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“Pulp” è oramai un aggettivo con il quale abbiamo una certa familiarità. Dobbiamo questa familiarità, probabilmente, a Quentin Tarantino e al suo film Pulp

Fiction, che ha saputo recuperare in chiave post-moderna gli stereotipi della mass culture più degradata. Pulp è diventato quindi sinonimo di un’estetica che tiene insieme

violenza fumettistica, sessualità disinibita e ritmo mozzafiato. Prima di diventare un termine feticcio dei gusti giovanili, però, la parola aveva ben più prosaico e materiale referente: la polpa di legno (pulpwood) usata per produrre carta tanto scadente quanto economica. Il primo a servirsi di questo materiale per le pagine del suo giornale fu Frank Munsey, che nel 1986 fece del suo Argosy il primo periodico a buon mercato interamente composto da racconti e romanzi.208 Al costo di dieci cents, Argosy si

dichiarava “the largest magazine in the world”209 e raccoglieva l’eredità della popular fiction americana a distribuzione periodica, generalmente chiamata dime novel.

In un brillante studio Michael Denning ha ricondotto questa specifica forma di letteratura popolare, diffusa fra gli anni Cinquanta e Settanta dell’Ottocento, ad altre due esperienze, quella precedente degli story papers (che si erano sviluppati a partire dalle appendici dei penny press) e quella successiva delle cheap library. Contrariamente a quanto sostenuto dalla precedente generazione di studiosi, queste storie non erano, secondo Denning, egemonizzate dai temi pionieristici della conquista del west e dello scontro con gli indiani. Accanto al patriottismo, si potevano trovare anche storie di mistero, fantasie sui temi della donna, del lavoro e dell’urbanizzazione. Questo corpo di narrazioni popolari, esauritosi progressivamente attorno al 1890, va considerato dunque come uno fra i primi settori della nascente industria culturale, prodotto secondo criteri commerciali precisi, e letto da un vasto pubblico working class. Considerate in questo senso ampio, le dime novels erano una forma di intrattenimento letterario a basso prezzo, che come il feuiletton raccoglievano l’interesse di fasce di popolazione di

208 “I wanted to get The Argosy wholly in a field by itself […] So I worked out for it the plan of an all- fiction magazine, something brand-new – a type which it created, and which has since become one of the moste successful in the magazine field”. Frank A. Munsey, The Founding of the Munsey

Publishing-House, in «The Argosy», dicembre, 1907, p. 50.

209 La citazione si trova in R. D. Mullen, From Standard Magazines to Pulps and Big Slicks: a Note on

recente alfabetizzazione e che veniva prodotto, grazie alle nuove tecnologie di stampa, secondo metodi industriali e di divisione del lavoro. Gli autori, professionisti capaci di un ritmo di scrittura quantitativamente sostenuto, potevano diventare nomi celebri, ma spesso l’interesse degli editori era diretto agli eroi carismatici e alle loro avventure ispirate a fatti di cronaca; tutti ingredienti capaci di fidelizzare il pubblico e favorire la serializzazione.210

A seguito della rivoluzione giornalistica degli anni Trenta si era dunque creato anche un mercato per la fiction periodica e popolare, questa, a sua volta, stimolò lo sviluppo di riviste a basso prezzo, che si affiancarono a mensili più costosi e ricercati come Harper’s e Scribner’s.

Nell’ottobre 1893, il già citato Munsey ebbe un’altra grande intuizione commerciale: annunciò, dalle pagine pubblicitarie del New York Sun, che il suo

Munsey’s Magazine passava da 25 centesimi a 10 a copia, riducendo il costo

dell’abbonamento annuale ad un dollaro. Fu una rivoluzione nel campo dei magazines americani, che passarono dall’essere oggetti di lusso a divenire forme di intrattenimento di massa, via via sempre più specializzate.211 Cercando di raggiungere un’ampia fetta di audience ancora ignorata, il magnate del Maine intuì che un prezzo di vendita inferiore

