemporanei perché si presenta sotto la forma di ‹‹una grande e insuperata poesia›› (Pasquini 2001, p. 263), o, secondo quanto sottolineato da Inglese, ‹‹il poema dantesco è opera unitaria di ‘poesia’, nel senso che mai, in esso, il mo-mento espressivo, la creazione di forme è coartata e banalizzata dalla pressione dei contenuti morali e in-tellettuali›› (Inglese 2012, p. 11).

La domanda che da sempre si sono posti gli studiosi e, in tempi più recenti, Renzi, è la seguente:

quale sarebbe stata l’interpretazione del canto V che Dante aveva in mente scrivendo quei versi memorabili? E quali commentatori si troverebbero più vicini alla visione dantesca? La risposta, sostiene il filologo, è che ‹‹in Dante c’è tutto quello che ci hanno visto gli antichi, i romantici, che ci vediamo noi, e che ci vedranno altri ancora›› ‹‹in Dante c’erano le potenzialità di tutte le interpretazioni, antiche e moderne, e di altre ancora, tutte in un certo senso giuste ma anche tutte sbagliate o almeno parziali›› (Renzi 2007, p. 119). Nonostante che Paolo e Francesca siano stati puniti e collocati da Dante cristiano nel suo Inferno, pur es-sendo disposto come uomo, particolarmente colpito da pietas, a perdonarli, il significato profondo della dura pena imposta ha subìto, in seguito, non poche attenuanti, fino ad approdare all’assoluzione piena, decretata dal Romanticismo, e dalla sua celebrazione sull’altare dell’eroismo tragico. Si è giunti, pertanto, alla conclusione che alla sventurata creatura sia sta-ta sì inflitsta-ta un’indegna morte da parte di un marito malvagio e storpio, ma sia stata uccisa anche da un’e-tica medievale che del ‹‹talento›› femminile coglieva unicamente la compulsività e la peccaminosità a causa di una libido folle, irrefrenabile, che aveva condotto ad un amore dissennato, uscito fuori dai binari della rettitudine e della moralità. La critica romantica giu-stificava, anzi esaltava Francesca, dipingendola come rappresentante eroica dell’amore-passione; l’antica critica dantesca, invece, era stata del parere esatta-mente opposto e non aveva sollevato la questione del-la colpa deldel-la donna, che prima di Boccaccio ed anche dopo, era apparsa palese a tutti. Si ripete con France-sca, in un certo senso, ciò che era successo con la figu-ra di Ulisse, indubbiamente negativa per gli antichi per la sua sfrontatezza, dotata di virtù e audacia e dunque positiva per i moderni.

L’opera di Dante ebbe nel Trecento notevole eco e notorietà, con un largo seguito di commentatori che si divertirono a fantasticare sulla natura della tragedia dei due amanti e sulla loro identificazione, narrando

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sommariamente l’episodio.

Iacopo Alighieri, figlio di Dante, scrisse il primo com-mento alla Commedia (1322), corredando di note l’In-ferno; in esso si leggeva che Francesca ‹‹carnalmente con lui usando, cioè col detto suo cognato, alcuna volta insieme, dal marito fur morti››2. Il medesimo concet-to fu ribadiconcet-to da un altro esegeta del poema dantesco, Graziolo de’ Bambaglioli, cancelliere bolognese, che nel suo commento in latino (1324) asserì che i due fu-rono a tal punto attratti l’uno dall’altra che Giovanni uccise madonna Francesca, sua moglie, e Paolo, suo fratello, avendoli sorpresi insieme. Pietro Alighieri espresse un giudizio negativo su Francesca insisten-do sulla centralità del bacio, avvenuto sulla scia di quello di Lancillotto e Ginevra: ‹‹… ita ille liber teum scripsit, idest composuit, fuit seu fuerunt causa ad eo-rum osculum a quibus talibus libris legendis ostendit etiam hic auctor debere nomine se abstinere predicta de causa››3.

