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Approfondimento del quadro normativo italiano alla luce della

185 Alcune corti tedesche hanno affrontato la questione: alcune affermano che siamo di fronte ad un abuso nell’ipotesi in cui un cittadino tedesco al quale è stato proibito di ricoprire la carica di direttore di una società a responsabilità limitata sulla base del diritto interno forma una società inglese ed è validamente nominato quale amministratore in forza del diritto inglese. Successivamente in una tale situazione l’amministratore non è autorizzato ad invocare le libertà europee dei trattati, anche se la situazione è stata considerata ricadere nell’ambito di applicazione del trattato le corti tedesche considerano l’applicazione delle leggi tedesche sulla qualità degli amministratori delle società possa essere giustificato sulla base delle prevalenti ragioni di interesse pubblico in particolare la correttezza e la trasparenza nelle operazioni commerciali.

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L'ordinamento italiano conosce l'istituto del trasferimento della sede sociale all'estero, come si desume dalle disposizioni codicistiche e non, che danno allo stesso disciplina, e dalle quali possono poi derivarsi in via interpretativa conclusioni più generali.

Ci riferiamo innanzitutto all'art. 2369, comma 5, c.c., che prevede una maggioranza qualificata per la delibera dell'assemblea della società per azioni concernente il "trasferimento della sede sociale all'estero", ed all'art. 2437, comma primo, lett. c), c.c., che attribuisce ai soci di una società per azioni che non hanno concorso a tale delibera un diritto di recesso, norme che indirettamente confermano la validità di un tal genere di operazione quando la stessa riguardi società di capitali di diritto italiano186. A queste disposizioni si aggiungono gli artt. 2507-

2509 del cc in materia di esercizio del diritto di stabilimento secondario in Italia. Ai nostri fini, soprattutto rileva l’art 25, comma 1^ della Legge. Sulla base della distinzione fatta nel paragrafo precedente, possiamo sicuramente inserire l’Italia tra gli Stati che adottano la teoria della costituzione in modo asimmetrico. Per le società italiane che si trasferiscono all’estero infatti continuerà ad applicarsi la lex dello Stato italiano, mentre le società straniere che hanno in Italia la loro «sede dell’amministrazione» o l’«oggetto principale» dell’impresa vedono applicarsi comunque la lex fori. Sicuramente attraverso questo meccanismo il legislatore voleva limitare il fenomeno di

186 La disposizione si applica anche alle società in accomandita per azioni per effetto del rinvio di cui all'art. 2454 c.c., mentre per le società a responsabilità limitata vale l'art. 2473 c.c., che, con formulazione leggermente diversa, riconosce un diritto di recesso ai soci "che non hanno consentito... al trasferimento della sede all'estero".

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costituzione di società straniere che però avrebbero svolto la loro attività economica principale in Italia. Ci si vuol riferire anche al caso dello spostamento da parte di una società costituita all’estero della propria sede reale in Italia senza contestuale trasferimento della sede sociale187: si assiste in questo caso ad un

mutamento dell’interesse dell’ordinamento nei confronti di uno stesso soggetto straniero tale da giustificare l’applicazione di un regime più rigoroso volto, ancora una volta, alla tutela degli interessi delle parti deboli188. Per comprendere la portata di tale

ibridazione al criterio della sede reale, è utile interpretare il concetto di sede dell’amministrazione della società o oggetto principale della società. Per «sede dell’amministrazione» si intende generalmente il luogo dal quale provengono «gli impulsi volitivi inerenti all’attività amministrativa della società»189. Anche

la giurisprudenza, nelle pochissime occasioni in cui si è occupata del concetto in questione, ha in linea di massima aderito a questa definizione190. Per oggetto principale dell’impresa, invece, si

187 Mentre restano fuori dal campo di applicazione della norma quelle società aventi una o più sedi con rappresentanza stabile in Italia nessuna delle quali possa qualificarsi come sede principale. Per queste società troveranno, infatti, applicazione le disposizioni di cui agli artt. 2507 ss. cod. civ. dettate in materia di società estere con sede secondaria nel territorio dello Stato che, come è noto, assoggettano tali società ad alcune norme italiane in materia di pubblicità, di conduzione dell’attività d’impresa e di responsabilità degli amministratori o di quanti abbiano agito nel nome della società.

188 V., anche, la relazione del Guardasigilli ove si afferma che «scopo della norma è quello di impedire che l’utilizzazione di un soggetto costituito all’estero possa consentire il godimento di una posizione di privilegio rispetto alle società italiane». V., Ramondelli, Società straniere: requisiti di validità e riconoscimento, in Impresa e tecniche di documentazione giuridica, I, Milano, 1990, p. 254.

