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APPUNTI PER ANEDDOTI SULLA SCELTA NON TELEOLOGICA DELLA POESIA CONTEMPORANEA

Nel documento Una scettica confessione (pagine 74-80)

Intervenire su una questione così complessa come la relazione tra Lirica e società, mi ha posto sin da subito dei problemi relativi alla strada da intraprendere per affrontare l'argomento. Avrei potuto svilupparlo sotto forma di saggio puro sulla permanenza del Discorso di Adorno nella contemporaneità, o preferire un approccio sociologico – già lamentato da Adorno –, oppure portare avanti un commento formale della poesia contemporanea italiana finalizzato a rintracciare i suoi rapporti con il mondo esterno.

Non avendone, forse, le capacità o rischiando di risultare noioso, ho deciso di procedere in un modo del tutto ascientifico, ma d'altra parte l'unico che mi è stato congeniale. Ho scelto, infatti, di concentrarmi più sull'aspetto del “fare poesia” e delle sue implicazioni con la società, argomentando a partire da citazioni di figure della “letteratura” greca arcaica e classica, con qualche incursione sul moderno, e qualche altra sul contemporaneo. Si tratta di sintagmi, frasi, paragrafi che ho raccolto negli anni e che mi hanno posto delle domande, o delle semplici suggestioni, grazie alle quali mi sono interrogato per scovare un nesso tra l'atto poetico e le contingenze storiche. Nei paragrafi seguenti, in concreto, ho commentato le suddette citazioni, cercando (forzando) delle relazioni tra il mondo di allora e la nostra contemporaneità, procedendo talvolta per differentiam, talvolta per

analogiam, talvolta, e qui la scientificità si perde del tutto, per folliam.

Riflettendo sugli estratti, ho tentato di suggerire che l'idea adorniana di una lirica come “espressione individuale di un antagonismo sociale”(1) sia ancora fondante della pratica della poesia, ma che questo antagonismo consista proprio nella volontà del poeta o del testo di non sortire alcun risultato evidente: ho cercato di mettere in evidenza, dunque, come l'assenza di finalità, la ateleologia, sia di per sé un atto etico/politico.

1.EPIMENIDE DI CRETA

Il sonno non lo [Epimenide] abbandonò prima di aver dormito per quarant'anni; solo dopo compose i suoi versi e purificò Atene e molte altre città.

(Pausania, Viaggio in Grecia, I, 14)

È possibile iniziare la trattazione con Epimenide Di Creta, il primo sapiente che, nella rappresentazione che ne ha dato Giorgio Colli(2), esce dallo spazio mitico, entrando, seppure in forma sfumata e favolistica, nella dimensione storico temporale. Siamo a cavallo tra l'VIII e il VII secolo a. C. e, dalle notizie che riusciamo a ricavare da Diogene Laerzio, Paolo di Tarso, Strabone e, infine, Pausania, Epimenide è il sapiente bugiardo che ha dormito per duecento anni, o per quaranta, o per centocinquantasette, in una grotta; al risveglio il Cretese compie tre gesti. Per prima cosa esce dalla grotta e, pensando di aver dormito per poco tempo, non riconosce più i suoi luoghi, né tantomeno viene riconosciuto, se non dal fratello più giovane, ormai vecchio; in un secondo momento comincia a scrivere “versi”, e, infine, viene chiamato da Solone, cui insegnerà il sistema delle leggi, a “purificare” la città di Atene.

Epimenide, dunque, dorme, non riconosce, compone, purifica (e insegna a leggiferare).

In prima battuta la microbiografia di Epimenide pone l'accento sulla lentezza. Che abbia dormito per centocinquantesette, duecento, quarant'anni, l'iperbole non lascia dubbi sulla gestazione dell'opera poetica. Il lungo sonno grazie al quale Epimenide riesce a compiere delle azioni che rimarranno nei secoli si colloca in opposizione di certo alla dimensione storica e biologica: ad una produzione rapida, ad una vita dedita al produrre, alla razionalità del mondo, questo estratto pone un antagonismo di base, che consiste in rallentare, dormire, e, solo alla fine, produrre. Produrre sì, ma

non subito, né subito in rapporto alla storia. La gestazione sonno-lenta dell'opera poetica, non può non considerare il mondo, ma quest'ultimo, inizialmente, influenza il soggetto come i rumori notturni disturbano il sonno dei sonnambuli: solo dopo aver assorbito, dormendo, i mutamenti storici, solo dopo aver elaborato il trauma privato, arriva il testo e il gesto politico. Lo schock di Epimenide, quindi, è prima di tutto individuale. Infatti, il Cretese al principio è traumatizzato dal non essere riconosciuto, una volta uscito dalla grotta. Si trova nella sua Creta e Creta è l'unica città che non purifica, e che stenta a riconoscere. Il trauma vicino è solo trauma dell'io, mentre solo dopo aver affrontato il trauma individuale il Cretese riesce a fare un'azione politica, in lontananza.

