Il titolo che ho proposto per il mio intervento è “Oltre il pubblico, oltre il politico” con il punto di domanda. Si tratta chiaramente di una domanda retorica e la risposta è no, oltre il politico, anche per la letteratura, non si riesce ad andare e, francamente, mi sembra un bene. Però è anche vero che la relazione tra letteratura e politica si stia abbastanza complicando e questo, sicuramente, capita in funzione di una trasformazione della dimensione del pubblico.
In genere, quando mi pongo il problema “letteratura e politica” o “poesia e politica” mi focalizzo soprattutto su una tensione (se non addirittura una contraddizione) tra la natura, diciamo, più o meno politica del prodotto estetico “letteratura” e lo spazio, l’agibilità che la letteratura ha per esercitare questa sua dimensione politica.
Per quel che riguarda la natura politica della letteratura, parto dall’idea che ogni prodotto estetico, quindi anche la letteratura, proprio perché estetico, è politico. In altri termini, parto dalla posizione di Jacques Rancière, rispetto alla politica della letteratura. Per conto mio, un testo letterario è politico non tanto perché parla di alcuni argomenti o è all’interno di alcune strategie con intenzioni più o meno scopertamente propagandistiche o di lavoro di ideologia ma perché, come tale, individua dei soggetti a scapito di altri soggetti, individua per questi soggetti alcuni attributi al posto di altri, individua delle possibili relazioni e delle impossibili relazioni. In buona sostanza, quello che fa un testo letterario, per come mi sembra di poter vedere la cosa, fa quindi un progetto di percezione. Di percezione del mondo e quindi anche di percezione della comunità e delle regole secondo cui ci possiamo muovere in quella stessa comunità. È in questo senso il prodotto estetico è essenzialmente politico.
Non credo, dicendo ciò, di individuare una qualche novità particolarmente scandalosa e prenderei questo aspetto proprio come assunto. Mi rendo conto, chiaramente, che come assunto può essere messo in discussione. C’è chi, e secondo me del tutto correttamente e rispetto alla cui posizione sono completamente d’accordo, rivendica un’autonomia del gesto estetico.
Sono d’accordo perché alla base della produzione estetica c’è una dimensione di arbitrarietà, di libertà, di irriducibilità alle vicende della comunità in cui il gesto estetico si produce che, appunto, mi fa dire “è vero”. Rimano il fatto che, nel momento in cui produco questo oggetto estetico, che sia il romanzo, la poesia, l’opera teatrale o quant’altro, non posso scappare da questo meccanismo, da questo ordinamento che scatta automaticamente.
Da una parte, quindi c’è questa natura essenzialmente politica della letteratura, che costituisce un corno della questione. L’altro corno con cui si crea tensione e, credo, oggi, una contraddizione estremamente forte, è invece la modalità secondo cui la dimensione politica della letteratura può agire sulla comunità.
Ecco, quando parliamo di dimensione politica della letteratura e della sua modalità di esplicazione credo che tutti (io sicuramente) abbiamo in testa uno schema ben definito. Uno schema sul modello tripartito emittente-messaggio-ricevente che prevede l’autore, ovvero una figura legittimata da alcuni crismi che ne isolano la voce rispetto alla continua produzione di discorsi, che fa un discorso ovvero, appunto, produce e pubblica un’opera. Quest’opera, a sua volta, presenta una serie di caratteristiche, essenzialmente formali ma anche di contenuto (non mi addentro ora in questa cosa), e si rivolge a un pubblico. Un pubblico identificabile in un insieme di soggetti specializzato, per così dire, nella fruizione.
Ovviamente questi ruoli hanno una loro ambiguità, una loro libertà e fluidità. Però credo che tutti abbiamo in testa uno schema rigido come questo appena illustrato. Uno schema che inizia a prendere forma più o meno nel XVIII secolo e che però ha il suo grandissimo periodo nel corso dell’Ottocento. Penso sempre, in questi casi, alle “Illusioni perdute” di Balzac, tutta la ricostruzione che vi si trova del dibattito classicisti-romantici e come viene data una lettura di questo dibattito di scuole anche come dibattito di partiti e anche come uno scontro di gruppi di interesse concreti. Ma gli esempi sono tantissimi: il J’Accuse, il ragionamento che fa Gramsci sul romanzo popolare e la
creazione di una sensibilità democratica di un certo tipo, eccetera eccetera. Questo è la grande stagione ed il sostegno ancora oggi di questo schema che abbiamo tutti in testa.
