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L’approccio pragmatico (forse più evasivo che risolutivo) della Corte costituzionale

La destrutturazione formale del potere regolamentare nell’evoluzione dei decreti normativi ma non regolamentar

L. n 232 del 2016 (Legge d

5. La reazione dei soggetti che controllano la struttura del potere

5.1. L’approccio pragmatico (forse più evasivo che risolutivo) della Corte costituzionale

Per poter assumere davvero un qualche ruolo di argine a questo fenomeno, per la Corte costituzionale non c’è altra soluzione che riconoscere nell’art. 117, comma 6, cost., la configurazione costituzionalizzata del Regolamento quale unica fonte di normazione secondaria, e individuare la legge n. 400 del 1988 - valorizzandone il collegamento con il dettato costituzionale o il suo carattere di fonte sulla produzione di diritto - come parametro interposto nel giudizio di costituzionalità sulle disposizioni che abilitano l’esercizio in forme atipiche della potestà regolamentare . La giurisprudenza 182 della Corte costituzionale, però, sembra aver accreditato l’opzione ermeneutica alternativa, secondo cui il rispetto del principio di legalità esige solo che l’atto

G. TARLIBARBIERI, sia in Il potere regolamentare del Governo (1996-2006), in P. CARETTI (a cura di), 182

Osservatorio sulle fonti – 2006, Giappichelli, Torino, 2007, p. 188, che in Atti regolamentari ed atti pararegolamentari nel più recente periodo, in U. DE SIERVO (a cura di) Osservatorio sulle fonti - 1998, Giappichelli, Torino, 1999, pp. 241-285, e in particolare a p. 243, in cui sostiene che «dopo l’entrata in vigore della legge n. 400/1988 la sussistenza di un potere para-regolamentare in capo all’Esecutivo appare quantomeno dubbia»; L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna, il Mulino, 1996, 46 s., F. MODUGNO, È possibile parlare ancora di un sistema delle fonti?, in Il pluralismo delle fonti previste dalla Costituzione e gli strumenti per la loro ricomposizione, M. SICLARI (a cura di), Napoli, 2012, in particolare pp. 35 s.; P. CARNEVALE, Osservazioni sparse in tema di norme sulla normazione e su talune caratteristiche del loro regime giuridico, in «Diritto romano attuale», 2003, 9, pp. 144 ss; e R. GUASTINI, Teoria e dogmatica delle fonti, Milano, 1998, p. 558. Ma si veda anche la posizione, in questo senso, rappresentata alla Camera da G. RIVOSECCHI, Considerazioni sparse in ordine alle attuali tendenze della produzione normativa, cit., p. 98. N. LUPO, La potestà regolamentare del Governo dopo il nuovo Titolo V della Costituzione: sui primi effetti di una disposizione controversa, in P. CARETTI (a cura di), Osservatorio sulle fonti - 2002, Torino, 2003, 237 ss.; R. BIN, Problemi legislativi e interpretativi nella definizione delle materie di competenza regionale. Rileggendo Livio Paladin dopo la riforma del Titolo V, in Scritti in memoria di Livio Paladin, Jovene, Napoli, 2004, soprattutto p. 334; F. BATISTONI FERRARA, Una nuova fonte di produzione normativa: i decreti ministeriali non aventi natura regolamentare, in Le fonti del diritto, oggi. Giornate di studio in onore di Alessandro Pizzorusso, Pisa, 3 - 4 maggio 2005, Pisa, 2006, pp. 191 ss.

secondario rispetti il dettato della legge che a questo si riferisce, mentre questa, a sua volta, in quanto atto di rango primario al pari della legge n. 400 del 1988, può disporre in deroga a quella. L’accreditamento di questa tesi, evidentemente, impedisce di considerare il modello dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988 come indefettibile. L’impressione, però, è che quella dalla Corte non sia stata una vera e propria scelta di campo, ma piuttosto sia la conseguenza di un approccio evasivo alla questione, facilitato dalle caratteristiche contesto “decisorio”.

