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CHI SI RICORDA PIÙ DELL’IVAN SKALA?

Nel documento Una scettica confessione (pagine 36-45)

(I) Sarà perché il suo trionfo coincise con il compimento dei miei vent’anni – che a loro volta coincisero con il 68 – ma la faccia rubiconda di Ivan Skala (1922-1997) mi si è scolpita indelebilmente nella memoria. Dirigeva il “Rude Pravo” – che significa “legge rossa” o “diritto rosso” – il quotidiano più diffuso a Praga. Dopo Jan Palach, altri sette studenti si tolsero la vita per lo stesso motivo e furono bellamente ignorati da “Rude Pravo”, perché Ivan Skala eseguiva fedelmente le direttive del Partito rientrato nei ranghi del Patto di Varsavia.

Chi si ricorda più dell’Ivan Skala Potentissimo cantore del regime Capocultura al Rude Pravo

A Praga in tutte le vetrine a irridere Col suo viso rotondo

Agli Jan Palach di turno? Venne anche a Roma Omaggiato come il grande Poeta cecoslovacco

Da Moravia e Morante. Era per altro Anche presidente dell’unione ceca Degli scrittori, si mosse Ingrao Per un ricevimento ai Parioli Ed il Migliore lo portò ad esempio Dell’Unità ai redattori.

(II) Quel periodo e quell’episodio restano nitidi nella mia memoria per due ordini di motivi. Il primo riguarda il conflitto tra Giustizia e Libertà – Giustizia, intesa come giustizia sociale, e Libertà intesa come diritti civili – che sempre, in Italia, vide sconfitta la seconda a vantaggio della prima, nel corso dello sviluppo di quello che “il professore”, nel romanzo di George Steiner Il correttore (1992) definisce “Il più grande complimento mai fatto all’umanità”. E che altri (Gide, Spender, Wright…) più brutalmente hanno definito Il dio che è fallito.

L’altro ordine di motivi concerne la necessità di mantenere fluido qualunque assetto di potere e l’impossibilità a farlo quanto più tale assetto diviene rigido e dogmatico, eludendo l’indispensabile necessità di mantenere separati e autonomi esecutivo, legislativo e giudiziario.

Da qui, da questa constatazione, discende la mia ferma volontà di sostenere il sistema empirico applicato alla scienza politica, rispetto ad ogni pulsione o voglia di stato etico, mantenendo l’esecutivo in carica finché gode della fiducia del legislativo, ma in ogni caso entro un termine inderogabile di quattro, massimo cinque anni, detto “legislatura”.

(III) Poiché nessuno di noi è in grado d’essere contemporaneamente giurista e scienziato, economista, filosofo e magari anche artista, che ci piaccia o no siamo costretti ad affinare le nostre competenze bibliografiche in uno, massimo due campi di indagine, per gli altri dovendoci accontentare della manualistica corrente. E quel campo di indagine inevitabilmente costituisce la nostra angolazione critica sul mondo, il nostro angolo di visuale.

Il mio angolo di visuale, da cinquant’anni a questa parte, è quello dei diritti civili.

Nell’Italia in cui crebbi e mi formai, quelli come me a destra venivano ritenuti degli sporcaccioni; al centro dei peccatori; a sinistra una degenerazione borghese. Non era così ovviamente: non eravamo una degenerazione borghese. Omosessuali ve ne sono sempre stati in tutte le classi sociali, tutti sempre – pur se in vario modo – repressi.

Emblematico, al riguardo, un episodio del 1983, quando Il suicidio di Mario Mieli fu immediatamente seguito dalla fondazione del Circolo di Cultura Omosessuale a lui intitolato a Roma. Anche senza la sua morte il Circolo sarebbe nato, ma avrebbe avuto un altro dedicatario. Sarebbe stato intitolato a Salvatore Pappalardo, un operaio 36enne siciliano che lavorava a Torino. Il 23 aprile 1982 Pappalardo venne assassinato a Monte Caprino a Roma. Aveva lasciato la valigia a stazione Termini, qualche ora di battuage e sarebbe poi ripartito per la Sicilia. Lo faceva tre volte all’anno quel viaggio, natale pasqua e ferragosto, sei volte all’anno (all’andata e al ritorno) concedendosi quella sosta a Roma. Erano le uniche notti in cui Salvatore Pappalardo poteva essere sé stesso, lontano dal rischio d’essere “scoperto” da fratelli amici e cugini in Sicilia (che lo credevano “fidanzato” a Torino) e dai compagni di lavoro al Parco della Pellerina (che lo credevano sposato in Sicilia). Nell’intitolazione del Circolo poi prevalse il nome di Mieli per l’intelligenza politica, il coraggio, la consapevolezza, l’impegno a tutto campo. Ma i Salvatore Pappalardo, vittime sconosciute dell’ipocrisia e del conflitto tra Giustizia e Libertà, sono migliaia.