a quello di produzione avrebbe garantito un’inedita circolazione, attraendo massicci investimenti pubblicitari. È perciò impossibile comprendere la nascita delle riviste americane senza considerare il progressivo sviluppo del mercato nazionale che si ebbe a fine XIX secolo ed il conseguente decollo della pratica pubblicitaria. Attorno al 1890 le prime agenzie pubblicitarie andarono specializzandosi e i magazines diventarono progressivamente uno dei principali canali attraverso cui suggerire l’acquisto di prodotti oramai divenuti brand; nei dieci anni successivi gli investimenti in pubblicità di ogni tipo passarono da 360 a 542 milioni di dollari e queste figure non erano che destinate ad un’inesauribile crescita. Il successo di Munsey, che nel 1895 dichiarava di vendere 500000 copie mensili, non poté passare inosservato, e ben presto nuovi concorrenti sfruttarono la sua tecnica, come il Saturday Evening Post. Per questo tipo di riviste la pubblicità divenne una fonte di sostentamento via via fondamentale, da attrarre attraverso gli indici di circolazione e dunque per mezzo di un pubblico necessariamente

210 Michael Denning, Mechanic Accents. Dime Novels and Working-Class Culture in America, Verso, London, 1998.

211 Uno studio datato ma a mio avviso completissimo sui periodici statunitensi, da quale sono tratte molte delle seguenti informazioni, è Theodore Peterson, Magazines in the Twentieth Century, University of Illinois Press, Urbana, 1964.

vasto, che poteva essere raggiunto grazie ai sofisticati canali di distribuzione garantiti dal miglioramento infrastrutturale. Come ovvio, il pubblico doveva essere conquistato e mantenuto anche grazie ad un’attraente offerta di contenuti. Frank Munsey fu un precursore anche su questo punto, infarcendo il suo magazine di illustrazioni, articoli di interesse generale e, quel che più ci interessa, di storie e racconti brevi. Così si espresse su questo punto lo stesso imprenditore.

I worked out the idea of reducing the price of my magazine to ten cents, and of accompanying this radical change by an equally radical change in the character of the magazine – making a magazine light, bright, timely – a magazine of the people and for the people, with pictures and art and good cheer and human interest throughout.212

Benché non esistano studi in merito, è probabile che il target di questa come di altre riviste fosse un gusto medio, restio alla sofisticazione ma anche avulso dalle classi più basse, tuttavia Munsey viene spesso ricordato come un avido affarista, interessato solo al profitto, a scapito della qualità. Alla sua morte, nel 1925, pare che il giornalista William Allen White gli dedicò il seguente epitaffio:

Egli ha dato al giornalismo della sua epoca il talento di un salumaio, l’etica di un usuraio e lo stile di un becchino. Lui e i suoi simili sono quasi riusciti a trasformare una nobile professione in un investimento all’8 per cento.213

Questo giudizio, probabilmente, non è avulso anche dal ruolo giocato da Munsey nella creazione del fenomeno pulp magazine, quasi unanimemente considerato fra le forme più puerili, volgari e degradate assunte dalla letteratura massificata. Questo tipo di periodici dipendeva in misura molto minore dalla pubblicità, dato il loro irrisorio costo di produzione, ed il successo fu irrefrenabile; Sturgeon calcola che la loro lettura abbia fornito trattenimento a basso prezzo a circa 10 milioni di Americani. In breve tempo apparvero imitatori e la fascia di mercato iniziò a farsi affollata. Specialmente dopo il primo conflitto mondiale, le riviste iniziarono a specializzarsi in singoli generi, come quello amoroso, la detective story, il western, l’avventura, spingendosi fino ad ancor più specifici sottogeneri, con titoli quali Sea Stories, Spy Stories, Sport Stories,

212 Munsey, The Founding of the Munsey Publishing House, cit., p. 41.

Air Stories, Ranch Romances e Basketball Stories.

Il settore arrivò, nel 1937, a contare all’incirca duecento riviste spesso accostate non solo per l’uso di carta ricavata dalla polpa di legno, ma per le grandi dimensioni (all’incirca sette per dieci pollici, sarebbe a dire 18x25 cm), e una generale propensione al sensazionalismo, con situazioni e personaggi stereotipati. In realtà, trarre conclusioni su di un così vasto calderone di prodotti rischia di incorrere in semplificazioni eccessive, contro le quali ci mette in guardia ad esempio Richard Dale Mullen. Gli scrittori spesso creavano opere sia per i pulps che per i cosiddetti slick magazines, che non sempre disdegnavano miscele cartacee di qualità varia, e le vituperate copertine a base di sesso e violenza esplicita apparvero solo a partire dagli anni Venti.214