Con Durs Gruenbein potremmo dire che l'atto poetico è sempre “il rapporto tra l'io e la costante storica che si impone con violenza”(3). La prima violenza però è comunque una violenza che parte dall'io e a questo stesso giunge. In lontananza, quando il contatto con i luoghi familiari ha agito sull'io, l'autore può confrontarsi coi traumi storici, allora, nel VII secolo a. C., potendo, financo, risolverli.

Concentrandoci sulla duplice azione politica che Epimenide compie – purificare la città di Atene e insegnare le leggi a Solone –, è evidente come questa non sia più praticabile nella modernità. D'altra parte, costituisce un'azione etica in sé quella di scegliere qualcosa la cui gestazione è molto lunga, a fronte delle esigenze di velocità del quotidiano. Se diamo retta a Strabone, sappiamo che Epimenide “per mezzo dei versi (dià tōn epōn) si diede alle purificazioni”(4): un complemento di mezzo che non può sussistere nella contemporaneità. È opportuno, dunque, sottrarre la seconda parte della proposizione, sicché scompare il fine (il télos). Resta il sonno e la composizione, ma il fine non può più essere né dichiarato né tematizzato. Seppure detto in termini ancora rapidi e approssimativi, grazie alla sottrazione della seconda parte della proposizione di Strabone, è possibile rimarcare l'idea della ateleologia della poesia contemporanea.

Se di questo si approfondirà più avanti, si può a questo punto procedere a partire da un altro filosofo della antichità, per riflettere sul mondo moderno, ora dalla prospettiva della scelta etico-formale.

2.TALETE

Non le molte parole suggeriscono un'opinione assennata [...]Scegli (hairoū) una (en) sola parola – cara (kednòn): Incatenerai così le lingue dai discorsi senza confini (aperantólogous) degli uomini ciarlieri. (Talete, in Diogene Lerzio, Vite di filosofi, I, 35)

Scelta/Scegliere è il secondo termine-chiave sul quale vorrei soffermarmi, anche per la densità

semantica che in Greco Antico possiede questa parola, hairesis: scelta, taglio, deviazione.

Talete, il filosofo presocratico, guida alla scelta della parola “cara” che possa incatenare la “logorrea” della storia e degli “uomini ciarlieri.” Se le lingue della storia sono lingue “prive di confini” (aperantólogos), l'invito alla sintesi è deviazione (di nuovo hairesis) dal costume (ethos) del mondo: alla retorica, piena, caotica dei concittadini al potere, Talete oppone qualcosa di “prezioso, caro”. Porre un limite all'illimitato attraverso qualcosa di “prezioso” per il soggetto poetante, ora, non è apologia del “preziosismo”: è la scelta etico-politica di interrompere il flusso caotico dell'attualità e sospendere. Questa parola “preziosa” potrebbe vagamente ricordare la “parola verginale” di matrice adorniana, ovvero quella parola che costituisce “l'indizio di una protesta contro una condizione sociale che ogni singolo sperimenta come a lui estranea, fredda, nemica, opprimente”(5).

Oggi come allora, del resto, la scelta sintetica è scelta etica di fronte ad una modernità in cui non solo tutto scorre velocemente, ma il profluvio di parole è anche fuggevole. I social network, ad esempio, e l'uso politico di questi, si basano su un linguaggio senza confini, senza limiti, ma sfuggente. Si tratta di una falsa oralità: un'oralità che non è vero verbo né vero scritto, alla quale il testo poetico con i suoi sforzi – i suoi sonni, riprendendo Epimenide – prova a reagire per mezzo di un argine. Scegliere la parola “preziosa” significa “avere cura” – l'opposto del “Me ne frego”

fascista – del linguaggio e ancora una volta tentare, individualmente, di interrompere momentaneamente il chiacchiericcio, generando qualcosa di significativo.

