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LE PAROLE SI DÀNNO. TORNIAMO AI GIORNI DEL RISCHIO

Nel documento Una scettica confessione (pagine 63-68)

1. Antefatto

La lava travolge la ginestra.

Martoriati i più, disillusi, silenziosi e inattivi, si va.

Ma il poeta «è la parte dell’uomo refrattaria ai progetti prudenti»(1).

2. Un pezzo di monologo

«Sono preoccupato per quel che si compie su questa terra, nel torpore delle sue notti, sotto il suo sole da noi abbandonato. Con la tregua delle decisioni, si rinvia qualche agonia»(2). Sono parole del poeta francese René Char. Vengono da lontano, eppure si affacciano alla rupe del nostro oggi, con la medesima assoluta inflessibile necessità e urgenza d’azione di ieri. Da qui vorrei cominciare. È avendo nel cuore queste poche parole, così appropriate per descrivere anche la nostra epoca forsennata, che più non sa come chiamarsi dietro l’alto sipario delle sue stesse spine, avvinta nella continua pronuncia della fine di sé e di contro opulenta e cialtrona nell’affrontare la “questione della vita”, che proverò a mettere sul tavolo alcune delle riflessioni che hanno preso forma “sul campo” della mia ricerca poetica.

Si tratta di pensieri in marcia che nascono e si muovono dentro allo stesso movimento dei lavori (pochissimi), a cui in questi anni ho messo mano, e ai quali tutti sottostà un’unica plurale domanda: come trarre un mestolo d’acqua dalla sciagura e tenere aperta la porta sull’abisso, come non contribuire al discorso della fine, al gioco a chiudere anche della letteratura. E ancora. Come superare il frammentismo divenuto frammentitudine (attitudine alla frammentazione di ogni cosa), tenere insieme le parole per farne un popolo, “parlare la crisi” antropologica e non solo, scolpire il vuoto quale forma della materia e dello spazio-tempo, quel vuoto che ci abita, ci sopravanza, ci viene cucito addosso con relativi rimedi dal “mercato elettrico” pervasivo, persuasivo, falsificante. Infine, in forza di chissà quale fantasioso inventato mandato, assumere il carico della complessità delle relazioni in cui è immersa la vita di noi tutti, di contro le semplificazioni dominanti del discorso della Cultura e della Storia.

Lo dirò in tre parole.

Tre parole che, in intreccio sul baratro forsennato del nostro tempo a lacerti e schegge, stanno in una mano come palle di cannone. Tre parole.

Vita. Polis. Etica.

Le vediamo camminare sopraffatte, confuse, offese, come qualcosa che forse, nel passato, più facilmente ha regnato, qualcosa che non sa più, oggi, se temere, subire, cancellare, sfidare la modernità, servirla. Tre parole, come uno stelo d’erba che nonostante tutto non si spezza, un sentiero la cui forza è ancora quella delle gambe che la percorrono, a precisare, forse, i doveri del domani, a ricordarci che nessun fardello può essere sollevato senza l’aiuto del cuore. Tre parole.

Vita. Polis. Etica.

Tre parole che si legano ad altre parole per farsi domanda. 1. Quale rapporto intrattiene la poesia con la vita.

2. Quale rapporto intrattiene la poesia con la polis. 3. Quale rapporto intrattiene la poesia con l’etica.

Tre parole in forma di domanda che si fanno una domanda più grande.

Più di settanta anni fa Walter Benjamin introduceva il concetto di «fine dell’esperienza» per descrivere alcuni aspetti distruttivi della civiltà industriale e della società capitalistica(3). Come è noto, da qualche anno, questo concetto viene tirato per la coda sino alle sue estreme conseguenze per affermare grosso modo che, nell’epoca dell’industria delle immagini e della riduzione del mondo ad essa, il reale e l’immaginario si contaminano senza più alcuna separazione né distinzione, e che per tale ragione in questo flusso indistinto e ininterrotto, dove tutto scorre, si mescola con tutto, dissolti i contenuti e abrasi gli spigoli, è possibile esperire la vita (e la parola) solo più come “messa in scena”, spettacolo (osceno) di sé e degli altri.