(IV) Mario Mieli 1952-1983 – autore del saggio Elementi di critica omosessuale, del romanzo Il

risveglio dei faraoni e dell’opera teatrale La traviata norma – amava ricordare che nella Farsalia di

Lucano i soldati morenti di sete si tagliano le vene per bere il proprio sangue. Il destino verso la coprofagia era segnato, come quello di non giungere alla noia dell’invecchiamento.

Bere sangue umano

Bere sangue umano

Imitando gli osti delle saghe sui vampiri È di moda tra i nuovi adolescenti. “Quando assetato mi rupperò le vene Per bere del mio sangue”,

Lo scriveva Mario Mieli nel settanta, Col passato remoto al futuro,

Dal tempo di Farsalo al suo. Aveva diciott’anni e si sapeva Destreggiare in poesia come a teatro Consapevole del fatto che –

Percorso il cammino dei trent’anni – Non avrebbe rinunciato “al triduo d’amore Per la noia d’altri cento”.

(V) Coniugando le due precedenti riflessioni, durante la presidenza Obama scrissi un breve testo intitolato “17 maggio”, il giorno in cui si celebra la Giornata Mondiale contro l’omofobia, in memoria delle persone Lgbt+ che nel corso dei secoli – dalle discriminazioni religiose ai campi di sterminio ai giorni nostri – sono state e sono vittime di violenze e pregiudizi. In tale data, nel 1990, l’Organizzazione Mondiale della Sanità depennò l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali, grazie all’input ricevuto dall’Associazione Americana di Psichiatria.

Il 17 maggio 1990 avevo quarantadue anni, Quando nella nazione più avanzata del mondo S’incominciò a poter dire e scrivere

Che non ero né ammalato né pazzo. Da allora sono passati altri trent’anni E oggi sono convinto quasi anch’io

D’essere umano. Evviva lo stato di diritto. Evviva la Costituzione Americana.

(VI) In quest’altro testo, un episodio di cronaca romana mi ha permesso di giungere a un’inaspettata sintesi:

Patto di Varsavia

Probabilmente a loro il «Patto di Varsavia» Non diceva nulla,

E nemmeno la filologia romanza Ugrofinnica o slava.

Loro si amavano da un anno in italiano Senza troppi articoli

E litigavano anche in romanesco Negli ultimi tempi.

Con le preposizioni a modo suo, Sava Cosmin Il rumeno ventitreenne

Dipendente – recita il verbale – Di una ditta di derattizzazione

Rimproverava al polacco pizzaiolo Szydlowski Mariusz D’essere un putanno tradittore,

E lo ha ucciso lì nel loro letto Con un colpo di pistola

(Sottratta la sera prima in pizzeria A un amico guardia giurata)

Prima di spararsi l’altro colpo in bocca. Voglio una lapide in via Mammùcari Al Tiburtino Terzo

A ridosso della Palmiro Togliatti.

Una lapide al «Migliore» con un verso da Casarsa. C’era Tiziano Ferro nel cd.

(VII) Per rinvigorire il sistema empirico applicato alla scienza politica e poter almeno sfiorare la “liquidità” di un vero stato di diritto, un requisito fondamentale è la libertà di ricerca nelle università. In sintesi: Judith Butler né in Unione Sovietica né in Russia sarebbe mai andata in cattedra. O ci sarebbe andata ma rimanendo allineata e coperta sul proprio orientamento sessuale, senza poter pubblicare i suoi libri di teoria queer.

Non dimentico che la grande ondata di liberazione di cui proprio quest’anno ricorre il cinquantenario – con la rivolta di Stonewall, New York Village 1969, e la nascita dei Pride – prese avvio da Berkeley, con la conseguente nascita del Gay Liberation Front americano (1969) e inglese (1970). E in 50 anni, grazie al sistema empirico applicato alla scienza politica, ho visto passare l’Inghilterra dal reato di omosessualità (abolito nel 1967) al reato di omofobia.

(VIII) Vi sono poi remore ancora più vischiose, proto-ideologiche, sperimentate sulla propria pelle da giovani ricercatrici e ricercatori italiani, che si vedono negato ogni spiraglio di ricerca retribuita nei dipartimenti di italianistica della penisola, se appena presentano un progetto di ricerca nel campo dei Gender studies.