Se Talete guida alla scelta di “una sola parola” contro l'aperantólogos del mondo, sulla stessa linea etico-poetica si pone anche Platone. Per quanto le ricerche sul rapporto tra poesia e filosofia in Platone si siano in gran parte concentrate sulla censura, sulla polemica che il filosofo ha portato avanti nella Repubblica, in realtà, la scelta etico-formale viene enunciata anche nel Protagora. Quando, infatti, Socrate, confrontandosi con Protagora, analizza le debolezze del Carme a Scopas di Simonide, il filosofo conclude enucleando quali potrebbero essere le poesie accettabili all'interno di una città eticamente governata. Si tratta delle massime sapienzali, laconiche, come “Conosci te stesso”. La carica etica di queste massime risiede nel poter essere “scagliate” (embállō) in breve (brachù)(6). La brevità di cui parla Socrate è di certo assimilabile alla scelta di una sola parola di Talete, e alla “parola verginale” di Adorno, per quanto in questo caso il passo aggiunga qualcosa di notevole. Scagliare in breve, infatti, oltre a segnalare la necessità della permanenza del testo poetico di fronte a un mondo che chiacchiera, oltre a elogiare nuovamente la sospensione contro il flusso caotico, potrebbe suggerirci che i versi poetici debbano avere la possibilità di essere scagliati entro le fratture, le vallate, del discorso del mondo, vallate rintracciate attraverso la dialettica. Le parole di Platone spingono all'analisi del mondo, alla separazione, e a scagliare i versi all'interno di quelle strade sottili del discorso sorte dalla scissione stessa.

Nel cinema espanso della modernità, però, le fratture risultano inesistenti rispetto al discorso teorico portato avanti dal filosofo del IV secolo. Tutt'alpiù la scelta della sospensione contemporanea, di una scrittura frammentaria(7) che proceda per pennellate, più che inserirsi negli spazi residuali del mondo, ove ne esistano, è la decisione di sospendere il discorso poetico a pochi centimetri da terra.

3.ERACLITO

Oὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει. Non dice, non nasconde, ma manda segnali (Eraclito, fr. 22B93, DK)

Un ultimo frammento antico. Un altro frammento suggeritomi dal terzo volume della Sapienza

Greca di Giorgio Colli(8), pubblicato postumo, l'approfondimento su Eraclito. Il frammento che

apre la raccolta delle proposizioni eraclitee è un ulteriore passo sul quale ho riflettuto a lungo, talvolta dimenticando fosse di Eraclito stesso. Il filosofo del “conflitto” – banalizzando –, ponendosi in continuità con la tradizione della poesia filosofica apollinea, spiega qui quale sia il compito primario del signore Apollo: Non dire, non nascondere, ma mandare segnali (sēmaínei). La forza di questa breve proposizione sembra dire ancora oggi qualcosa in merito alla poesia, e in relazione a quanto si scriveva precedentemente: compito della poesia potrebbe essere il “significare” – che è ben diverso dal “comunicare.”, compito, tra l'altro, applicabile alle varie soluzioni di poetica (paradossalmente anche alle asemiche), che, chiaramente, con l'orfismo non hanno nulla a che fare.

Se, del resto, “la lirica si manifesta garantita socialmente nella maniera più profonda lì dove non toglie le parole dalla bocca della società, dove essa non comunica niente”(9), il verbo Sēmaínō si colloca su questa linea. Innanzitutto, questo verbo costituisce l'unica azione positiva dell'oracolo, che si posiziona a conclusione di due negazioni: il “non comunicare” e il “non nascondere.” Tutte le tre azioni non hanno un referente precisamente decodificabile, per cui non siamo in grado di rintracciare né che cosa taccia, né che cosa dica, né tantomeno, che cosa significhi. Nella “vaghezza” dell'assenza di referente, si annida qualcosa di molto complesso, e per questo più affascinante. La proposizione eraclitea suggerisce, se attribuita ad un'opera in versi, che l'atto poetico inneschi non un'unica direzione di significato, ma una molteplicità di possibili, imprevedibili per chiunque legga. Sēmaínō sembrerebbe condurre a quel Futuro radicale di cui ha parlato recentemente Italo Testa(10), corroborato, inoltre, dalla ontologia dell'opera in versi

