Scrivo poesie e sono un docente. Un docente di italiano che in classe, con allievi e allieve adolescenti, parla soprattutto di poesia. Dico soprattutto perché gli autori centrali del programma di letteratura dei licei cantonali ticinesi (insegno a Lugano) sono perlopiù autori di versi. A volte mi capita di riflettere con i ragazzi e le ragazze su questa situazione: dico loro che i poeti sono animali in via di estinzione, o forse animali esotici; che la scuola è lo zoo in cui questi animali possono essere ammirati o guardati con qualche curiosità; e che i docenti sono i custodi, i dipendenti dello zoo. Là fuori, nel resto della città e del mondo, questi animali non esistono, non interessano quasi a nessuno e non emozionano.
La similitudine (o l’allegoria) è rozza ma, credo, funzionale: Guido Mazzoni, in un suo saggio spietato ma molto lucido(1), ha ricostruito la storia sociale della poesia contemporanea in Italia ed è pervenuto, mi pare, a queste stesse conclusioni. Ogni volta che qualcuno mi chiede qual è il ruolo, il compito, la funzione politica della poesia, mi viene da rispondere rimandando a quel saggio, per quanto riguarda il versante storico e teorico della questione, oppure raccontando qualcosa della mia esperienza di docente, per ciò che concerne quello pratico. Qui – non avendo tempo per fare di meglio – proverò a dire soltanto due cose relative a questi due ambiti, senza ricorrere a riferimenti teorici o studi, perché credo di aver affidato proprio alle pagine dell’«Ulisse»(2), qualche anno fa, tutto ciò che avevo e per buona parte ho ancora da dire sull’argomento.
La prima questione riguarda il senso di scrivere una poesia che, nonostante si prefigga di accogliere molto più di quanto circonda l’io di un individuo (ossia la propria epoca, nelle sue manifestazioni storiche e quotidiane), finisce comunque per produrre una serie di testi che veicolano le esperienze di un individuo, le asseriscono, come va di moda dire, senza terremotare, stravolgere o mettere in questione l’istanza enunciativa stessa che sta alla loro base: diciamo pure una poesia lirica, senza giri di parole. Provo a spiegare ciò che penso a questo riguardo adottando il punto di vista non di uno scrittore, ma di un lettore: quando leggo un testo poetico, a me interessa che ciò che mi viene detto entri in risonanza – intellettuale ed emotiva, in questo ordine di valore e precedenza – con la mia esperienza di singolo vivente. Mi interessa che un testo, qualunque siano il suo contenuto, la sua forma e il suo stile, sia capace di farmi capire meglio come vanno le cose (se è vero che la poesia, come scriveva Auden, ha il compito residuale di distruggere le illusioni e di dire la verità) e di farmi intravedere una rotta possibile che non intravedevo. Se un testo fa questo (che non è affatto poco), il modo in cui lo fa, i codici che usa per innescare i suoi effetti per me passano in secondo piano (a meno che siano codici predeterminati e rigidi, come dirò tra un istante). Questo vuol dire, per prevenire un’obiezione, che tutte le poesie sono belle, giustificabili? Certamente no, perché se un testo punta solo a confermare una visione del mondo, una tesi, un modo di essere, di sentire e di parlare, allora non mi insegna nulla, non aggiunge nulla a quanto già so, e se Kundera molti anni fa poteva scrivere che «la conoscenza è la sola morale del romanzo»(3), io aggiungerei serenamente che lo è anche della poesia (la conoscenza o naturalmente la messa in discussione della, di una conoscenza).
Ora, per produrre un effetto negativo, per essere cioè ridondante e sostanzialmente inutile o epigonico, un testo non deve essere necessariamente lirico, come i più agguerriti teorici “di ricerca” (e prima neoavanguardisti) amano ripetere: basta che aderisca in modo inerte a un codice, a una grammatica, sia pure quella – anch’essa in fin dei conti codificabile(4) – della poesia di ricerca. È possibile allora scrivere una lirica (cioè una poesia in cui qualcuno dice io e comunica qualcosa su di sé, sugli altri, sul mondo) in cui chi legge si riconosca senza però essere esaltato, perdonato, consolato o stordito? Sì, è possibile, se quando leggo una poesia di Fabio Pusterla o di Paolo Maccari o di Kate Clanchy – per evocare solo alcuni nomi vicini – la sensazione che mi resta è quella di uno scacco, di un’imperfezione, di un dissidio, di un desiderio (anche politico, certo) di essere diverso da come sono e diversi da come siamo.
