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IL SIGNIFICATO DELLA FORMA NELL’ELABORAZIONE DI UNA SOGGETTIVITÀ CRITICA: PROPOSTE E APORIE TEORICHE A PARTIRE DA FRANCO FORTINI

Nel documento Una scettica confessione (pagine 129-145)

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IL SIGNIFICATO DELLA FORMA NELL’ELABORAZIONE DI UNA SOGGETTIVITÀ CRITICA: PROPOSTE E APORIE TEORICHE A PARTIRE DA FRANCO FORTINI

1. Chiamato a rispondere alla domanda «che cos’è il comunismo?» in un momento in cui i comunismi d’Europa stavano per dissolversi, Fortini compilava su «Cuore», supplemento satirico de «l’Unità», un breve testo a carattere enciclopedico che, in maniera del tutto controllata, mirava ad assumere un tono stridente rispetto ai contenuti dell’inserto(1). La risposta si inseriva all’interno di un progetto politico preciso, indirizzato a intervenire sulla comunicazione e a contestualizzare termini che la narrativa mainstream aveva strategicamente eliminato dall’orizzonte comune dell’esistere. Insistenze, insomma, calate nel dato attuale del presente e inscindibili da una prassi contrapposta alla falsa pacificazione dei conflitti.

I limiti delle quaranta righe previsti dalla redazione per il pezzo (che diventeranno ottanta, nella versione finale) vengono intesi da Fortini come una «scommessa metrica»(2): un’impalcatura rigida che avrebbe portato a produrre nel testo una densità ellittica in grado di caricare la scrittura di quella apertura figurale caratteristica dell’ultima produzione poetica e saggistica dell’autore. L’allusione alla struttura metrica contribuisce in effetti ad alimentare un contraccolpo straniante nel breve testo che, in virtù di un insieme di tensioni formali e di elementi retorici, sembrerebbe quasi alludere a un componimento poetico ancora da scrivere, come se Il comunismo fosse di questo un canovaccio o un cartone preparatorio (senza con questo voler stabilire un rapporto di subordinazione tra poesia e prosa).

In un articolo apparso nel precedente numero de «L’Ulisse», Paolo Jachia ha insistito non a caso sul carattere peculiare della breve prosa fortiniana, interpretando il riferimento alla «scommessa metrica» come spia utilizzata da Fortini per rendere esplicito, «sia pure con la lieve ironia tipica sua, ciò che quel testo è realmente: un breve “poemetto in prosa”, di provabile ascendenza formale vociana, in serio equilibrio dunque tra eticità, politicità e liricità»(3). Nel solco della riflessione impostata da Jachia sul legame tra Il comunismo (1989) e la «dialettica figurale», vorrei di seguito interrogare il significato della forma nella riflessione estetica di Fortini, in relazione al suo contenuto storico, politico e sociale. Cercherò nello specifico di estrapolare, dal discorso fortiniano, elementi utili per interpretare il conflitto tra dominanti e dominati alla luce di differenti terreni della lotta, tenendo conto, sullo sfondo, della parziale integrazione del discorso marxista (dialetticamente mediato con la critica alle molteplici modalità di assoggettamento), senza tuttavia trascurare le tensioni strutturali di una realtà materiale, organizzata secondo precisi meccanismi di dominio, atti a garantire un’egemonia del privilegio fondata su ulteriori sistemi di oppressione contro gruppi sociali e forme di vita minoritarie.

Partirò dal già citato testo Il comunismo per esaminare alcuni nuclei teorici formulati da Fortini negli anni precedenti, situabili come vettori di un discorso ricco di piegature da interpretare e da sciogliere alla luce del «gioco di inveramento del presente nel passato e nel futuro»(4) della dialettica figurale. Un discorso che caratterizza, secondo l’autore, l’opera poetica nella sua

conclusione, in una paradossale apertura verso un futuro da formare(5). Considero tale carattere aperto-chiuso della forma estetica in accordo con la concezione fortiniana dell’opera di poesia,

ovvero alla sua capacità di porsi di fronte al lettore-fruitore senza apparentemente chiedere nulla, «educando a rilevare e ordinare il mondo secondo moduli suoi propri, con una continua “proposta di essere” che chiama la trasformazione»(6) (corollario di questo processo sarà, come vedremo, il legame tra valore della forma e pedagogia dell’opera poetica, secondo l’adagio schilleriano di un’educazione non all’arte ma mediante l’arte). La trasformazione evocata da Fortini, come gioco di inveramento nella forma e per mezzo della forma, verrà inoltre confrontata, in filigrana, con la più ampia e generale definizione di comunismo restituita da Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca: non «uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi», quanto piuttosto «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»(7).