tracciata da Aristotele. Lo Stagirita, nella Poetica, additava come caratteristica propria della poesia, quella di dire “le cose per come potrebbero essere”(11).Tuttavia c'è una grande differenza tra Eraclito, Aristotele e il futuro radicale: ancora l'assenza di referente nella proposizione eraclitea. Questa mancanza stipula sì un patto con il futuro ma non in linea teleologica. L'assenza di oggetto, del resto, ci mette di fronte ad una difficoltà capitale: noi sappiamo che il testo poetico agirà, che significherà qualcosa, ma non sappiamo che cosa, né quali saranno i suoi risultati. Se infatti per Aristotele la poesia ha un fine (télos), se in Testa autorizza la speranza, partire dal frammento eracliteo significa rafforzare l'idea di una poesia ateleologica: se non sappiamo né dove né come vada a finire, abbiamo solo coscienza dell'esistenza di una molteplicità di significati, ma non siamo in grado di trovarne una funzione specifica. Sappiamo che “qualcosa se ne farà”, ma non sappiamo che cosa. L'esistenza della poesia contemporanea – la sua eticità – si potrebbe giustificare solo in quanto, significando, esiste e non in quanto fa.

Se fa qualcosa di evidente è ancora una volta rintracciabile dalla disamina del verbo sēmaínō, laddove si potrebbe ravvedere più una fine che un fine. Se sēma, infatti, significa tanto segno, quanto tomba – anche in base alla relazione con il termine sōma –, potremmo forzare la traduzione in “Non dice, non nasconde, ma indica le tombe.” Sostanzialmente il sēma indica che qualcosa c'è stato, che è esistito, stabilisce un rapporto con un passato cui si è sopravvissuti e un futuro cui giungeremo. Il sēma indica al passante qualsiasi che in quel determinato luogo si trova un corpo morto. Come se il passante non lo sapesse, il verbo semaínō mette in guardia: attenzione, qualcuno

ha vissuto, è morto ed è sepolto qui. Qui la politicità, ancora, del testo poetico, la fine: ovvero la

possibilità di suggerire l'umano e l'essenza dell'umano, cioè la sua caducità, e il suo fine ultimo, il traguardo che necessariamente si raggiungerà. Potremmo servirci di quanto scrive Enzensberger nel suo Poesia e politica: la politicità della poesia risiede nel “ricordare l'evidenza”(12) (così come

sēma “rende evidente” che in una determinata terra è sepolto un corpo). Sēmaínō ricorda ciò che

saremo, ciò che ci accomuna, come trattato approfonditamente dalla linea che dalla Ginestra di Leopardi giunge fino al Mito di Sisifo di Camus. L'eticità dell'atto poetico, di alcuni atti poetici, consiste nel ricordare l'umano all'umano, o, abituare a morire, passo dopo passo, nell'esplosione del

fulmen in clausula dei versi conclusivi. Ricordare quest'evidenza, questa fine unica e comune è

costitutivo dell'atto poetico che con la sua tensione volta al finale rappresenta tanto un esercizio alla morte quanto un freno alla nostra bestialità(13). Anzi: un freno alla nostra bestialità proprio in quanto esercizio alla morte.

C'è solo un problema: il pubblico non esiste oppure non se ne cura. Torna l'ateleologia.

4.GOETHE

FAUST: Lascia che il passato resti passato. Così mi uccidi. MARGHERITA: No, tu devi vivere! Io ti voglio descrivere (beschreiben will) le tombe. (Goethe, Faust, vv. 4518-4521)

Il salto millenario non spaventi, è semplicemente un'ulteriore prova della non-scientificità di quanto sto scrivendo. Eppure il rapporto tra sēma e morte, tra sēma e poesia, tra istanze etiche e assenza di pubblico si possono rintracciare in queste poche battute della Tragedia di Margherita, la prima parte del Faust di Goethe. Nelle scene conclusive del dramma, infatti, quando Margherita sta per essere giustiziata, dopo aver inconsapevolmente ucciso la madre e visto morire il fratello, Faust, aiutato da Mefistofele, si presenta con l'intento di liberare l'amata, ancora grazie alle arti del diavolo. Margherita è in preda al delirio. Faust, d'altra parte, vinto dall'amore e dall'angoscia, dichiara di sentirsi morire. Ma Margherita controbbatte: No. Tu devi sopravvivere. Io ti voglio descrivere le