Va, in via preliminare, chiarito un punto: la Corte non si è trovata spesso ad occuparsi di decreti normativi ma non regolamentari (essendo il suo sindacato rivolto, ex art. 134 Cost., soprattutto a leggi e ad atti aventi forza di legge) e quando lo ha fatto se ne è occupata in un contesto in cui ciò che le era chiesto era di controllare l’adesione della sostanza normativa al trattamento giuridico, non quanto alla forma e al procedimento di adozione, ma sotto il profilo del titolo di competenza del potere.

Il dato di contesto che non può essere trascurato è proprio questo: che la giurisprudenza di cui si darà conto è tutta collocata nell’ambito del controllo del riparto di competenze regolamentari tra Stato e Regioni ex art. 117, comma 6, Cost, e fa seguito ad un filone precedente del tutto simile, che si è sviluppato attorno al vecchio art. 121 Cost., che attribuiva la funzione regolamentare al Consiglio regionale e che la Corte ha utilizzato per escludere che altri organi potessero adottare atti normativi secondari . La giurisprudenza di cui si darà conto è tutta costruita attorno a due 183 parametri che riguardano la distribuzione (intersoggettiva e inteorganica) del potere regolamentare, da intendersi sicuramente, e in entrambe le disposizioni, come sinonimo di potere normativo secondario tout court. Entrambi questi parametri incorporano la parola “regolamentare” esattamente con lo stesso significato di normativo secondario. E infatti, che l’attuale art. 117 co. 6, così come la precedente versione dell’art. 121 Cost., utilizzi la parola “regolamento” per riferirsi ad ogni forma di esercizio di potere normativo secondario, è tanto vero che, se così non fosse, la sua disciplina faticherebbe a trovare perfino un qualche senso logico. Le domande poste alla Corte, in entrambi i casi, si esauriscono con risposte che riguardano la corretta distribuzione del potere, per

Lo ha fatto con la sentenza n. 371 del 1985, con cui ha annullato una disposizione che attribuiva il potere

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di adottare regolamenti di esecuzione alla Giunta. Di nuovo la Corte ha fatto ricorso a criteri sostanziali, facendo salve le leggi contestate, ma solo in quanto esse attribuivano alle giunte poteri amministrativi e non poteri normativi, con le successive sentenze n. 569 e n. 918 del 1988, 311 e 348 del 1990.

cui è sufficiente rilevare la natura dell’atto e il relativo titolo di competenza, mentre la questione della forma e del procedimento rimane assorbita.

In questo scenario si deve collocare sicuramente la sentenza n. 270 del 2005, che ha negato il contrasto tra un rinvio contenuto in una fonte di rango primario e l’art. 117 co. 6 Cost., sulla base del fatto che il potere da esercitare per mezzo del rinvio censurato, che demandava al Ministro di stabilire le modalità di attuazione si operazioni di

alienazione, dovesse essere configurato come potere amministrativo […] e non come potere normativo, non avesse i caratteri del potere regolamentare. Lo stesso tipo

indagine è stato ripetuto nella sentenza n. 10 del 2010, con cui la Corte ha respinto il ricorso rivolto all’art. 81, co. 33, lett. a) del decreto legge n. 112 del 2008 (decreto

social card), questa volta tagliando il nodo alla radice, e riconoscendo sul punto la

competenza regolamentare dello Stato. Nello stesso percorso si inserisce la sentenza n. 39 del 2014, che esclude la violazione del riparto di cui all’art. 117 co. 6, da parte d.P.C.m. 21 dicembre 2012 che, «limitandosi ad indicare i criteri e le regole tecniche volte a soddisfare quelle esigenze di omogeneità nella redazione dei rendiconti annuali di esercizio dei gruppi consiliari, sarebbe stato privo di contenuto normativo».