2. Come ha rilevato Jachia, nella risposta a Che cos’è il comunismo? si registra un movimento discorsivo che permette di superare la strutturale antitesi tra verso e prosa. Un superamento di fatto suggerito da Fortini all’altezza de L’ordine e il disordine, testo conclusivo di Questo muro (1973), epigrafe introduttiva di Paesaggio con serpente (1984) e corpo della voce «Dialettica» nella raccolta Non solo oggi: cinquantanove voci (1991)(8). La dimensione “ermetica” di Che cos’è il

comunismo (di un “ermetismo” molto prossimo a un programma provocatoriamente delineato a

conclusione di Astuti come colombe)(9) costringe a interpretare criticamente alcuni punti della risposta, che di seguito farò reagire con i testi di due conferenze pronunciate dall’autore negli anni Ottanta, utili a stabilire direzioni di lavoro e modelli di un discorso orientato alla comprensione di un conflitto politico e sociale inverato nella forma. Mi riferisco a due interventi discussi qualche anno prima della breve prosa apparsa su «Cuore»: il primo, Opus servile, presentato alla Harvard University l’11 novembre 1987 e in seguito pubblicato su «Allegoria», nello stesso momento in cui Fortini formula la sua risposta a Che cos’è il comunismo?(10); il secondo, Psicanalisi e lotte

sociali, letto il 24 settembre 1986 a Trieste nel corso del convegno di studi «La pratica terapeutica»,

organizzato dall’Associazione triveneta di psichiatria democratica e dall’Associazione culturale Franco Basaglia.

A partire da questa triangolazione testuale, cercherò di sollecitare alcune questioni centrali per l’elaborazione di una teoria e di una pratica della lettura (e della scrittura), criticamente cosciente dei meccanismi di dominazione storica e sociale coagulati attorno al testo, nel suo rapporto dialettico con gli elementi extratestuali, o, per meglio dire, contestuali. Utilizzo di seguito il termine «contesto» non già nel senso esclusivamente linguistico di «situazione del discorso», ma come «insieme delle condizioni, azioni e funzioni psicologiche, sociologiche, storiche e antropologiche dei testi letterari»(11). Le domande che intendo sollevare possono così essere formulate: è possibile ricavare da questi ultimi testi fortiniani una riflessione tra scrittura poetica e contesto, utile a orientare una teoria e una pratica della letteratura posta all’interno di un conflitto dialettico tra soggettività (o, per meglio dire, tra processi di soggettivazione) e realtà materiale? In che modo la riflessione fortiniana sugli elementi formali dell’opera poetica è in grado di suggerire direttive critiche per delineare lo spazio che il soggetto occupa nella produzione materiale dei discorsi e il suo rapporto con una prassi votata all’emancipazione e alla lotta contro il privilegio? È possibile, inoltre, ricavare una riflessione sul – e a partire dal – testo poetico che permetta di individuare, in uno stretto rapporto di reciprocità osmotica tra elementi testuali e contestuali, i rapporti di forza che intervengono nei processi di formazione e di soggettivazione? E infine, in che misura è possibile attualizzare l’omologia tendenziale di un «uso formale della vita» e un «uso letterario della lingua», nei termini impostati da Fortini nel saggio di Verifica dei poteri sul «mandato degli scrittori e la fine dell’antifascismo»?

Preciso fin da subito che in Fortini il discorso sulla soggettività non può essere scisso da una critica

totale dei rapporti sociali e dei processi materiali (economici e politici) che strutturano la realtà, dei

nessi che costituiscono «lo stato di cose presente». È raro in effetti trovare, nella sua riflessione sulla forma, un’elaborazione particolare della soggettività come rivendicazione assoluta dell’io. A conferma di questa indicazione, basterebbe sfogliare le pagine di Profezie e realtà del nostro secolo (1965), l’antologia di testi di autori quali Sartre, Fanon, Baldwin, Foucault ecc. che formulano una critica radicale ai sistemi di oppressione, e che diventano per Fortini parte di un armamentario teorico da schierare, in accordo a un pensiero ancorato sulla dialettica tra i rapporti di forza che informano la realtà e le istanze particolari di contestazione, differentemente declinati nel terreno di ogni singola lotta (si veda in particolare la parte terza, intitolata L’uomo e gli uomini)(12). Si tratta di un volume sul quale bisognerebbe certo tornare a discutere, e che costringe a ripensare il rapporto tra l’universo intellettuale del dopoguerra e gli attuali indirizzi di ricerca della composita galassia dei cultural studies.