confronti del quale si è colpevoli e al quale si è sopravvissuti. Se Faust vuole dimenticare il passato, Margherita vuole descrivere i risultati di quel passato da cui si è giunti. Il testo poetico probabilmente potrebbe rappresentare anche questo: la descrizione delle macerie – storico/individuali – cui si è, colpevolmente, sopravvissuti e, al contempo, l'avvertimento del traguardo comune. Descrivere le tombe è ancora una volta quel “ricordare l'evidenza” di Enzensberger, il sēmaínō di Eraclito, ma è anche quell'azione etica propria dell'uomo assurdo di Camus. Margherita non vuole spiegare, né risolvere, vuole descrivere. La sua descrizione non “offre una via d'uscita dal male – come l'azione di Faust (inciso mio) – ma è uno dei sintomi di questo male”(14). Margherita è assurda proprio per una ragione – come la poesia contemporanea: proprio perché, per quanto sia colpevole, per quanto voglia descrivere l'evidenza del suo misfatto, mette in circolo un messaggio che non sortisce alcun esito. Il pubblico (Faust) non si cura delle macerie né del traguardo comune. Posto che la descrizione delle tombe, come si diceva a proposito di sēmaínō, potrebbe avere una molteplicità di conseguenze, bisogna anche considerare l'indifferenza. Faust recepisce la descrizione, infatti, la assorbe, ma una volta morta Margherita, una volta trovatosi nei gangli del potere, nella seconda parte del dramma, pare non ricordare più né la donna amata, né quelle tombe di cui era corresponsabile.

Se, all'inizio di questa trattazione si è detto dell'eticità della lentezza della produzione; se, continuando, ho parlato della scelta etica di una parola sospesa – aiutato da Talete e Platone; se, infine, ci si è concentrati sul “significare” di Eraclito, della sua ateleologia, a meno che non si tratti del ricordare l'umano all'umano, la volontà di Margherita e l'indifferenza di Faust – scil. il poeta e la società – non è meno rappresentativa delle altre di una pratica oppositiva alla produzione capitalista. L'efficacia della scrittura, infatti, non è affatto valutabile nell'immediato presente, ma neppure contemplabile. Produrre “senza scopo immediato”, senza necessità di esito, di “generazione di capitale”, in extrema ratio, riprende nella pratica della poesia l'immanenza della sospensione: non si oppone, forse, deliberatamente, ma, di certo, nei fatti. Rispondere “scrivo e leggo senza scopo” è di per sé una scelta etica nell'era della produzione finalizzata. Ricorda, di nuovo, Talete che, interrogato sul perché non avesse figli, risponde: “Per amore dei miei figli”(15).

5. IL FINE ETICO DELLA ATELEOLOGIA

Così come il verbo sēmaínō di Eraclito, la descrizione di Margherita ricongiunge i due opposti di passato e possibilità nel futuro. Tuttavia, come già detto, il prosieguo della tragedia mette in evidenza come il suo fine non ottenga alcun esito: il messaggio resta inascoltato e non produce risultati. La sua azione descrittiva è, inoltre, frutto di una condizione di delirio, del pathos di un soggetto che tenta di resistere disperatamente alle contingenze, ma il mondo le fugge davanti agli occhi. Margherita, morendo, risolve la contraddizione tra la volontà di descrivere e la condizione di un mondo sordo. Il suo non è un atto ateleologico, però mostra la ateleologia(16). Vorrebbe essere un'azione antecedente il sacrificio per qualcosa, ma si conclude con un sacrificio per nulla. Quella di Margherita è una ateleologia incosciente, come del resto ci si sarebbe aspettato dallo slancio “romantico” goethiano, ma così come fino agli anni '80 del novecento sarebbe successo nella poesia moderna. Il poeta descriveva, denunciava, mimetizzava, enucleava la “visione schizomorfa dell'universo”, ma, al contempo, prendeva parte del lamento collettivo di restare inascoltato.

Se, però, si considera la ateleologia come immanente all'atto poetico, la convinzione adorniana di una lirica come “espressione individuale di antagonismo sociale” appare ancora valida seppure non sacrificale.

Torniamo indietro. La lentezza nella gestazione del testo poetico, la scelta di una parola cara implicano di per sé un antagonismo sociale ma non incidono affatto sulla società. Il “significare” e la disamina di questo verbo lo hanno, credo, messo in evidenza. Scegliere la ateleologia – ovvero “questo che faccio non serve a niente” – significa porsi, individualmente, in una deviazione dall'ethos del mondo. Data un'etica – l'insieme delle regole sociali di una determinata società,

considerando l'etimologia del termine –, la scelta ateleologica è un'hairesis, che, come si diceva precedentemente, non è nient'altro che una deviazione (si pensi ad eresia). In pratica la ateleologia è una paraetica, un procedere parallelamente all'uso del valore economico della modernità, camminandole accanto “come si cammina accanto a un nemico”(17).

Non “servire a niente”, tuttavia, pone il poeta di fronte all'invito più frequente di Trovarsi un lavoro

Nel documento Una scettica confessione (pagine 74-80)