Jacopo della Lana aggiunse particolari capaci di su-scitare uno straordinario impatto emotivo sul lettore, immergendo l’evento in un’aura ancora più cupa e drammatica: ‹‹Or questa istoria si fu che Jhoanni Ciot-to, figliuolo di Messer Malatesta d’Arimino, avea una sua mogliera [di] nome Francesca et figliuola di mes-ser Guido da Polenta da Ravenna, la quale Francesca giacea con Polo, fratello di suo marito, ch’era suo co-gnato. Correptane più volte del suo marito, non se ne casticava. Infine trovolli in sul peccato, prese una spa-da et conficcolli insieme in tal modo che abbracciati ad uno morirono (Biagi, Passerini, Rostagno e Cosmo 1924, p. 170)››. E riguardo alla lettura “galeotta” dei due amanti annotò: ‹‹è da notare che ‘l se de schivare quelle liccioni [letture] le quali dexordenano li anni-mi de le persone produgandoli a vizio…››; ed ancora: ‹‹e poi li e altro [lei e l’altro] se favelonno per altro modo››. Proseguendo, Benvenuto da Imola, nel com-mento al passo dantesco, stigmatizzò sia la lettura dei libri d’amore che induceva inevitabilmente alla disso-lutezza sia le occasioni di incontro fra i due cognati ed il fatto di essere da soli: ‹‹et sic nota quod lectio iocun-da librorum amoris provocat ad libidinem… ecce aliud incitamentum, quia proverbialiter dicitur quod op-portunitas facit nomine fures et feminas meretrices››. Inoltre, il verso 138 dell’Inferno (‹‹quel giorno più non vi leggemmo avante››), che suscita ammirazione per la capacità di Dante di dire e non dire (la famosa reticen-tia), è intriso di pesante ironia nel suddetto commen-tatore: ‹‹Illa dia non redierunt amplius ad lecturam in-2  Iacopo Alighieri, Chiose alla cantica dell’Inferno di Dante

Ali-ghieri, a cura di Jarro (G. Piccini), Firenze, R. Bemporad & Figlio

Editori, 1915, p.67.

3  Pietro Alighieri, Comentum super poema Comedie Dantis, Leo Firenze, S. Olschki editore, 1978, p. 117.

coatam, quia intenderunt ad aliam lecturam que fecit oblivisci illius lecturae primae››4.

La tradizione leggendaria cominciò a Firenze con l’autore dell’Ottimo Commento (probabilmente An-drea Lancia, 1334 ca.) che offrì una maggiore dovizia di particolari sulla dolorosa vicenda: il matrimonio fu celebrato per pacificare le due famiglie rivali e fu un servitore ad informare Gianciotto dell’adulterio di Francesca e Paolo. A proposito delle conseguenze della lettura del libro si espresse così: ‹‹posto giuso lo libro vennero all’atto della lussuria›› (Torri 1995, p.159).

I commentatori antichi, quindi, ritenevano che Fran-cesca fosse peccatrice perché aveva ceduto ad una passione smodata macchiandosi di tradimento coniu-gale. Unica voce fuori dal coro a spendere parole a fa-vore della donna fu il Boccaccio che, nelle Esposizioni sopra la Commedia (1373-74) (Padoan 1965), volendo riscattarne la storia e le motivazioni, costruì una no-vella ad hoc. Nel racconto boccaccesco ella viene as-solta ed il suo amore per il bel Paolo è legittimo poiché lo sposalizio con Gianciotto è frutto di un inganno e di una speculazione politica; avendo un ‹‹animo altero›› non avrebbe mai accettato di convolare a nozze con un uomo simile. Una tesi, questa, della vittima innocen-te, sacrificata sull’altare della ragion di stato, che sarà condivisa successivamente da Foscolo, De Sanctis, Pellico, D’Annunzio, che faranno della donna un’altra Francesca, eroina moderna, immagine ideale dei det-tami e dei patèmi romantici. Comunque, al di là delle costruzioni fantasiose, di gusto cavalleresco, l’atten-zione mostrata evidenzia come l’episodio dantesco dei due innamorati abbia goduto, fin dagli esordi, di ampia popolarità. Ne sono testimonianza le innume-revoli imitazioni, le variazioni esegetiche, i numerosi riecheggiamenti e, non per ultima, la consacrazione dei due lussuriosi - suo malgrado - da parte del Pe-trarca nel Triumphus Cupidinis: Ecco quei che le carte empion di sogni, / Lancillotto, Tristano e gli altri er-ranti, / ove conven che ‘l vulgo errante agogni. // Vedi Ginevra, Isolda e l’altre amanti, / e la coppia d’Arimi-no che ‘nseme / vand’Arimi-no facendo dolorosi pianti5 (vv. 79-84). Nel trionfo di Amore-Cupido e dei suoi aman-ti infelici - scontato rinvio (non riconosciuto) a quelli immortalati nella Commedia - deve necessariamente prendere posto la ‹‹coppia d’Arimino›› che, sebbene li-quidata in poche righe e senza alcun accenno ai nomi, proprio per questo riecheggia la sua potenza lettera-ria e simbolica.

Complesso e per molti versi sbalorditivo è il riferi-4  Benvenuto da Imola, Comentum super Dantis Aldigherij

Co-moediam, Biblioteca Italiana, Roma, 2005.