«Viviamo, senza sentire il paese sotto di noi / i nostri discorsi non si sentono a dieci passi»(4), scriveva nel 1933 Osip Mandel’štam, nel suo celebre epigramma contro Stalin, il «montanaro del Cremlino», e qualche anno più tardi nel ’37, dal suo esilio forzato a Voronež: «In splendida miseria, nel lussuoso squallore / vivo solo – tranquillo e confortato – / Benedetti i giorni e le notti, / e l’innocente, soave voce del lavoro»(5). «Sottomesso a rassegnate radici», capace come pochi altri di stare «sulla terra / scomoda come la spina dorsale di un asino»(6), Mandel’štam ha vissuto come un parresiasta di fronte al «secolo cane-lupo», e fino al rischio estremo di perdere la vita, nella piena consapevolezza che non si esce dalle parole se non attraverso la parola, e l’esserci dell’uomo “miracolo grande” dipende soltanto dalla sua capacità di porsi tragicamente di fronte al problema della libertà.

Se la parola poetica è materia ed allo stesso tempo anima della lingua, e la poesia il mezzo attraverso il quale capire un po’ meglio come funziona il mondo esterno/interno, ed anche la solitudine senza la distanza dall’altro e dall’oltre sé, nell’affaccendarsi di tutti nel turismo dell’identità diffusa, della conoscenza e delle parole, allora, la poesia, è soprattutto un ethos, ossia un certo modo di abitare il mondo, e la polis, il luogo dove esperire quel modo di abitare il mondo.

«Il grande valore del presente – scrive Michel Foucault in “Che cos’è l’Illuminismo?” – è

indissociabile dall’accanimento con cui lo si immagina, con cui lo si immagina diversamente da come è e lo si trasforma, non per distruggerlo, ma per captarlo in quello che è»(7). E prosegue: «La modernità non è semplicemente una forma di rapporto con il presente; è anche un tipo di rapporto che bisogna stabilire con se stessi»(8). Se dunque il divenire dell’etica è possibile solo a partire da una interrogazione e da una problematizzazione del presente in cui si è inscritti, non si tratterà, allora, conformi alle leggi di superficie del linguaggio e del mercato, di fare esperienza di sé in relazione alla possibilità della narrazione di sé, piuttosto della circostanza di esistere – nonostante tutto – di e in quel tragico silenzio che il potere (delle parole) non ha ancora lacerato con la sua eloquente volgarità.

C’è un passaggio nella Critica della ragione dialettica di Jean-Paul Sartre, in cui l’autore sembra preannunciare il (dis)funzionamento ontologico/sociale in relazione al linguaggio dei media, quale lo conosciamo ed esperiamo quotidianamente noi oggi. «Le parole vivono della morte degli uomini, si uniscono attraverso questi; il senso di ogni frase che formo mi sfugge, mi viene rubato; ogni giorno e ogni parlatore altera per tutti i significati, gli altri vengono a cambiarmi fin nella mia bocca»(9). Affermazione che vale il calco doloroso del nostro tempo, dove le parole più non si

dànno perché solo si dicono, si scaraventano, scagliano già pronte, celebrate, arrangiate nella tasca

del mouse, nella memoria in cento quaranta caratteri (per grazia ricevuta, ora duecentottanta!) che è divenuto il nostro tascapane esistenziale. È l’attuale, ciò che stiamo diventando, in toto o per buona parte siamo già irreparabilmente divenuti.

Se davvero, «La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell’uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo ad offrirgli la sua immagine»(10), allora, a rischio di rimetterci le ossa nel parlare franco, non si propone un assalto, ma molto di più: una paziente fiduciosa immaginazione in armi per preservare una indisponibilità alla falsificazione della moneta, all’ordine e all’amministrazione differenziale della vita, per affermare, di contro, l’indispensabilità di tutte le vite, la necessità di uno spazio di tensione tra vitale e morale (anche in poesia); una volontà precisa di tirare «la corsa all’azione», sorvegliare lo sguardo poetico per ricucire, costruire ancora dei ligamen, un legame e un rapporto con il fuori, per diversamente agire,

parlare il mondo che si fa, disfa.

L’idea che propongo, lo riconosco, ben oltrepassa anche il concetto di resistenza. Nei mattini grigi di tolleranza per le afasie civili, il resistere non basta più. Occorre percepire il buio e interpellarlo, spalancare il fiato al vero, andare tra le sconnessure e le crepe del contemporaneo per capire qual è, e a che distanza si trova, la sorgente di luce che neppure si vede provenire da altrove.

Non bisogna temere di nominare le cose impossibili da descrivere.

3. Scena 1.

Pieno giorno. Basilica di S. Spirito in Firenze.

Il corpo architettonico è armonicamente scandito dalle pareti tramite il contrasto tra la grigia pietra serena e il biancore degli intonaci.