Per quanto le mie forze mi concedano sto proprio lavorando in questa direzione. Il mio ultimo docu-fiction Due pub tre poeti e un desiderio uscito da Marcos y Marcos nel 2019 per il cinquantenario di Stonewall e dei Pride, tratta di questioni di genere, vita intima e manifestazione artistica, rapporto con la società e le sue leggi, in tre vicende umane esemplari, che si snodano dallo “scandalo” londinese dello White Swan alla rivolta newyorkese di Stonewall.

In décalage verso il coming out, tutti e tre sposati: Byron con fama di tombeur de femmes, ma capace di innamorarsi solo di ragazzi e di uomini giovani come Pietro Gamba e P.B. Shelley; Wilde dai modi effeminati ma padre di due figli che dopo il disastro cambieranno cognome; Auden, esplicito sul proprio orientamento sessuale sin dai tempi del college, e sposato per generosità a Erika Mann. Tutti e tre in anticipo sui tempi. Auden con una determinazione che lo rende inviso e ingombrante persino alle “velate” della sua epoca come T.S. Eliot; Wilde con una testardaggine “radicale” e un “pride” nei confronti del proprio sentire tanto esemplari da farne una perfetta vittima; Byron certamente – malgrado le apparenze – il più fragile dei tre, il più bisognoso di rassicurazioni, e comunque il più lesto nella scelta della via di fuga dall’Inghilterra.

Una vita sola. Come se fosse una sola persona, che vive tre infanzie e tre giovinezze, due età mature e una sola vecchiaia. Un personaggio che fino a trentasei anni è Byron, dai trentasei ai quarantasei è Wilde, dai quarantasei ai sessantasei è Auden. Con la gogna scampata da Byron che diventa il carcere duro di Wilde e poi l’arroganza di Auden nel non voler parlare della “cosa” con chi non ne è degno.

La morte di Byron a trentasei anni – disperata per l’amore non corrisposto di Lukas – viene riscattata dal successo mondano e letterario di Wilde, con Londra ai suoi piedi e Bosie al fianco. La morte di Wilde a quarantasei anni – disperata in un alberghetto parigino dalla tappezzeria inguardabile – viene riscattata dal successo mondiale di Auden fino alla luce irradiata cinquant’anni fa da Stonewall e dal Manifesto del Gay Liberation Front.

Fondamentalmente si tratta della stessa persona, perché i tre poeti hanno lo stesso carattere e sono spinti dalle stesse motivazioni: mutano soltanto – ma troppo lentamente – le epoche in cui vivono.

Due pub tre poeti e un desiderio rappresenta dunque il suo oggetto da tre tempi diversi, ponendosi

come interrogazione metaletteraria, come romanzo cubista.

(IX) Il libro successivo sarà invece incentrato sul costume italiano, su quel neutro grigio eterosessuale che come un’insensata patina para-ideologica ricopre le biografie di poeti e narratori a cui abbiamo dedicato vie e piazze, da Leopardi a Pascoli. Si intitolerà Silvia è un anagramma e si occuperà anche di Novecento, da Clemente Rebora a Montale a Cesare Pavese.

(X) Il mio pensiero si è forgiato sulla filosofia analitica inglese, una impostazione che in Gran Bretagna ha alle spalle una grande tradizione. Vale a dire che si perviene ai truismi di G.E. Moore perché una specifica mentalità, per secoli, si è orientata in quella direzione. Dal tempo di Duns Scoto e di Ockham, attraverso Ruggero Bacone prima e Francesco Bacone poi, fino a Locke e Hume, e ancora a Bentham e Mill e, nel Novecento, a Moore, Schiller, Russel, Ayer, lo sviluppo filosofico britannico può infatti dirsi sostanzialmente di taglio empirico-teoretico piuttosto che pratico-idealistico. (Ricorro ai termini “pratico” e “teoretico” con riferimento alla distinzione scotiana tra “dominio del pratico” – ossia delle verità non dimostrabili – e “dominio del teoretico” – delle verità dimostrabili). Scoto, in effetti, riconosce il carattere “pratico”, cioè arbitrario, di ogni affermazione dogmatica (non dimostrabile) estranea all'ambito speculativo (empirico-teoretico) già nel XIII secolo, quando il continente è dominato dalla convinzione tomistica di armonica compenetrazione tra fede e ragione. Nei termini della scienza politica – con l'eccezione monumentale di Carlyle e marginale di Green e Stirling – si tratta, da parte della filosofia inglese, del rifiuto dello stato etico; un rifiuto che necessariamente si accompagna alla rivalutazione della “cosa in sé” di kantiana memoria (non a caso disprezzata da Fichte e da Hegel), e particolarmente si esplica nella ribellione di Moore ai neo-idealisti; ribellione che si connota come un'operazione di segno ockhamistico puro, con Green e Caird al posto degli scolastici. E nel 1873, quando nasce Moore, muore J. S. Mill, colui che implicitamente aveva posto il rifiuto dello stato etico alla base del suo Saggio sulla Libertà del 1859. “Etico”, necessariamente, è quello stato che possiede la convinzione di conoscere che cosa sia il bene e configura il proprio scopo nell'attuarlo. Tale stato non può che essere il frutto di una concezione filosofica di segno pratico-idealistico. La concezione opposta, empirico-teoretica, applicata alla scienza politica, produce invece lo stato di diritto, il cui