Sappiamo benissimo, però, che questo schema già con il Novecento, cioè già con la diffusione di alcuni nuovi prodotti estetici (sto pensando al primo cinema muto, al fumetto e così via) viene messo in crisi in modo abbastanza significativo. Se l’impianto rimane, perché comunque il modello della diffusione e, diciamo, l’industria culturale soggiacente, è ancora quello del broadcasting, quindi poche fonti che riescono a genere una diffusione molto ampia dei contenuti, rispetto appunto a una popolazione più o meno segmentata, più o meno targetizzata ma, comunque, un pubblico, se lo schema, dicevamo, rimane in piedi sicuramente la letteratura non è più la favorita, viene sostituita da altri. Già dell’inizio del Novecento, come dicevo, e nel secondo Novecento in modo quasi rovinoso, per cui l’agenzia formativa letteratura viene sostituita dalla televisione, dalla musica pop, dalla moda, dai videogiochi, da tutta una serie di prodotti che scalzano la letteratura dalla posizione centrale nello schema detto.
E fin qui, diciamo, tutto bene.
La mia impressione, però, ed è un po’ questo il punto che vuole cogliere il titolo dell’intervento, è che, in effetti, se questo schema manteneva una sua natura reale seppur fantasmatica fino a vent’anni fa, è stato completamente obliterato da un ulteriore sviluppo dell’industria culturale, dell’industria dell’intrattenimento. Questo sviluppo ulteriore, di crisi, di trasformazione, l’ho identificato con “il passaggio alla rete” ovvero la diffusione di internet, la diffusione della computazione in mobilità, la diffusione dell’elaborazione distribuita. La riformulazione, cioè, dell’infrastruttura di distribuzione dei contenuti (scusate i termini tecnici ma, forse, sono quelli che più chiariscono il ragionamento che vorrei proporre) da un modello di broadcasting a un modello point to point, a rete, con reti intessute in altre reti e così via.
Qui chiaramente il discorso si farebbe estremamente lungo, complesso e potrei probabilmente gestirlo fino a un certo punto. Mi limito a segnalare alcuni elementi che, secondo me, sono significativi e possono sostenere la tesi implicita nel titolo che proponevo.
Parto da qui. Una delle caratteristiche di questo nuovo modello sono, tra le altre, la centralità del cosiddetto user-generated content cioè il contenuto generato dall’utente che, in buona sostanza, è qualunque cosa noi facciamo in rete. Lo status su Facebook, il tweet su Twitter, il messaggio nel gruppo Whattsapp (elenco Whattsapp perché sembra una cosa “privata”, diversa dalle altre ma, in effetti, mi permetterà dopo di sottolineare un altro elemento), il video su YuoTube, e così via. Tutte queste cose, che vengono prodotte dall’utente connesso, che vengono distribuite e scambiate all’interno delle varie piattaforme, dei vari social network, blog e quant’altro (anche se ormai i blog sono un’altra stagione), sono user-generated content.
La centralità di questo oggetto cambia parecchio gli equilibri del gioco o, almeno, questa è la mia impressione. Per almeno due motivi. Uno perché questo user-generated content non richiede tratti formali, non richiede perizie tecniche, non richiede una serie di elementi che, a monte, avrebbero legittimato la sua produzione e chi lo produce. Questo aspetto va sottolineato con forza perché direi è dirompente rispetto alla nostra idea di che cos’è la cultura, di che cos’è la letteratura: noi arriviamo a valle di secoli di definizione della letteratura come un saper fare certe cose con le parole. Negli effetti, mi sembra di poter dire che invece qui ci misuriamo con uno scenario radicalmente diverso.
Lo user-generated content incide su quella figura che dicevamo, nello schema di partenza, dell’autore come soggetto legittimato a “buttare fuori” contenuti verso un dato pubblico. Come viene toccato l’autore, però, da un prodotto di questo tipo, viene toccata anche l’altra parte, cioè il pubblico. La figura che si costituisce, infatti, è quella del fruitore-produttore. D’altronde, in questa partita di scambi di contenuti generati dall’utente, che è legittimato in quanto utente connesso, chi è che fa la parte del pubblico? Nessuno. Nessuno si trova a fare questa parte perché tutti, comunque, continuano a giocare una partita di scambio: non c’è un emittente, un messaggio e un ricevente.
Per altro, la identificabilità stessa del contenuto diventa complicata, nel momento in cui la poesia piuttosto che il testo di prosa vengono “derubricati” a contenuto e perdono alcune segni di contesto che concorrevano a comporre l’identità.
Non credo ci sia un abbassamento di qualità, non credo sia in corso un livellamento verso il basso. Credo sia in corso un cambio di sostanza, di paradigma. Quindi uso derubricato tra virgolette. E qui chiudo la questione dello user-generated content.
Passo all’altro elemento che, secondo me, smonta quello schema che dicevo all’inizio ed è la nozione di comunità, di comunità on line, che ha una sua natura particolare e che è quella che illustravo prima: una natura di scambio. La comunità on line è essenzialmente una serie di connessione in cui i contenuti vengono circuitati e i ruoli non sono distribuiti.