Anteponendo all’autore una distanza che sembra a tratti sfiorare il tradimento(13), mi limiterò quindi a estrapolare, dai testi citati in apertura, alcuni punti programmatrici da verificare in un dibattito imperniato sul «doppio flusso di cause e di effetti» tra forma politica e forma estetica. Un

dibattito che va inoltre ascritto all’interno di una cornice epistemologica che riconosca la

contraddizione come principio guida di una concezione figurale che in Fortini, come vedremo, ha

molto a che vedere con le potenzialità espressive e conoscitive del discorso poetico(14).

Prima di proseguire, è doveroso svolgere a margine alcune precisazioni sul significato della poesia all’interno delle ideologie letterarie, delle istituzioni culturali e delle trasformazioni storiche, politiche e sociali nel periodo storico in cui i testi poco sopra elencati si collocano.

3. Gli ultimi decenni della vita di Fortini segnano un mutamento radicale nella visione dei rapporti tra scrittura poetica e attività politica. In un’intervista del 1981, l’autore prendeva le distanze dalla persuasione (da lui del resto condivisa nella prima metà della sua vita) che la parola scritta della poesia potesse e dovesse qualcosa contro quella che egli chiamava allora «la trionfale organizzazione delle carogne»: «oggi non lo credo» – proseguiva – «altre debbono oggi essere le armi. Non necessariamente da fuoco. Ma armi. Anche di parole, dunque. Ma non necessariamente di poesia»(15). Nella sua parziale palinodia, Fortini torna a discutere alcune affermazioni espresse in una prosa del 1958, collocata nel risvolto di copertina dell’antologia di Una volta per sempre (1978) e redatta in un momento storico in cui era ancora possibile credere, pur nella piena consapevolezza dell’errore, alla verità di alcune poche poesie, perché ogni loro verso, pur portando il segno della contraddizione, riusciva ancora a inserirsi nella «natura cerimoniale dello scrivere, così rispettoso di ogni possibile istituzione retorica, così ben difeso dalla confusione delle categorie»(16). Un componimento di Composita solvantur marca la frattura tra i due momenti, rappresentata allegoricamente nell’antitesi tra il tarlo dell’omonimo componimento di Poesia e

errore, che corrode con pazienza il «cuore del legno morto»(17), e i «ragni esili», che adesso

pendono nella stessa stanza di Milano:

Sono nella stanza dove tutto è ordinato dove tutto è settembre.

Sul davanzale si agitano, avvisate dei mutamenti celesti, le formiche. Nessuna melodia nasconda qui una severità modesta

la sola che non disconviene. Assonanze! Le vostre ragioni quando la notte è senza movimento dal fondo dei legni le odo.

Ma il tarlo che rodeva non c’è più ma immaginari i cigolii.

Voi nei sistemi strani che le disperazioni levano dentro il folto arduo del mondo e ora nella stanza calma

dell’antenato che sono o divengo immobili indifesi

ragni esili pendete.(18)

Sul piano contestuale (e dunque psicologico, sociologico, storico e antropologico), gli inizi degli anni Ottanta sono segnati dalla dispersione della cerimonialità e della comunità, ora assorbite e diversamente formalizzate da una forza che ridefinisce i rapporti simbolici e materiali, che parcellizza il tempo e lo spazio, restituendo una serie di individualità apparentemente svincolate da una forma collettiva. Sul piano della riflessione poetica, Fortini trova infatti più faticoso riconoscere, nelle forme letterarie contemporanee, il compito di veicolare un sistema di significati, almeno secondo il concetto lausberghiano di «ri-uso» (evocato alla voce «Letteratura» redatta alla fine degli anni Settanta per l’Enciclopedia Einaudi), che permette di «ripensare il rapporto fra rito,

magia e letteratura»(19). Di fronte a un imponente mutamento dei rapporti tra tempo e durata, tra forme di vita e forme di scrittura, Fortini invitava a ripensare a un combattimento di retroguardia volto a intervenire sui costumi e sui consumi, sull’educazione e sulla comunicazione, dal momento che, nella realtà contemporanea dell’industria culturale (editoriale, ma anche accademica), «più che di “riùso” bisognerebbe parlare di “préuso”; di qualcosa che gode di privilegio e prestigio prima che si strappi la fascetta o si laceri l’involucro di plastica»(20).