fine è unicamente quello di riflettere e mediare, tramite continui aggiustamenti e compromessi, tra gli interessi delle varie “parti” che lo compongono. In altri termini, di porre in essere nel modo più armonico possibile quella mediazione tra idealità, costume e diritto che uno stato moderno è chiamato comunque a compiere.

(XI) Come aggirare i pericoli della retorica? Semplicemente avendo qualche cosa di vero, di sentito, di urgente da dire. Per esempio, io non ho mai deciso di scrivere poesia civile: semplicemente la condizione italiana è tale che ogni tanto qualche verso in quella direzione proprio non mi va di trattenerlo. Quando nella poesia “Alla Costituzione italiana” cito Gobetti, ogni volta mi commuovo, perché è stato massacrato di botte dai fascisti ed è morto dopo pochi mesi per i traumi riportati agli organi interni. E quando i diritti civili vengono irrisi e prepotentemente calpestati, l’unica cosa che io poeta posso fare è ricordarlo ai più giovani.

Alla Costituzione Italiana

Le costituzioni, recita il mio vecchio Dictionary of Phrase and Fable,

Possono essere aristocratiche o dispotiche Democratiche o miste.

Ecco, per te che non prometti Di perseguire l’imperseguibile – La felicità degli uomini –

Vorrei non pensare davvero a quel mixed Che ricade sugli effetti salvando i presupposti: Di te che prometti il perseguibile

Vorrei restasse il lampo negli occhi di Gobetti, Già finito per altro in poesia.

(XII) In tempi molto recenti ci ha pensato mio nipote Paolo a farmi rimettere in discussione

Il suffragio universale

Ormai non credo più al suffragio universale Mi sussurra Paolo in un soffio

Lasciandomi a Malpensa.

Paolo cresciuto a risotti della nonna E a stato di diritto dello zio,

Laureato in scienze politiche

Con tesi in legislazione sindacale europea, Paolo che ha fatto lo stage a Bruxelles all’Ocse, Lui il mio interlocutore in Più luce, padre Lo sapeva che mi avrebbe ferito.

Eppure me l’ha detto A labbra strette Quasi sibilando…

(XIII) Gay Pride a Roma “E il caffè dove lo prendiamo?” Chiede quella più debole, più anziana Stanca di camminare. Alla casa del cinema, Là dietro piazza di Siena.

Non si erano accorte della mia presenza Nel giardinetto del museo Canonica, Si erano scambiate un’effusione

Un abbraccio stretto, un bacio sulle labbra. Parlavano in francese, una da italiana “Mon amour” le diceva, che felicità Di nuovo insieme qui.

Come mi videro si ricomposero Distanziando sulla panchina i corpi. Le scarpe da ginnastica,

Le caviglie gonfie dell’anziana… Quella sera, come smollò il caldo, Passeggiai fino a Campo de’ Fiori,

Pizzeria all’angolo, due al tavolo seduti di fronte, Giovani puliti timidi e raggianti

Dritti sulle sedie col menù sfogliavano E si scambiavano opinioni

Discretamente.

Lessi una dignità in quel gesto educato Al cameriere, una felicità

Di esserci

Intensa, stabilita. Decisi li avrei pensati sempre Così dritti sulle sedie col menù.

LA POESIA, UN CONTROCANTO COLLETTIVO ALLA PAURA E ALL’ODIO (E IL DOVERE POLITICO DELLA FIDUCIA. CON GLI OCCHI APERTI)

Comincio con un brevissimo aneddoto: in vista del 14 febbraio dell’anno in corso, 2019, il quotidiano romano «il Messaggero» commissiona a un esiguo numero di poeti un testo sull’amore al tempo dei barconi. Mossi da vari moventi, i poeti scrivono e consegnano. Non accade niente, se non una tanto inutile quanto violenta polemica interna.