Ancora una volta, in ogni caso, dovremo mettere da parte ogni sterile elitismo, per notare come tanti generi ed autori oggi di successo siano inizialmente comparsi su queste puerili riviste. Black Mask, ad esempio, fondata nel 1920, va a buon diritto considerata fra i capostipiti del genere poliziesco, oramai assurto a dignità letteraria, di cui ha lanciato autori di spicco quali Dashiell Hammett (The Maltese Falcon) e Raymond Chandler (i racconti The Man Who Liked Dogs e The Curtain diverranno la base per i celebri romanzi Il grande sonno e Il lungo addio).215 Spesso accostato alla

fantascienza vera e propria è invece Weird Tales, pubblicato a partire dal 1923, che ha ospitato innumerevoli successi del fantastico, del gotico e del horror, come i miti di Cthulhu dell’oramai celebre H. P. Lovecraft e Conan il barbaro di Robert E. Edward.216

Il lascito di questa rivista è talmente duraturo che a partire dagli anni novanta autori popolari come Jeff Vandermeer hanno dato vita ad un filone ibrido fra sf e horror noto come New Weird.

Una menzione d’onore, però, la meritano ancora una volta Argosy e le varie riviste del gruppo Munsey sulle quali comparvero alcuni lavori che hanno segnato, in bene o in male, tutta la fantascienza e l’immaginario contemporaneo. Mi riferisco in particolare alle due opere di E. R. Burroughs Under the Moon of Mars (prima fra le apparizioni dell’eroico ufficiale confederato trapiantato su Marte John Carter, All-Story Magazine 1912) e, sempre sulla medesima rivista Tarzan of the Apes, personaggio celeberrimo su cui sarebbe superfluo soffermarsi. 217

214 Mullen, From Standard Magazines to Pulps and Big Slicks, cit. 215 Gelder, Popular fiction, cit. pp. 58 - 59.

216 Sadoul, La prima storia della fantascienza, cit., pp. 52 - 55 e 92 - 98. 217 Ibid., pp. 29 - 52.

Nei pulps si rintracciano tante delle caratteristiche che abbiamo già visto vituperate come tipiche della letteratura di consumo: la volatilità del supporto (reso fragile dalla pasta acida della carta) si combina ad un impianto narrativo basato su formule ricorrenti, la distribuzione in edicola e in biblioteca richiede copertine sgargianti e di cattivo gusto, che attirino subito l’attenzione dell’acquirente. La critica, dunque, coeva o successiva che fosse, ha identificato il mercato dei magazine popolari in opposizione a quello circoscritto e sofisticato dei periodici modernisti dell’epoca. Questa tendenza sembra ora essere in via di revisione, tanto che all’interno della poderosa Oxford Critical and Cultural History of Modernist Magazine si trova un capitolo dedicato alla dialettica fra periodici di consumo e modelli di cultura intellettuali.218 La panoramica curata da David Earle riesce ad offrire interessanti spunti

senza rinunciare alla concisione, dimostrando in maniera convincente gli scambi fra i due circuiti culturali e le peculiari intersezioni fra questioni di classe, genere e razza che trovano espressione nel poliedrico universo delle pulp fictions. Mi pare si tratti di fruttiferi suggerimenti per i cultural studies, che ancora poco hanno esplorato un campo dal vasto e inespresso potenziale.

In questo contesto culturale e commerciale si inserisce la fantascienza, che finalmente si cristallizza in alcune delle sue caratteristiche più durature e che compare, definitivamente, come genere a se stante, stimolando subito una grossa fetta di imitatori. Il catalizzatore è la rivista pulp Amazing Stories, fondata da un pittoresco personaggio di cui ora dobbiamo necessariamente occuparci. Grazie alla sua opera il panorama fantascientifico sarebbe stato egemonizzato dalla produzione su rivista praticamente fino agli Sessanta.

218 David M. Earle, Pulp Magazines and the Popular Press, in Peter Brooker and Andrew Thacker (a cura di) , The Oxford Critical and Cultural History of Modernist Magazine, Vol. II, Oxford University Press, 2012, Oxford, pp. 197 - 215.