189 Santa Maria, Le società nel diritto internazionale privato, Milano, Giuffrè, 1970, p. 100; Angelici, Società costituite o operanti all’estero (voce), in Enc. giur., pp. 6 ss.

190 Per vero gli unici precedenti sono, a quanto consta, tutti risalenti alla disciplina precedente alla riforma del diritto internazionale privato del 1995. V., Trib. Genova 31 marzo 1967, in Riv. Dir. Int. Priv. Proc., 1967, pp. 802 ss.

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intende «l’attività concreta diretta al raggiungimento dello scopo sociale, ossia l’attività imprenditoria per svolgere la quale la società è stata creata dai soci»191.

A ben vedere, tuttavia, l’innegabile indeterminatezza dei concetti in questione rende vano lo sforzo interpretativo di definirne il contenuto in termini astratti. Tali concetti hanno, infatti, una valenza piuttosto fattuale, ciò rendeva e rende discutibile ogni tentativo di individuare una linea di demarcazione netta fra i due criteri di contatto. È probabile che proprio per questo motivo il legislatore del 1942 abbia deciso di modificare la formula nel senso di imporre l’applicazione della legge italiana in presenza anche di uno soltanto dei criteri di contatto in questione. Dunque, a prescindere dal luogo in cui si trovi la sede dell’amministrazione (statutaria o effettiva) o da quello in cui vengano compiuti gli atti diretti al perseguimento dello scopo sociale, la disposizione in esame dovrebbe (ad oggi, forse è meglio dire, avrebbe dovuto) trovare applicazione quando guardando alla sostanza e non alla mera forma della società risulti che la stessa abbia una connessione con il tessuto economico-sociale italiano prevalente rispetto tanto alla connessione con l’ordinamento di costituzione quanto a quella che essa eventualmente abbia con qualsiasi altro ordinamento nel cui ambito svolga la propria attività. Il giudice, dunque, dovrà compiere una valutazione di mero fatto e dovrà tenere in conto tutti gli elementi presenti nel caso concreto192: siamo certamente

191 Cagnasso, Società costituite o operanti all'estero, in Giurisprudenza sistematica civile e commerciale diretta da Walter Bigiavi, Torino, 1965, p. 355 ss.

192 Al riguardo, parametri di riferimento potrebbero essere, per esempio, oltre alla sede dell’amministrazione (statutaria ed effettiva) e all’oggetto principale dell’impresa (che rischiano di essere criteri la cui eccessiva genericità

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di fronte ad un sistema ibrido che sostanzialmente attribuisce ampio rilievo alla teoria della sede reale193. Ma a causa

dell’incerta possibilità di rinvenire tale collegamento fattuale, si è preferito ritenere la norma che stabilisce la sottoposizione delle società costituite all’estero alla legge italiana, avente carattere eccezionale e per questo meritevole di essere interpretata in senso restrittivo, nel senso di prevalenza della legge del paese di costituzione, quindi della legge straniera su quella italiana (orientamento che poi sarebbe in linea con quella apertura ai principi esteri che animava il legislatore del 1995). Alla luce dello sviluppo giurisprudenziale della Corte, la previsione dell’art. 25, in particolare, sembra essere inconciliabile con tale orientamento in base al quale la pretesa di uno Stato membro di assoggettare la società straniera alle norme nazionali più severe rispetto a quelle del paese d’origine, adducendo quale giustificazione sia il difetto di legami effettivi con lo Stato di incorporazione, sia la circostanza obiettiva che la società eserciti la sua attività esclusivamente nello Stato ospitante, è incompatibile con la libertà di stabilimento sancita nel trattato. In tale prospettiva deve, quindi, optarsi, sul corretto presupposto del primato del diritto europeo, e quindi, per la inapplicabilità della seconda parte dell’art. 25, primo comma, nei confronti delle società costituite in uno Stato membro dell’Unione Europea o dello Spazio Economico Europeo. Di conseguenza le società comunitarie che istituiscono in Italia

potrebbe renderne difficile l’applicazione) anche il luogo in cui la società abbia concentrato le risorse umane e i mezzi materiali più importanti per il raggiungimento dei propri scopi.

193 V., Ballarino (nt. ?), p. 365 secondo cui non potrà applicarsi la legge italiana ad una società che abbia per oggetto la semplice gestione di partecipazioni azionarie esclusivamente o anche prevalentemente italiane o ad una società straniera di trasporto che di fatto svolga la propria attività prevalentemente in Italia.

