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PER RISARCIRE UNA CAMERIERA

Nel documento Una scettica confessione (pagine 54-58)

Credo nella poesia come deposito di memorie, ma anche come testimonianza sulla realtà contingente. Così anche nella “parola onesta” di sabiana memoria, contro il degrado morale e la corrosione della beltà.

Ma desidero partire da lontano in questo mio scritto.

Era il natale del 1982, io allora ero un ragazzo di 19 anni che si affacciava alla realtà adulta venendo da un contesto sociale umile e avvilente. Cresciuto in una casa popolare di un paesino del Nordest che puzzava ancora di letame, ma stava diventando, grazie ai distretti del mobile, il motore economico dell'Italia. A casa mia si respiravano miseria e tristezza. Otto anni prima, in seguito a un tragico incidente domestico, mia madre si era ustionata gravemente in metà del corpo e, dal rientro dall'ospedale, passava i suoi giorni nella penombra di tende costantemente chiuse, distesa sul divano, in sala, in uno stato depressivo che opacizzava tutto, persino la mia giovinezza. Mio padre era via tutto il giorno a svolgere il suo lavoro di venditore ambulante (i cui guadagni erano insufficienti per sfamare la famiglia), e così, io e i miei fratelli minori eravamo un po' abbandonati a noi stessi.

Da tre anni poi ero entrato come operaio in una delle tante fabbriche del legno che stavano spuntando come funghi nel territorio, per aiutare la famiglia. Avrei desiderato poter proseguire gli studi, ma la realtà aveva deciso per me; ero già un accanito lettore, e trovavo nella letteratura, specialmente nella poesia, il conforto e il nutrimento per andare avanti, per cercare un sollievo all'oppressione della fabbrica e delle condizioni di casa.

Era il natale del 1982, dicevo. Ormai maggiorenne, decisi, insieme a un amico del paese e due ragazze coetanee, di andare a trovare un altro amico, cugino del mio compagno di viaggio, per fargli passare un natale meno triste e solitario. Era rimasto orfano di entrambi i genitori, morti a distanza di tre anni l'uno dall'altra, e viveva a Porlezza, ai confini con la Svizzera, insieme al fratello maggiore – che durante le feste avrebbe raggiunto la sua ragazza –, e si manteneva lavorando in un locale della zona. Soldi ne avevamo pochi, tutti e quattro, sia per il viaggio, sia per il vitto della settimana che intendevamo passare insieme. Ma ci saremo arrangiati; eravamo giovani, e niente poteva fermarci. Per noi era il tempo in cui, citando Vasco Rossi, si potevano mangiare anche le

fragole. Partimmo, coi sacchi a pelo arrotolati sulle spalle, i capelli lunghi e i nostri giubbotti, in

treno sino a Milano, poi facendo l'autostop, come si usava a quegli anni. Arrivammo a Porlezza alla spicciolata e, insieme all'amico che ci ospitava, ci riunimmo. Viveva in una vecchia casa grande, senza altro riscaldamento che un misero camino in sala. Durante il giorno lui era fuori a lavorare, così era solo dalla sera sino a notte fonda che stavamo tutti insieme. Per passare il tempo ci distribuimmo dei compiti: le ragazze a pulire e far da mangiare, noi due maschi a raccattare legna nei boschi. Ma spesso pioveva e, ad ogni modo, le ore di tedio, anche per quattro ragazzi, erano molte. Loro tre poi dormivano sino a tardi; io non sono mai riuscito a farlo oltre le 8 di mattina, così mi trovavo, specie in quelle prime ore del giorno, in compagnia solo del freddo. Così, anche per scaldarmi, partivo verso il centro del paese, un libro sotto il braccio, a rifugiarmi dentro un caffè. Ora chi legge, se non ha già abbandonato il testo, si chiederà cosa voglia trasmettergli l'autore con questo frusto preambolo da amarcord personale, specialmente sul tema della poesia di istanza sociale, civile. Prego egli di lasciarmi continuare: il prologo è quasi finito, e termina nella sorgiva da cui è scaturita la temperatura della mia parola poetica.

Nel caffè succitato, lavorava come cameriera, una ragazza più o meno coetanea, né bella né brutta, ma cordiale e simpatica, oltre alla proprietaria, una donnina esile, aguzza quasi, scontrosa e

sbrigativa quando, di rado, appariva dietro al bancone, altrimenti occupata in una stanza sul retro dove, credo, preparasse le brioche e i panini che si servivano, e da dove arrivava ogni tanto la sua aspra voce a chiamare la cameriera per questo o per quello.