Entro ora in una classe, per la seconda questione, in una gabbia dello zoo di cui parlavo in apertura. Cosa posso fare con la poesia davanti a venti o venticinque adolescenti che spesso mi dicono, all’inizio, che la poesia li annoia, è inutile, dice cose ininteressanti? Posso provare a smentirli, semplicemente dando voce ai testi e cercando di far emergere, da lì dentro, quel desiderio, quel dissidio (ma anche quella «positività» e quel «valore del mondo» che Franco Fortini raccomandava di difendere anche in tempi negativi(5)) che i grandi testi veicolano o comunicano, in modi spesso inimitabili e singolari. A chi crede che questo sia un atteggiamento qualunquistico, e che i risultati dell’arte non possano essere misurati dalla reazione di un gruppo di giovani lettori più o meno sfigati, potrei ribattere in modo pragmatico che se i poeti hanno una minima possibilità di difendere o riconquistare un pubblico a cui parlare, è proprio dentro un’aula di una scuola superiore che possono sperare di cominciare a farlo, come diversi di noi (noi scriventi, dico) ricordano bene dalle loro esperienze di quel tempo (con buona pace del Poeta anarcoide di turno).
Quando porgo un testo poetico a una classe, io sento che quel testo agisce se dà da pensare: e un testo poetico dà da pensare, nel modo intenso e proprio della poesia, se buca il foglio, se le sue parole si congiungono a quelle dei lettori, le sobillano, le irritano, le risvegliano. Attraverso la testualità (il ritmo, la musicalità, il significato o l’assenza di significato), la poesia consegue qualcosa che non riguarda più solo le parole, ma il modo di stare al mondo, di pensare, di desiderare. Chiedersi con quali mezzi una poesia arrivi a fare questo (ammesso che qualche volta ci arrivi), significa formulare una domanda che riguarda il codice, il galateo, più che la natura e la funzione della poesia. Voglio dire che tanto un testo di Montale quanto uno di Sanguineti possono togliere il velo di opacità che appanna la vista, il pensiero e la lingua; che se un testo nasce come risultato necessario di un’idea di forma che produce un’idea di contenuto (o viceversa, poco importa, perché le due idee secondo me esistono solo in relazione), e se queste due idee fanno
attrito con il mondo e con noi stessi, quel testo è avvertito come «bello», «forte», «importante», a
prescindere dalla poetica, dalle intenzioni e dalla volontà dell’autore (e su come il «potere di negazione» di un’opera sia destinato a sfuggire alla volontà dell’autore ha speso parole chiare e per me definitive Franco Fortini in Avanguardia e mediazione(6)). Per questo ho sempre pensato che parlare di poetica, specie in classe, sia del tutto inutile, oltre che noioso, e che il solo modo di fare agire la poesia sia leggerla, metterla alla prova. Certo, il contesto storico-letterario e politico entro cui un testo nasce non può e non deve essere ignorato (e io non lo ignoro, da lettore e da insegnante, perché non credo in nient’altro che nella storia umana), ma anche quando si capisce che un testo nasce da un pensiero politico e dalle scelte estetiche che ne conseguono, quel testo funziona (anche in modo politico) solo se sa vivere di vita propria e in modo imprevedibile rispetto alla poetica e al tempo dell’autore. E per vivere di vita propria dev’essere, semplicemente, una bella poesia (senza che questo aggettivo implichi particolari connotazioni: può essere bello anche il brutto, come sapevano i romantici, prima di tutti).
Concludo: mi accorgo che, per provare a dire qual è la funzione della poesia (ho volutamente schivato il titolo adorniano Lirica e società), ho dovuto parlare della mia esperienza personale di lettore e di insegnante, e che molte cose si dovrebbero e potrebbero dire meglio di come ho fatto velocemente io. Ma da qualche tempo i discorsi generali sulla poesia mi sembrano una superfetazione incomprensibile, quando restano vaghi o replicano posture militanti nostalgiche e fuori tempo massimo. Forse se provassimo a ridare un po’ di peso all’esperienza, accorgendoci della nostra marginalità assoluta e superando il complesso del folletto e dello gnomo (ai quali il mondo, nell’operetta di Leopardi, sembra fatto a loro immagine e consumo), potremmo vedere un po’ meglio le dimensioni della nostra gabbia, ma anche l’attenzione che qualche visitatore ci concede. A loro più che a noi stessi dovremmo dire, con i nostri testi e la nostra postura, che la poesia ha ancora un senso e una necessità, e che forse anche loro possono trovarci qualcosa che non sapevano di desiderare o di cercare.
Note.
(1) G. Mazzoni, Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia, «Le parole e le cose»,
http://www.leparoleelecose.it/?p=30321.
(2) M. Gezzi, La poetica che si può dire, «L’Ulisse», 18, pp. 55-59.
(3) M. Kundera, La denigrata eredità di Cervantes, in L’arte del romanzo, Adelphi, Milano 1988, p. 18.
(4) P. Zublena, Come dissemina il senso la poesia “di ricerca”, «Treccani.it»,
http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/poeti/zublena.html.
(5) F. Fortini, Avanguardia e mediazione, in Verifica dei poteri (1965), ora in Saggi ed epigrammi, Mondadori, I Meridiani, Milano 2003, p. 101.