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una sede secondaria saranno soggette soltanto agli obblighi di pubblicità previsti dagli artt. 2507-2510 c.c. (nella misura in cui questi obblighi siano compatibili con il diritto comunitario), finanche nell’ipotesi in cui abbiano l’oggetto principale della loro impresa o la sede reale in Italia. La Corte ad oggi, non ha ritenuto soddisfatte le ragioni imperiose di interesse generale prospettate dagli Stati membri in nessuno dei casi sottoposti al suo esame. Alla luce della «dottrina Centros» non sembra possibile determinare in termini generali e astratti l’ampiezza della discrezionalità che gli Stati membri possiedono nell’imporre restrizioni alla libertà di stabilimento alla luce della dottrina delle esigenze imperative. Tali restrizioni potrebbero consistere o nell’imposizione di una determinata disciplina o nel rifiuto di un determinato aspetto dello statuto della società il quale, sebbene compatibile con l’ordinamento di costituzione, infrange un principio fondamentale dell’ordinamento di stabilimento (per esempio, l’anonimato dei soci o degli amministratori, le eccezioni al principio un’azione un voto, il voto cumulativo etc.). Nel primo caso lo Stato di stabilimento dovrebbe sostenere che l’applicazione di una determinata disciplina sia essenziale per il corretto funzionamento della società all’interno della propria giurisdizione (esistenza di una esigenza di carattere imperativo). Sarà, dunque, necessario esaminare il contenuto e le finalità delle disposizioni che vengono di volta in volta in considerazione e verificare se esse siano dirette alla protezione di interessi pubblici preminenti nell’ordinamento. Solo la norma nazionale che abbia tale particolare funzione di tutela potrà esser invocata a discapito delle disposizioni della lex incorporationis, che soffriranno una corrispondente compressione della loro operatività. Nel secondo caso, dovrà opporsi che un determinato

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aspetto dello statuto sociale valido secondo la lex incorporationis si pone in contrasto irrimediabile con principi di ordine pubblico dell’ordinamento di stabilimento. La dimostrazione appare non facile. Inoltre, come stabilito dalla Corte, l’analisi dovrà essere compiuta caso per caso tenendo conto della particolarità di ogni fattispecie e, comunque, data la loro natura eccezionale, le ragioni che giustificano le deroghe alla libertà devono essere interpretate restrittivamente.

Il legislatore italiano ha definito, invece, in modo lungimirante l’ambito di applicazione soggettivo ed oggettivo delle norme di conflitto. Con riferimento al primo, il legislatore del 1995 ha innovato fortemente rispetto al diritto vivente che si era affermato, tale da estenderne il raggio anche alle associazioni, alle fondazioni e ad «ogni altro ente pubblico o privato, anche se privo di natura associativa» (art. 25, primo periodo). L’espressione «persone giuridiche» cui fa riferimento il capo terzo della legge di riforma in cui l’art. 25 è contenuto, potrebbe far pensare prima facie alla volontà del legislatore di limitare l’applicazione della norma in questione ai soli enti personificati in continuità con quanto previsto dalla disciplina precedente194. Tuttavia, un’analisi

più attenta della norma spinge a favore dell’interpretazione più ampia, nel senso di ricomprendere nella stessa non soltanto gli enti personificati ma qualunque entità diversa dalle persone fisiche195. Questa affermazione trova conforto tanto sotto il

194 Infatti, tanto le disposizioni internazional-privatistiche delle preleggi quanto la disciplina codicistica facevano riferimento alle sole «persone giuridiche».

195 In dottrina vi è unanimità sul punto. V., multis, Santa Maria(nt. 42), p. 1094; Benedettelli (nt. 45), p. 44; Luzzato-Azzolini, Società (nazionalità e legge regolatrice), in Digesto delle discipline privatistiche, sezione commerciale, Torino, 1999, p. 139; Mosconi-Campiglio, Diritto internazionale privato e