D’altra parte, come spesso accade lungo la sua traiettoria biografica, nel momento in cui formula la più estrema rinuncia alla poesia, Fortini è in grado di riaffermare il valore pedagogico e formativo dell’opera, pur mantenendo ferma la natura ambivalente del prodotto estetico (la sua capacità di veicolare un messaggio utopico-liberatorio e di restituire, al contempo, un effetto conciliatorio-reazionario, di pacificazione per il lettore che fruisce l’opera). Lo aveva già fatto in Verifica dei

poteri (1965), i cui saggi erano volti ad affermare, cadute le concrete istanze rivoluzionarie e

rifiutati i dogmi della nuova società, non altro che la difesa ultima della poesia(21). Posto di fronte all’invito a rinunciare a tutto ciò che non fosse necessario per la lotta di classe – «la bellezza, la consolazione, la speranza, il dolore, il piacere, debbono essere cancellati dal nostro orizzonte», obiettava un giovane Asor Rosa(22) –, Fortini tornava sulle proprie posizioni nella prefazione alla seconda edizione di Verifica dei poteri (1969), per insistere su un punto fondamentale della sua

forma mentis, quasi una sorta di professione di una “teologia negativa”: solo a patto di rinunciare a tutto è possibile non rinunciare a nulla.

Malgrado dunque la costante resistenza nei confronti di un’espressione poetica svincolata da un’azione dialettica sul mondo, la poesia non viene mai del tutto rimossa dall’universo simbolico fortiniano, mai definitivamente esclusa dalla dimensione pratica dell’esistere. Essa viene al contrario impiegata come dispositivo atto a esprimere linguisticamente una dialettica figurale che esibisce a più riprese la contraddizione («La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi» sono i versi conclusivi del suo componimento più celebre)(23). A sostegno di questa esigenza, formulata nel momento in cui il grado di rinuncia è massimo, vale la pena ricordare un’intervista di Jachia del 1993 in cui Fortini espone, nella concisione tipica di un discorso condotto di fronte a un interlocutore che interpella sulla biografia dell’altro, il significato della «dialettica figurale», contigua al pensiero dialettico di stampo marxista. Secondo la concezione figurale:

gli elementi che compongono la realtà e la sua storia – a partire dalle nostre esistenze – sono figure di altre manifestazioni, passate, presenti, a venire, che non le simboleggiano ma le integrano e le inverano; e la possibilità di leggere simultaneamente e unitariamente sia l’oggetto che il suo prolungamento figurale assume che il principio di non contraddizione è solo parzialmente vigente ed è costantemente in tensione con quello di identità e superamento dei contrari.(24)

Elaborando questa formula, Fortini è consapevole di procedere per «sommari procedimenti di razionalizzazione»(25). Il tentativo di stabilire una continuità tra dialettica e figuralità porta a elaborazioni teoriche piuttosto “imprecise”; o meglio non del tutto traducibili né interpretabili per mezzo di un procedimento discorsivo fondato sul concetto. Malgrado le numerose prese di distanza, la poesia resta dunque uno dei discorsi che meglio si presta a restituire un ragionamento non interamente articolato sul principio di non contraddizione (quest’ultimo, in costante tensione con quello di identità e di superamento dei contrari), quanto piuttosto fondato sull’analogia come meccanismo di rivelazione dei nessi tra le parole e le cose, come «traccia passabilmente fedele di un’esistenza esperita»(26). In altri termini, la «verbalità poetica come ininterrotto dire altro da quel che il testo immobile sembra dire» sarebbe in grado di porsi come il «tipico strumento, ma tutt’altro che unico e privilegiato, della dialettica figurale»(27). Gli stessi elementi formali che compongono un testo poetico e le loro tensioni interne ed esterne rappresentano, di conseguenza, un momento di indagine particolare dei rapporti materiali del contesto. Il penultimo paragrafo della risposta fortiniana al comunismo conferma la necessità di stabilire il nesso tra la tensione organizzativa del

discorso, che tende a una forma avvenire, e la programmazione politica nel presente, riassunta come autocoscienza e lotta contro il dominio della forma:

Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza, fraternità e condivisione quanto quella di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa. La gestione individuale, di gruppo e internazionale, dell’esistenza (con i suoi insuperabili nessi di libertà e necessità, di certezza e rischio) implica la conoscenza delle frontiere della specie umana e quindi della sua infermità radicale (anche nel senso leopardiano). Quella umana è una specie che si definisce dalla capacità (o dalla speranza) di conoscere e dirigere se stessa e di avere pietà di sé. In essa, identificarsi con le miriadi scomparse e quelle non ancora nate è un atto di rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi; ed è allegoria e figura di coloro che saranno.(28)