Era la seconda mattina che mi sedevo a uno dei tavolini, sorbito il mio caffè, e immerso nella lettura, accadde il fatto, forse insignificante, che ha deciso sarei diventato poeta anche se, convinzione dettata dal fatto di essermi fermato solo agli studi dell'obbligo, credevo di non essere del tutto in possesso degli strumenti necessari a tale impresa.

Oltre a me e qualche altro avventore che entrava e usciva dopo un caffè, un krapfen, non c'era nessun altro a occupare i tavolini. Io leggevo, ogni tanto mi fumavo una sigaretta, e riprendevo a leggere. La cameriera si avvicinò e mi chiese cosa leggessi, perché, da come mi vedeva assorto da ore nelle pagine, doveva essere un ottimo libro. Lo era: “Cent'anni di solitudine” di Marquez, fresco nobel per la letteratura. Mentre mi svuotava il posacenere, mi chiese di cosa parlava, allora ho incominciato a raccontarle di Aureliano Buendía, di Macondo, della scrittura potente e immaginifica di questo grande poeta colombiano. Nel volto della ragazza, rapita dal riassunto sull'opera, si disegnò una bellezza che non ero riuscito a intravedere, prima, una grazia che si alimentava, attimo dopo attimo, di qualcosa di suo, interno al corpo, che prima era come nascosto, custodito come per pudore, dietro una cordialità che credevo solo professionale.

Tutto a un tratto, il momento, la bellezza, il fatto di essere due ragazzi che parlavano della solitudine e così si conoscevano, si infranse.

Come una furia, un'arpia schiumante rabbia, la padrona del locale richiamò la ragazza ai suoi doveri, umiliandola, ferendola con le tipiche parole ricattatorie del padrone verso il sottoposto, spedendola in quella stanza sul retro a scontare la grave colpa di aver intrattenuto un cliente, di essere giovane e curiosa. Mentre si dirigeva verso il luogo del castigo, si voltò, e nel suo volto ogni bellezza era scomparsa. Rimaneva solo una maschera rossa di vergogna e umiliazione.

Quel giorno decisi che dovevo rendere conto di questa offesa, con le mie parole, e di tutto ciò che umilia la bellezza e l'onestà.

Penso che ognuno, quando ha incominciato a scrivere, l'abbia fatto perseguendo – o essendo perseguitato da – un suo scopo, una propria mission.

Io sono cresciuto in un rione popolare – sia a Milano, dove sono nato e vissuto fino a 7 anni, e dove mia madre, prima del matrimonio, era serva a casa di sciuri –, sia nel paese natale di mio padre, dove siamo tornati dopo la “mancata fortuna” dei miei genitori. Come dicevo, ho iniziato presto a lavorare in fabbrica, 10 ore al giorno, subendo le false pacche sulle spalle e i ricatti dei paroni e dei capetti, assistendo agli infortuni o al licenziamento ingiusto e ingiustificato dei colleghi. In un periodo storico – anni '80 e '90 del 900, e in un territorio – che macinava, insieme alla segatura che poi compone i pannelli dei mobili, l'anima e la dignità umane, per far gli schèi cui era ormai, irrimediabilmente, votata.

Questa realtà mi stava letteralmente annientando. E quando decisi che, almeno con le mie parole, dovevo ribellarmi, anche il mio matrimonio è naufragato. Mi sono trovato solo con esse, depresso come mia madre. Con le parole ho ingaggiato allora un corpo a corpo che, o mi schiacciava definitivamente, o apportava quel sollievo necessario come l'aria.

Ma la mia voce era ancora incerta, il bersaglio l'avevo davanti, ogni giorno – il disgregamento dei valori che affratellano, per un individualismo cinico e bieco, avvilente –, ma era come se le parole non riuscissero a scorgerlo. Leggevo Pavese e, naturalmente, per un veneto, Zanzotto. Il poeta di Pieve di Soligo sembrava additare la stessa stortura, lo stesso vulnus che mi annichiliva. Ma la sua voce era troppo colta per me, a volte oscura nei suoi passaggi-paesaggi. Fu comunque un riferimento costante, nonostante l'ardua semantica.