Pochi giorni dopo, Emma Marrone conclude un suo concerto con tre parole: «Aprite i porti», che suscitano un ciclone.

La premessa valga a documentare che siamo consapevoli delle proporzioni reali dell’incidenza del fenomeno-poesia. Eppure, sogno e lavoro di questo momento della mia vita è che la poesia torni a essere di tutti e per tutti.

*

L’io lirico, inteso come esempio pedagogico soggettivo di un altro modo di stare al mondo, è talmente contraddittorio da essere ormai insostenibile: tutti i poeti, volenti o nolenti, sono macinati dall’ingranaggio del neoliberismo. Come potrebbero autenticamente rispondere dell’eccezionalità delle proprie parole con l’eccezionalità delle proprie vite?

La poesia lirica, intesa come riflessione sensibile al mondo, come visione filosofica della storia che mantiene uno sguardo ampio, che lega cosa con cosa – oggi diventa civile, presa in carico di un «noi» del quale abbiamo umanamente bisogno, in quest’epoca fluida e precaria, di smarrimento politico e sociale.

La poesia può proporsi come legante contrario al legante sociale dell’odio e della paura, che si vuole travolgano un paese dove sono stati creati nemici immaginari, dove la cultura è un bersaglio da bullizzare, dove il popolo è stato diviso e spaventato a scopo politico.

La poesia riveste, a mio parere, la funzione del controcanto come resistenza politica. Ma, per agire davvero nel tessuto sociale, è necessario che i poeti escano dai luoghi della poesia, che siano veri e propri attivisti, che vadano a rappresentare con i propri corpi (e con letture di poesie auspicabilmente non proprie) una diversa possibilità di vita, soprattutto nella scuola pubblica e soprattutto alle elementari, perché ogni costruzione che regge al tempo, inclusa quella della persona futura, si comincia statisticamente dal “basso”. Nessuna costruzione comincia dall’alto.

Non dimentichiamo che “bellezza” e “bontà” sono fatica quotidiana, il risultato di una incessante contrapposizione al nostro stesso fascismo naturale.

Mi spiego: di fronte a un cambiamento, l’istinto rettiliano, elementare (oggi detto «la pancia»), suggerisce a chiunque di allontanare e zittire, piuttosto che accogliere e ascoltare. Più immediato essere diffidenti e respingenti. Per ciò diciamo che il fascismo è ignoranza. Ignoranza di sé, prima di ogni altra ignoranza.

E allora, più nel dettaglio, qual è la qualità dello sguardo di un poeta che ritengo necessaria a una società spaventata?

L’attenzione chirurgica ai sentimenti, lo svelamento degli inganni consolatori, ovvero l’emersione del rimosso sociale e, dunque, la possibilità di mostrare (a sé stesso per primo, attraverso le parole – e dunque al lettore) la “cosidetta realtà” completa delle sue due parti, visibile e invisibile.

La poesia, con la sua quota ampia di silenzio, allude sempre all’ultrasuono dell’invisibile, fatto di rimosso psicologico e sociale, dell’ottanta per cento di materia oscura che compone il nostro mondo

e anche dell’immane impatto di energia del nostro vivere e forse, chissà, dei nostri morti e del nostro morire.

In una parola, cerca di esprimere – più che di dire, perché dice forse più con le pause – la verità. Ma.

Nel nostro paese, dopo Pasolini, non è stata più scritta poesia civile, perché non ne abbiamo più avuto bisogno: abbiamo attraversato anni di discreto benessere economico – anzi, un dolente Ventennio di stordimento edonistico – e, soprattutto, dopo gli anni entusiasti e complessi della ricostruzione del dopoguerra, abbiamo attraversato settant’anni d’ininterrotta pace, sebbene poeti-sentinella, poeti attenti come Antonella Anedda, abbiano sempre chiamato «tregua» la nostra iniqua «pace occidentale», fondata sullo sfruttamento delle risorse di quelli che oggi abbandonano le proprie case, a rischio della propria stessa vita, per godere qui, almeno insieme a noi – o meglio, ai margini extraurbani di noi – di quanto abbiamo loro depredato.

La reazione dell’Occidente benestante è stata cominciare immediatamente a lamentarsi d’essere povero anch’esso, di non avere le forze economiche per accogliere quelli che ha ridotto alla fame – o dei quali ha finanziato le guerre. Il neoliberismo ha fatto saltare i parametri del bene e del male, la possibilità che un bianco che alla sera chiude a doppia mandata la porta di casa riesca a (o voglia)

Nel documento Una scettica confessione (pagine 36-45)