5  Francesco Petrarca, Trionfo d’amore, III, in Canzoniere e

Trionfi, Rime varie, a cura di C. Muscetta e D. Ponchiroli, Torino,

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mento all’opera dantesca da parte dell’ecclettico Cec-co d’AsCec-coli, nome Cec-con cui è più Cec-comunemente noto Francesco Stabili, poeta, filosofo, medico e astrologo. Divenne celebre principalmente per aver composto l’Acerba, poema pungente, ostico e controverso, di cui molti studiosi hanno dubitato dell’autenticità di qual-che verso, ritenendo alcune sestine aggiunte da mano diversa dopo la morte dell’autore. Esso abbraccia quasi tutta la scienza dell’epoca con sfoggio di nutrite nozioni appartenenti a fenomeni celesti e terrestri, al mondo vegetale e animale, a vizi e virtù.

L’opera è fondamentale in quanto menziona esplici-tamente i due cognati di Rimini; si tratta di una cita-zione singolare, diventata più famosa del medesimo autore: Qui non se canta al modo de le rane, / qui non se canta al modo del poeta, / che finge, imaginando cose vane; / ma qui resplende e luce onne natura, / che a chi intende fa la mente leta. / Qui non se gira per la selva obscura. // Qui non veggio Paulo né France-sca6 (libro IV, cap. XII, vv. 45-51.)

L’allusione frettolosa e superficiale, sicuramente offensiva di personaggi giganteschi dell’opera omnia dantesca (Paolo e Francesca, Manfredi, il Conte Ugo-lino), non può, altrettanto sbrigativamente, essere in-tesa come antagonismo poetico. Cecco e Dante condi-visero lo stesso contesto storico e sociale e conobbero profondamente la cultura classica e gli influssi filoso-fici provenienti dal mondo arabo. Per entrambi l’uni-verso fisico e umano fu motivo di analisi e di rifles-sione e addirittura a Cecco lo studio di essi costò una condanna al rogo per eresia nel 1327, sei anni dopo la morte di Dante, particolare di non poca rilevanza. Di certo, i due autori si differenziarono nel metodo e nel criterio di comunicare osservazioni ed emozioni, in primis nella visione etica del mondo e nell’impatto “culturale” con i grandi temi spirituali sviluppati nel Trecento. Due mondi contrastanti, apparentemente lontani ed inconciliabili nella loro asprezza dialettica che, tuttavia, adoperarono una sintassi ed una seman-tica molto ricche. Mordace e calzante l’asserzione del-lo stesso Cecco: Lasso le ciance e torno su nel vero. / Le fabule me fur sempre nimiche (vv. 61-62). Un’im-postazione filosofica e formale che fece disdegnare a Cecco l’opera di Dante descrivendone in modo pole-mico lo stile, inutilmente decorato, dal ‹‹parlar ador-no›› ed il contenuto fatto di ‹‹cose vane››, ‹‹ciance››, ‹‹fabule››, contrapposti agli ‹‹acerbi fogli›› delle rispo-ste dello scienziato ai quesiti del personaggio fittizio dell’Acerba. ‹‹La natura non si diletta di poesie››7 dirà 6  Cecco d’Ascoli, L’Acerba, IV, XII, a cura di A. Crespi, Ascoli Pice-no, G. Cesari editore, 1927.

7  Galileo Galilei, Il Saggiatore, in Opere di Galileo Galilei, Collana

La letteratura Italiana, storia e testi, 34, 1, a cura di F. Flora,

Mila-no-Napoli, Ricciardi editore, 1953, p. 35.

più tardi Galileo, riflettendo sull’utilità etica ed edu-cativa del linguaggio freddo e lineare di un Cecco esti-matore e studioso di avvenimenti naturali, seppure nell’ambito di una conoscenza medievale.

Inoltre, Cecco non si sofferma in modo insistente sul fatto che ‹‹qui non se gira per la selva obscura›› (v. 50) né gli interessa ‹‹de’ Franceschi lo sanguigno muc-chio›› (v. 56): egli si nutre di un altro tipo di verità. La sua selva ha valore autentico nella pregnanza na-turalistica e non può essere oscura, così come i moti dell’animo del Dante auctor e agens nella Commedia, ‹‹conoscitor de le peccata›› (Inf. V, v. 9), che attraverso il metaforico viaggio tra le debolezze umane attua il suo catartico cammino di redenzione.

La contrapposizione luce-tenebre di Cecco non è quella mistica di Dante ma è strettamente razionale, essendo incentrata sulla conoscenza dei fenomeni co-smici e ambientali. Dante, nel canto III del Purgatorio, si arresta al quia:

State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria (vv. 37-39); Cecco, invece, al quia aggiunge il suo quare: Io voglio qui che il quare trovi il quia / levando l’ali dell’acerba mente, / seguendo del Filosofo la via (libro IV, cap. I, vv. 1-3). Nell’Alighieri vi è l’umile accettazione del limite del-la ragione umana di fronte ai misteri di Dio, ancora più significativa poiché ad esprimersi è proprio il suo ‹‹duca›› Virgilio, cui fa da contraltare lo scienziato ascolano, investigatore dei meccanismi che regolano la natura, ricercatore delle cause prime (il quare) di ogni manifestazione concreta (il quia). In Cecco pri-meggiano il libero arbitrio, il dubbio e la meraviglia di fronte agli elementi del cosmo che spingono alla conoscenza - sulla scia aristotelica -, nello sforzo di sottrarre la molteplicità degli aspetti umani al caso o ad un indiscriminato ricorso alla volontà divina. Egli, astrologo e astronomo, analizza i fenomeni celesti con rigore tecnico; anche Dante, nella Commedia e nel Convivio, esibisce un’erudizione sterminata, ma sono evidenti il diverso modus operandi ed approccio con la realtà.