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profilo sistematico e letterale della norma quanto nella stessa relazione legislativa. Infatti, sotto il primo profilo: a) il capo secondo («persone fisiche») e il capo terzo («persone giuridiche») della legge di riforma sembrano voler racchiudere tutte le problematiche relative alla legge applicabile alle «persone» non rinvenendosi altre disposizioni dirette ad individuare la legge applicabile ad enti non oggetto di formale personificazione; b) la prima parte dell’art. 25 sembra riprendere le disposizioni dei molteplici Trattati di commercio stipulati dall’Italia (e precedenti alla riforma del diritto internazionale privato) i quali, ai fini del riconoscimento reciproco degli enti appartenenti agli Stati firmatari, contengono una definizione altrettanto ampia di «ente»196; c) lo stesso primo comma dell’art. 25 fa riferimento ad

entità sicuramente prive della personalità giuridica in base al diritto italiano (associazioni, lemma che nella sua genericità include le associazioni non riconosciute), mentre il secondo comma della disposizione individua tra le questioni regolate dalla lex societatis anche la ragione sociale dell’ente che costituisce un concetto proprio delle società di persone e quindi di enti ex lege privi di personalità giuridica. A ciò si aggiunga che la stessa relazione legislativa ricorda che l’espressione «ogni altro ente, pubblico o privato, anche se privo di natura associativa» deve essere intesa nel senso di estendersi «anche a enti non

processuale, seconda edizione, Utet, 2006, p. 43.

196 Si veda, per esempio, l’art. 2 del Trattato di amicizia, commercio e navigazione firmato tra l’Italia e gli Stati Uniti il 2 febbraio 1948, ai sensi del quale l’espressione «persone giuridiche ed associazioni» fa riferimento alle «persone giuridiche, (al)le società commerciali e civili e (a)gli altri enti ed associazioni, a responsabilità limitata od illimitata ed a scopo di lucro o meno, che siano stati o possano essere creati od organizzati in avvenire a norma delle leggi e dei regolamenti vigenti».

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personificati, o ad enti la cui personalità è controversa». L’ampiezza della formulazione del primo periodo dell’art. 25 costituisce chiara espressione della volontà del legislatore del 1995 di estendere l’applicazione del criterio di collegamento ivi previsto anche ad entità giuridiche straniere disciplinate in modo diverso dalle corrispondenti figure italiane o non corrispondenti addirittura a nessuno degli fenomeni associativi previsti dall’ordinamento italiano (e dunque implicitamente di riconoscere tali entità). Infatti, il primo periodo in questione sembra voler individuare due categorie di soggetti. Una prima categoria comprendente i fenomeni associativi «tipici»197 del

nostro ordinamento quali tutti i tipi di società previste dal libro V del codice civile, le associazioni e le fondazioni regolate dal libro primo; ed una seconda categoria a carattere atipico e residuale che apre le porte ad una serie indefinita di fenomeni associativi stranieri che assumono rilevanza nel nostro ordinamento sul presupposto del loro riconoscimento nell’ordinamento che li ha creati come centri di imputazione di situazioni giuridiche diversi dalla persona fisica (unioni di persone o unità patrimoniali)198. Al

197 Ciò costituisce applicazione della concezione, accolta dalla più moderna dottrina internazional-privatistica, della funzione internazionale svolta dalle norme di conflitto. Cfr. Santa Maria, Società, diritto internazionale privato e processuale (voce), in Enciclopedia del diritto, vol. XLII, Milano, 1990, p. 884. Sulla concezione del diritto internazionale privato delle società come ricerca ed individuazione di una lex societatis alla quale dovrebbero essere soggette (almeno tendenzialmente) tutte le questioni riguardanti società che presentino elementi di estraneità rispetto all’ordinamento del foro. In senso analogo si esprime la giurisprudenza della Suprema Corte Cass. 16 novembre 2000, n. 14870 («per il riconoscimento nell’ordinamento italiano di una persona giuridica straniera non è necessario che sia strutturalmente o funzionalmente conforme alle persone giuridiche di diritto interno, ma è sufficiente che sia riconosciuta dal suo ordinamento di origine»). Per vero la possibilità di riconoscere nel nostro ordinamento società straniere atipiche risultava già implicitamente dal disposto degli artt. 2249 e 2509 c.c.

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riguardo, un’attenta dottrina ha cercato di delimitare il confine tra l’applicabilità dell’art. 25 e l’applicabilità della norma di conflitto relativa alle persone fisiche chiamando in causa la teoria civilistica secondo cui per costituzione di un ente bisogna intendersi «la valutazione che un certo ordinamento dà di una certa formazione sociale attraverso la produzione di una certa disciplina speciale della formazione stessa, distinta dalla disciplina applicabile alle persone fisiche che ne rappresentano il sostrato sociale o materiale (soci o membri in genere) a