Potremmo avere in mente, quando parliamo di pubblico, per esempio, l’immagine di una sala cinematografica dove le persone sono sedute sulle loro poltroncine, e sono il pubblico e guardano verso lo schermo, verso quello che, in questo schema, è un fuori, una finestra da cui arriva una storia, da cui arrivano immagini, arrivano delle sequenze di eventi. Quello è il pubblico: seduto che guarda. Ecco, nel caso della comunità on line, lo scenario in cui dobbiamo muoverci è una sala di tutt’altro tipo: è un posto dove molte persone vanno avanti e indietro, stanno sedute, si alzano, camminano, si danno dei token, degli oggetti, delle tesserine (un’immagine abbastanza borgesiana, in effetti). Non c’è più la passività, chiamiamola così, del fruitore. E di nuovo questo è abbastanza dirompente rispetto al nostro modello, perché in determinati giochi le regole devono essere mantenute perché altrimenti il gioco non c’è più.
La questione del pubblico, però, secondo me non si riduce solo a questo. Ci anche altri due elementi da evidenziare e, con questi, chiudo l’intervento.
Noi parliamo di pubblico e abbiamo in mente le persone sedute nella sala cinematografica e va bene. Parliamo di pubblico, però, anche come dimensione pubblica, contrapposta al privato, la dimensione privata. E anche questo viene abbastanza complicato, oggi, dalle nuove modalità di fruizione o, piuttosto, produzione e scambio.
Riprendo l’esempio, che facevo prima, del gruppo Whattsapp: che tipo di spazio è un gruppo Whattsapp, un gruppo Telegram? Si tratta di uno spazio ambiguo dal punto di vista di separazione tra spazio pubblico e spazio privato. E, anche se la scala può essere diversa, pure il nostro commento su Facebook vive questa ambiguità. E scardinare la differenza tra pubblico e privato chiaramente, dal mio punto di vista, è un argomento ulteriore a favore della tesi che sto sostenendo. Qui vado a riprendere un’immagine benjaminiana che ho già usato. Parlando dei “passages” Benjamin dice, in buona sostanza, dice che il cittadino privato, che si costituisce come tale nell’Ottocento, in qualche modo fa violenza sullo spazio urbano trasformando quelli che sono spazi pubblici, ovvero i “passages”, in interni. Ricostruisce in quegli spazi l’interno che gli è caro, che considera come luogo suo, luogo in cui riesce a esprimersi nella sua pienezza. Ecco, in questo momento ci troviamo in una situazione analoga ma ribaltata: anche se non in modo così deciso, in effetti, il privato è invaso dal pubblico che però, a questo punto, che pubblico è? Che dimensione pubblica è?
L’ultimo elemento che voglio sottolineare è un altro aspetto sottilmente paradossale ma che, forse, è una delle cose più affascinanti e colme di conseguenze, almeno per quel mi sembra di poter dire, rispetto al passaggio alla rete.
È la questione dell’asincronia: non della-staccato-sicronia ma della asincronia. Nel nostro ragionamento di partenza, nel nostro schema iniziale (autore, prodotto, pubblico) le cose reggono sul presupposto che tutti viviamo la stessa linea temporale. Attenzione perché è un presupposto non da poco in questa vicenda. Se vogliamo declinare la questione della politicità nei termini della partecipazione diretta al dibattito dobbiamo necessariamente essere tutti partecipi della stessa vicenda storica. Tutti dobbiamo poter dire: la storia oggi è a questo punto; gli argomenti di fronte cui ci mette sono questi e questi altri.
On line la cosa non è così immediata. Credo, al contrario, che si possa dire che l’on line è, all’opposto, costituito da tante contemporaneità concorrenti, contigue, più o meno sovrapposte, schizofrenicamente intrecciate ma distinte.
E su questo chiudo con un aneddoto che credo illustri abbastanza bene la cosa. Un anno fa circa, seguendo il Twitter dell’Einaudi, leggo che il redattore che lo cura, giustamente scandalizzato ma anche con gusto abbastanza compiaciuto e sarcastico, segnala come, a fronte di una citazione di Primo Levi pubblicati tempo prima, si erano scatenati dei commenti e degli interventi come possiamo immaginare siano oggi, a fronte dello stato dell’arte dei commenti on line, ma che, soprattutto, pigliavano Levi come vivente e in mezzo a noi.
In effetti questa vicenda è ridicola. Tuttavia, quello che sfuggiva al redattore dell’Einaudi era che questa cosa è il vero oggetto su cui ragionare. Chi si interfacciava con quel tweet, con quella citazione da Levi, si interfacciava in termini di presente. La lettura generava una sua contemporaneità e, per chi andava a insultare il povero Levi, Levi era l’oggi, era il suo oggi, magari non il nostro ma lo stesso corrente.
È evidente come anche questo elemento, nello schema di partenza della capacità di esplicazione della propria natura politica da parte della letteratura, complichi parecchio le cose.
Post scriptum: ho parlato solo di on line e mi rendo conto benissimo che si può dire “va bene però il mondo continua oltre, anzi prima, dello schermo del cellulare o del computer”. Attenzione: siamo miliardi collegati alla rete. L’effetto sulle nostra aspettative, sui nostri modi di fruizione, sulle nostre idee del mondo si risente comunque, anche una volta spento il telefono.