Il dato che si può estrapolare come certo da questa giurisprudenza è sicuramente quello di una Corte che condivide l’argomento per cui il criterio di natura sostanziale prevale, in questo contesto, sulla qualificazione formale dell’atto: per cui ciò che bisogna vedere è se l’atto ha o non ha carattere normativo, e solo da qui è possibile risalire al trattamento giuridico che ad esso applica l’ordinamento. E la Corte ha dimostrato di proseguire per la strada dell’indagine sostanziale anche quando, quella tracciata dagli indicatori formali, avrebbe segnato direzioni diverse.

Questo atteggiamento è ormai consolidato in modo cristallino da una giurisprudenza piuttosto cospicua, ed è ripetuto, oltre che nelle pronunce esaminate, anche nelle sentenze n. 278 del 2010, 139 del 2012 e 274 del 2013. Da tutti questi casi emerge 184 anche la contraddittorietà cui si andrebbe incontro intraprendendo la strada opposta, quella cioè di ritenere che la qualificazione formale dell’atto possa bastare a determinarne la natura, che avrebbe condotto ad escludere atti regolamentari dal trattamento (sotto il profilo della competenza) che la Costituzione applica al potere regolamentare.

Di questa contraddittorietà la Corte parla espressamente nella sentenza n. 278 del 2010, laddove dice che non possono essere requisiti di carattere formale (quali il nome

Secondo cui non ha natura regolamentare il decreto ministeriale che “non comporta la produzione di

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norme generali ed astratte, con cui si disciplinino i rapporti giuridici, conformi alla previsione normativa, che possano sorgere nel corso del tempo, limitandosi, invece, a esprimere una scelta di carattere essenzialmente tecnico”

iuris o la difformità al procedimento) a determinare l’esclusione dell’atto dalla tipologia

cui si riferisce, «giacchè, in tal caso, sarebbe agevole eludere la suddivisione costituzionale delle competenze, introducendo nel tessuto ordinamentale norme secondarie, surrettiziamente rivestite di altra forma, laddove ciò non sarebbe consentito». Quello che si può dire, dunque, è che la direttrice generale della giurisprudenza della Corte costituzionale è sempre stata quella di guardare alla sostanza degli atti, per assicurare che a questa si applicasse il trattamento giuridico adatto, guardando però alla legittimità delle disposizioni impugnate sempre con riferimento alla corretta attribuzione della materia e mai al rispetto della forma.

Seppure, dunque, la Corte ha sempre evitato di prendere posizione sulla questione della portata prescrittiva dello schema tipico - formale e procedimentale - di cui alla legge n. 400 del 1988, non ha però mostrato, a questo proposito, un atteggiamento neutro.

In un caso, in particolare, la Corte ha rivolto al legislatore un monito piuttosto chiaro. Con la sentenza n. 116 del 2006, ha infatti denunciato apertamente l’“indefinibile natura giuridica” di un rinvio operato da una fonte primaria ad “un decreto avente natura non regolamentare”, concludendo comunque sempre per l’illegittimità costituzionale della fonte primaria che vi rinviava per violazione delle competenze legislative regionale. Molto più recentemente poi, con la sentenza n. 178 del 2019, ha censurato il rinvio ad una forma di esercizio atipico di potere regolamentare disposto da una legge regionale che aveva demandato la propria attuazione ad una “deliberazione della Giunta” . 185

Ricapitolando: ciò che certamente si può criticare alla Corte costituzionale è di non avere mai voluto guardare all’elefante nella stanza: il problema del fondamento dell’esercizio atipico del potere regolamentare, lasciandolo sempre in secondo piano (che però, va detto, è lo stesso in cui le si è sempre presentato). Proprio la valorizzazione delle poche e mai incisive indicazioni che si possono trarre dalle sue pronunce, e del contesto in cui si collocano, permette però di far emergere una posizione davvero poco netta, che potrebbe non escludere, per il futuro, di giungere ad una presa di posizione diversa.

Si tratta però di un caso in cui l’indagine contenutistica era, in qualche modo, obbligata. La Corte infatti

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giudicava di un rinvio disposto da una legge regionale ad un atto “atipico” a cui era attribuita funzione di delegificazione. Il tutto con riferimento alla Regione Puglia, in cui il procedimento di delegificazione è stabilito dallo Statuto.

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