Pur riconoscendo le potenzialità espressive del discorso poetico, Fortini rimane estremamente lucido nell’osservazione dei mutamenti operati al di fuori del testo, che condizionano la ricezione e la produzione dell’opera di poesia, e che dunque smascherano il supposto privilegio dell’attività artistica e della scrittura letteraria («perché non ricordare che nelle società occidentali e almeno dall’età omerica il letterario pertiene soprattutto, anche se non esclusivamente, all’agio, al decoro, al lusso, alla liberalità dei dominanti o al potere di scribi e sacerdoti?»)(29). Rispetto al periodo immediatamente successivo al dopoguerra, carico di speranze palingenetiche ancora veicolabili attraverso la forma poetica, l’insistenza fortiniana verso una lotta contro il privilegio muta adesso armi nella ritirata, pronta nondimeno a individuare nuovi percorsi, al fine di scongiurare la sottrazione della memoria e la gestione dell’oblio, mediante un accordo tra azione, scrittura e

figuralità.

Per combattere l’appiattimento dell’esistenza e delle relazioni come riflesso della privatizzazione neoliberista degli scambi simbolici, oltre che economici, rimaneva per Fortini indispensabile impostare una ferma demistificazione del carattere teologico della poesia, da estendere a tutti i livelli della forma. Diventava per questo necessario postulare una critica alla poesia come critica a

una certa idea egemone di poesia: «un’idea completamente sbagliata» – l’esclusiva riduzione della

poesia alla lirica – che immette i fruitori e i produttori in una prospettiva ristretta, diventati come «dei professionisti del fioretto, degli specialisti dell’essenza»(30). Parallelamente a questa operazione critica, Fortini invitava a riprendere in considerazione ciò che il decennio «sanguinario, feroce, sordo e ipocrita» degli anni Settanta aveva fatto detestare, ovvero l’azione politica:

Una via che è sempre non meno maestra né meno tremenda di quella della poesia, della scienza e della religione. […] Tramontate ormai le forme «politiche» della politica – ne sopravvive il fantasma nel sistema presente dei partiti e dei sindacati, tuttavia capace di guasti e peggio – già fin d’ora si vedono giovani che senza saperlo fanno la nuova politica. Una delle sue vie passa anche attraverso un ripensamento della lettura-scrittura, della letteratura e delle sue condizioni.(31)

Consapevole che un tale progetto dovesse essere considerato, più che inevitabile, doveroso, Fortini invitava a prendere coscienza della necessità di assumere le vittorie parziali come allegorie della «vittoria finale», che non ci sarà se non come «cuore e ragione delle singole vittorie parziali», nella piena coscienza che «ogni vittoria di una parte è sconfitta dell’altra; enigmatica condizione che fa godere allo sconfitto un suo oscuro privilegio»(32). Tale meccanismo di reciprocità di cause ed effetti, di vincitori e vinti, mette ancora una volta in luce un elemento significativo del suo discorso sulla forma, condotto entro gli schemi di una dialettica figurale da attivare sul terreno di ogni singola lotta:

Questi rovesciamenti paradossali (di cui vive, oltre tutto, il cristianesimo), questa dialettica dei possibili, non sono però, come per i mistici d’Oriente, fantasmagorie del desiderio e della morte; ma schemi costitutivi di realtà, appunto, possibili, di modi di relazione interumana ancora

inediti, che attendono la propria incarnazione. Noi li percepiamo, oggi, come pietrificanti paradossi; e invece la loro legge, come quella mosaica per Venanzio Fortunato, ne fa umbra futurorum, figura dell’avvenire. Come la necessità di una struttura metrica, quelle vittorie storiche che lottiamo per conseguire ci fanno (faranno) a un tempo prigionieri e liberi.(33)

Un ruolo centrale nell’elaborazione di un’antropologia orientata, in chiave anticapitalistica, alla potenziale abolizione dei sistemi di oppressione e di sfruttamento viene affidato alla pedagogia. 4. Non è un caso che Fortini scelga di inserire, come epigrafe alla sua risposta a Che cos’è il

comunismo, una citazione tratta dalla voce «comunismo» dell’Enciclopedia Garzanti, che insiste in

conclusione sull’importanza accordata all’«educazione comune, pubblica, di tutti gli individui»

Nel documento Una scettica confessione (pagine 129-145)