dibattito che si era alimentato in dottrina e in giurisprudenza a partire dagli anni settanta circa la possibilità di riconoscere le c.d. Anstalten del Liechtenstein. I termini del dibattito sono noti agli studiosi della materia delle società straniere: l’Anstalt, regolata dagli artt. 534-551 del Personen und Gesellschaftsrecht, costituisce un ente personificato di diritto lussemburghese che si caratterizza principalmente per la possibilità di determinare l’oggetto sociale in modo generico, per poter essere unipersonale, per consentire il celamento della persona che lo costituisce e per essere dotata ciò nonostante di autonomia patrimoniale perfetta. Caratteristiche queste tutte assai appetibili per l’imprenditore italiano fino all’introduzione anche nel nostro ordinamento del principio del riconoscimento della responsabilità limitata anche per le imprese esercitate in forma individuale. Di fronte al fenomeno della diffusione delle Anstalten costituite per aggirare le allora più restrittive norme societarie italiane la giurisprudenza prevalente e parte della dottrina negarono la possibilità di riconoscere tali entità (specialmente quando fossero costituite da un solo socio fondatore) invocando al riguardo la contrarietà all’ordine pubblico internazionale. Nella giurisprudenza, v., multis, App. Milano, 18 gennaio 1977, in Arch civ., 1977, pp. 585 ss.; Trib. Milano, 22 settembre 1977, in Giur. comm., 1978, pp. 561 ss. In dottrina, si esprimevano contro il riconoscimento delle Anstalten, multis, Albamonte, L’Anstalt del Liechtenstein e l’ordinamento italiano, in Riv. not., 1977, pp. 869 ss.; La questione fu poi risolta in senso positivo dalla giurisprudenza successiva la quale, già a partire dalla fine degli anni settanta, stabilì che, in forza dell’art. 16 delle disposizioni preliminari al codice civile e del Trattato di commercio italo- svizzero del 27 gennaio 1923 (reso esecutivo in Italia con la legge 16 dicembre 1923 n. 2934), esteso al Liechtenstein con scambio di note 16 maggio – 9 giugno 1924 (approvato con la legge 24 dicembre 1928 n. 3448), l’Anstalt avrebbe dovuto essere riconosciuta in base alla propria legge nazionale, salva l’applicazione delle eventuali norme inderogabili di diritto italiano. V. Cass. 28 luglio 1977 n. 3352, in Riv. Dir. int., 1978, p. 91. Picone, Diritto internazionale privato delle società e riconoscimento di "Anstalten" e "Treuunternhemen" nell'ordinamento italiano, in Com. e studi, Milano, 1978, 85 ss., a p. 100, nt. 28.

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attraverso le quali la formazione agisce (organi)»199. In altre

parole, sarebbe al tempo stesso sufficiente e necessario ai fini dell’applicazione dell’art. 25, che l’ente sia regolato da una disciplina speciale rispetto all’attività delle persone fisiche che la compongono. Seguendo questa impostazione rientrerebbero nel campo di applicazione dell’art. 25, figure come i patrimoni destinati ad uno specifico affare o gli accordi di joint venture200.

Infine, va detto che sebbene la nozione di «ente» prevista dall’art. 25 vada interpretata in senso estensivo, sembrano ciò nondimeno potersi individuare almeno due limiti di carattere generale. In primo luogo, l’art. 25 non sembra dover trovare applicazione quando la legge abbia previsto una apposita disciplina ad hoc per un determinato istituto, come avviene per esempio nel caso dei trust che sono assoggettati alla «Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento» adottata all’Aja l’1 luglio 1985 e ratificata dall’Italia con legge 16 ottobre 1989, n. 364201. Tale deroga è, tra l’altro, espressivamente prevista dalla

199 Sebbene il dibattito sul riconoscimento e sul trattamento delle Anstalt possa oggi dirsi definitivamente chiuso, la notevole mole di giurisprudenza che si è accumulata sul punto potrebbe rivestire tutt’ora un certo interesse per l’interpretazione dei Trattati bilaterali di commercio stipulati dall’Italia. 200 V. la sentenza della Corte di Appello di Milano relativa al caso Veneta Mineraria c. Ammainter che, in applicazione dell’art. 25 della legge di diritto internazionale privato, ha riconosciuto la personalità giuridica e la legittimazione processuale attiva in un giudizio italiano ad una joint venture di diritto russo (App. Milano 14 gennaio 2000, in Riv. dir. int. priv. proc., 2000, pp. 172 ss.).

201 L’art. 6 della Convenzione prevede che il trust sia regolato in prima istanza dalla legge scelta dal disponente. Tuttavia, qualora questa legge non preveda l’istituto del trust, occorrerà fare riferimento alla legge dell’ordinamento con