Sagrato. Sullo sfondo, accovacciati ai piedi del portone centrale della facciata, sparpagliati ma non troppo distanti fra loro, una puttana, tre ubriachi e un uomo in camicia che delira. Spiove. Ai piedi della scalinata della chiesa, sopraggiunge con un ombrello nero, che poi appoggerà vicino a sé in terra, una donna. Esile, composta nel soprabito scuro, si sfila di tasca un libro e inizia a leggere. Di lì a poco l’uomo che delira, le si avvicinerà in punta di piedi e agilmente le porterà via l’ombrello. Per tutta la durata della scena, l’uomo che delira passeggerà sul sagrato, di tanto saltando con gioia, di tanto piroettando l’ombrello nell’aria con grida di imprecazione contro Dio. Attorno alla figurina di donna che legge, si forma da subito un capannello di persone. La osservano con curiosità. Una certa aria interrogativa è leggibile sulla faccia di tutti.

C’è chi ascolta con attenzione avvicinando l’orecchio per meglio capire le parole. Qualcuno sghignazza scioccamente. Altri passanti, invece, dopo un primo momento d’interesse, li vediamo andarsene curvi sotto il peso della loro stessa noia, indifferente disillusione.

Sottovoce si percepisce a commento: “Chi ti manda, Scherzi a parte?”. Sopraggiunge anche una scolaresca accompagnata da due insegnanti e dal corrispondente numero di ‘telefonini’, ‘per rimanere sempre in contatto, non essere tagliati fuori …’.

A metà della lettura, l’esile figurina, disturbata dal vociare scomposto della scolaresca e dal passaggio rasente di un’automobile, si interrompe. Attende qualche istante con gli occhi sempre fissi al foglio, poi riprende a leggere.

Nel mentre, si fa avanti tra il poco pubblico un ragazzo rimasto qualche passo indietro al gruppo dei ragazzi in gita. Con fare spavaldo assale di parole la donna, la spintona. Lei non risponde, non si turba. Si limita a guardarlo una sola volta negli occhi: una rasoiata. Si sposta di qualche passo e riprende a leggere con maggiore intensità espressiva. Durante tutta la scena nessuna delle insegnanti tenterà di fermare il ragazzo. Anzi, una delle due, si limiterà a riprendere con il proprio dispositivo telefonico la scena per tutta la sua durata, ricevendone il plauso in una battuta: “Figo! Prof. che poi così, ce la fa risentire in classe, la poesia”.

Dopo qualche istante da quanto accaduto, gli animi si quietano, la scolaresca lascia la piazza, così uno dopo l’altro gli altri passanti. La donna conclude la lettura. È sola, immobile, tutt’uno con il libro richiuso, come se si fosse mineralizzata dentro alla sue stesse parole. Poco distante da lei, ma in posizione da non essere vista, un’altra donna, anche lei immobile, con gli occhi piantati come artigli nel silenzio delle parole ancora nell’aria, piange.

Il testo sopra riportato, non è un testo per il teatro, ma la partitura di un breve piano sequenza di un fatto realmente accaduto a chi scrive, in uno dei tanti sabati d’invenzione Oltrarno, davanti alla Basilica di S. Spirito in Firenze, appunto. Sembrerebbe essere la narrazione di un fallimento, il fallimento di un’intenzione e di un rapporto – quello della scrittura – nella sua destinazione sociale, di un incontro in definitiva, fra due mondi, quello scritto nell’opera e il mondo instabile non scritto del fuori. In questo senso di fatto lo è. Tuttavia la speranza (forse utopia?) che solo da questo scarto possa nascere il desiderio di capire come stare e starci nella realtà, morderla, sostenerla, essere più

solidi rispetto ad essa, per non esserne travolti, essere più liberi di pensare, avanzare ancora, fa credere alla sottoscritta che non sia del tutto così.

Da ogni respiro può nascere un regno.

4. Finale

In una delle sue ultime interviste Pier Paolo Pasolini si esprime così: «Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso […]. Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come»(11). Il poeta, forse? Il poeta, che non avendo missione alcuna, eternamente indignato (magari), campione della «rabbia intellettuale»(12) (magari), può solo tentare di stanare la parola dal silenzio, spingerla in prima linea? Il poeta, che non potendo forzare il reale, può soltanto liberarne una nozione, per consolidarne l’evidenza, la ferita, il dolore?