Al di là dello stile e degli interessi antitetici, un altro aspetto intriga in questo dialogare arduo tra i due rag-guardevoli letterati: la concezione delle donne, delle passioni e dei vizi umani.

Quando Dante parla al gentil sesso, sebbene in modo paternalistico, nelle Rime, facendo riferimento in Do-glia mi reca ne lo core ardire (CVI) al ‹‹vil vostro di-sire›› (v. 6), compie un passo considerevole: da una poetica espressione dei desideri degli uomini in cui le donne sono oggetti si passa ad una che analizza i desideri delle donne, soggetti attivi dotati di intelletto

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e volitività.

Nell’Acerba Cecco attacca sprezzantemente la con-vinzione del Poeta che insegnare alle donne sia pos-sibile: Rare fiate, como disse Dante, / S’entende sottil cosa sotto benna: / Dunque, con lor perché tanto mil-lante? (libro IV, cap. IX, vv. 109-111); per tale ragione deve apparire uno sciocco chi / Maria si va cercando per Ravenna / Chi in donna crede che sia intelletto (vv. 113-114). C’è di più: nei versi seguenti del me-desimo capitolo del libro, ad una donna innominata, tratteggiata precedentemente con toni aulici, la Don-na per eccellenza, creatura perfetta, eterea, incarDon-na- incarna-zione della Sapienza, generatrice e custode di ogni virtù e beatitudine, oppone tutto un mondo di donne, di femmine in generale, a cui riserva ingiurie, odio e disprezzo insoliti, superando persino il Boccaccio mi-sogino del Corbaccio:

Femena che men fé ha che fera, radice, ramo e frutto d’onne male, superba, avara, sciocca, matta e austera,

veneno che venena el cor del corpo, via iniqua, porta infernale; quando se pinge, pogne più che scorpo;

tosseco dolce, putrida sentina; arma del diavolo e fragello; prompta nel male, perfida, assassina.

Luxuria malegna, molle e vaga, conduce l’omo a fusto et a capello;

gloria vana et insanabel piaga. Volendo investigar onne lor via, io temo che non offenda cortesia.

(Libro IV, cap. IX, vv.115-128)

Indubbiamente la Francesca di Dante rappresenta il peccato della lussuria, quel sentimento così terreno di cui il poeta stesso ne avvertì i morsi così violenti in età giovanile e per il quale scrisse - in risposta a Cino da Pistoia -: ‹‹Io son stato con Amore insieme›› (Rime CXI, v. 1) ed in seguito, memore, ‹‹e caddi come corpo morto cade›› (Inf. V, v. 142), massima espres-sione di empatia e pietas. A tale rappresentazione corrisponde nel sistema filosofico di Cecco l’esalta-zione della Donna ideale, celeste, dell’‹‹eterno fem-minino›› come personificazione della conoscenza e dell’intelletto; al cospetto di questa figura imma-teriale e simbolica la Beatrice decantata da Dante, sia pure nella sua funzione ascetica e di guida spi-rituale, si manifesta come una creatura umana, non angelica.

Il risultato è che freddezza e rigidezza scientifica rischiano non solo di far risultare vana la ricerca della Vergine Maria tra le strade di Ravenna, ma an-che di non scorgere le molte Francesan-che, concrete, innocenti o peccatrici, che costituiscono i veri mo-tori dell’universo umano, anche nel lontano Medio-evo. Forse proprio in questa fede incrollabile nei confronti della scienza, nella gelida intransigenza

della tecnica a discapito del sentimento, di un amo-re teramo-reno, tangibile, sta la diffeamo-renza tra Cecco e Dante.

‹‹Francesca non era una bagascia›› sosteneva pe-rentorio, all’inizio dell’Ottocento, l’abate Antonio Cesari (Cesari 2003, p. 147). La sentenza però, per quanto salvifica ed efficace, probabilmente non rende del tutto onore alla complessità della pas-sione; inoltre, Francesca non è neppure tout court l’anima immorale schiava della lussuria del V can-to dell’Inferno, così come l’hanno voluta qualificare molti commentatori antichi. La gravitas del testo dantesco e le trasfigurazioni letterarie ed artistiche successive presentano una ricchezza di costrutti

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