Come si sarà capito, pendo più per la tragedia che non per il dramma, e con questa linea minima di volo ho cercato implicitamente di affermare e sostenere la forza (non la mia) di una certa idea della poesia appunto tragica, politica, etica (intesa quest’ultima come pratica del vero e della libertà nel privato e nel pubblico). Ho altresì implicitamente affermato e sostenuto, sino all’alterigia (può essere), le ragioni di una poesia (e di una poetica, stavolta la mia) che non ha paura di stare con e nella materia, di curvare lo spazio-tempo ed esserne lente deformante, di saldare con il suo sangue le vertebre disgiunte di questo nostro secolo disperato. E ciò non tanto per considerare una reliquia le proprie convinzioni o battersi bene «solo per le cause modellate con le proprie mani»(13), resistere nonostante tutto in una battaglia intempestiva (?), inattuale (?), di retroguardia (?), o recitare la parte dell’ultimo soldato giapponese. No davvero.

Chi scrive, crede fermamente che fare poesia sia preparare con ostinazione e cura il proprio solco, anche il proprio fallimento, portarne tutto il peso, senza sconto di pena. Una convinzione che sconfina nella dedizione assoluta senza altro equipaggiamento o cassetta d’attrezzi, che la volontà autentica di giocarsi fino in fondo la libertà con le parole. Libertà autentica che non è definita dal rapporto tra il desiderio di scrivere (o fare) poesia e la sua soddisfazione, ma dal tornare – ogni volta in cui la poesia si fa esercizio di stile – «ai giorni del rischio»(14), sempre.

Rita Filomeni

Note.

(1) R. Char, Ricerca della base e della vetta, a cura di Ilaria Gremizzi e Sandro Palazzo, Mimesis, Milano-Udine 2011, cit., p. 45.

(2) Ivi, cit., p. 25.

(3) Cfr. W. Benjamin, Esperienza e povertà (1933), trad. it. in Critica e storia, a cura di F. Rella, Cluva, Venezia 1980. Per il tema del declino dell’esperienza, si veda anche Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, trad. it. a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1986.

(4) O. Mandel’štam, “Viviamo, senza sentire il paese”, in La conchiglia e altre poesie, trad. it. Amedeo Anelli e Stefania Sini (a cura di), Via del Vento, Pistoia 2005, cit., p. 17.

(5) Ibidem, “Non sono ancora morto”, cit., p. 20.

(6) O. Mandel’štam, “Trovando un ferro di cavallo”, da “Tristia”, in Poesie, a cura di Serena Vitale, Garzanti, Milano 1972, cit., p. 66.

(7) M. Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo?”, in Archivio Foucault 3 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998, cit., p. 225.

(9) J.-P. Sartre, Critica della ragione dialettica, I. Teoria degli insiemi pratici, Libro primo, Il Saggiatore, Milano 1963, cit., p. 224.

(10) J.-P. Sartre, Le parole, Il Saggiatore, Milano 1964, cit., p. 239.

(11) L. Re, Pasolini: “Il nudo e la rabbia”, La Stampa (Stampa sera), 9 gennaio 1975.

(12) Cfr. P. P. Pasolini, Le belle bandiere, Dialoghi 1960-65, Editori Riuniti, Roma 1977, cit., p. 223. La citazione è tratta da un testo (confluito poi nel sopracitato volume, a cura di G. C. Ferretti), che Pasolini scrisse il 20 settembre 1962 sulla rivista “Vie nuove”.Pasolini racconta “La rabbia”, la fine di un’epoca con l’ingresso dell’Italia nel “neo-capitalismo”: da un lato l’oblio dei valori della Resistenza, dall’altro una rivoluzione dei costumi che si manifesta come “violenza della normalità”. Scrive: “Cos’è successo nel mondo, dopo la guerra e il dopoguerra? La normalità. Già, la normalità. Nello stato di normalità non ci si guarda intorno: tutto, intorno si presenta come “normale”, privo della eccitazione e dell’emozione degli anni di emergenza. L’uomo tende ad addormentarsi nella propria normalità, si dimentica di riflettersi, perde l’abitudine di giudicarsi, non sa più chiedersi chi è. È allora che va creato, artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti. I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica”.

(13) R. Char, “Fogli D’Ipnos”(1943-1944), trad. it. Vittorio Sereni, Einaudi, Torino 1968, cit., p. 49. (14) D. M. Turoldo, “Torniamo ai giorni del rischio”, in Il grande Male, Mondadori, Milano 1987, cit., 513.

Nel documento Una scettica confessione (pagine 63-68)