Iniziai anch'io a parlare del paesaggio, dei fossi e delle siepi. A ritrarre i personaggi umili che vagavano, come vinti della storia, fra i bordi cespugliosi e le scoline. Quella cameriera offesa che aveva dato la stura alla scrittura, era poco più che una figura sfocata persa nella nebbia di una realtà

che chiedeva di votarsi alle luci e alle promesse dei centri commerciali, a quelle stroboscopiche delle discoteche.

Verso la fine del secolo scorso, trovai la mia voce nel dialetto. Questo linguaggio umile e minoritario, ben si addiceva, me ne rendevo conto mentre lo componevo in versi, alla mia stessa idea e funzione, di una poesia che dall'uomo andasse verso il popolo. Una poesia pop ma non per questo naif, che facesse i conti con le fatiche, le delusioni, le aspirazioni di operai, artigiani, casalinghe, perdigiorno... cioè degli strati più umili, e più indifesi, della popolazione.

Frattanto mi accorgevo che, in quest'orgia di lustrini e di falso benessere, i fossi e le siepi che cantavo stavano sparendo, sostituite da capannoni o rivendite d'auto, e che altre siepi si ergevano nella società, altri fossi si aprivano sotto i piedi di quegli ultimi con cui condividevo ansie e speranze.

La poesia di cui mi nutrivo, poi, – anche qui con delle luminose eccezioni – quella del secondo '900, sembrava come essere andata in stallo, avvitata su se stessa nel problema della forma (molto era dovuto anche alla furia delle avanguardie), orientata a scrutare il proprio ombelico perso nei rotoli di ciccia di un falso benessere, o volta a indagare una bellezza quasi aliena, ormai, algida e distante dal degrado in cui l'uomo si dibatteva. Mi sembrava che la poesia avesse perso di vista l'uomo, per gongolarsi della propria bravura estetica, in una realtà che corrompeva, oltre all'estetica, anche l'etica.

Di cosa deve parlare una poesia se non dell'uomo?, pensavo, chiedevo. E se l'uomo vive un tempo sempre più compresso dall'algido algoritmo di cifre e progetti che ne soffocano il proprio slancio verso un'idea comune, sociale, della bellezza, di cosa deve scrivere allora? Per fortuna, verso la fine degli anni '90, scoprii Heaney, Walcott, Simone Weil, la cui epopea morale e “umana” della parola mi avvinsero e mi indicarono una strada da provare a seguire pur con i miei ben più fragili strumenti. Anche nei miei conterranei Romano Pascutto e Ferruccio Brugnaro coglievo una poetica che, prima ancora che politica, era canto civile, epopea operaia e contadina in un'epoca che si era ormai sbarazzata di ogni loro istanza, bandiera e rivendicazione. La civiltà contadina persisteva solo nella memoria, ormai, e gli operai assurgevano alla cronaca solo quando morivano nei luoghi del lavoro, o quando una fabbrica chiudeva lasciandoli a casa. Entrambe le classi lavorative più corpose del paese, esistevano ora solo in ologramma o foto ricordo della trebbiatura.

Poi ogni narrazione “ombelicale” è deflagrata.

La mia generazione ha attraversato snodi e mutamenti antropologici epocali: dalla fine della millenaria civiltà contadina scalzata dalla società industriale e, oramai, postindustriale; il crollo del comunismo e le conseguenti migrazioni da est; la globalizzazione dei mercati e dei popoli; il terrorismo fanatico, dalle Twin Towers in poi; la crisi economica mondiale che, dal 2008 a tutt'ora, morde e crea vittime come una guerra silenziosa; primavere arabe con conseguenti migrazioni dei popoli subsahariani, la lastra del mediterraneo diventata immensa lapide liquida; la “politica finanziaria” imperante; la sfida dei cambiamenti climatici.

Certo, il poeta non è e non può essere né un sociologo né un filosofo. Aprire e chiudere un mondo come si apre e si chiude una mano, per trattenere un attimo di bellezza o di angoscia in pochi versi, questo è ciò che il lettore appassionato chiede. Ma non è neppure – se mai lo fosse stato – quell'essere con la “testa sulle nuvole”, perso a inseguire i frammenti, le briciole di un'idea sublime, avulsa alla realtà contingente.

Difficile poi che un poeta chiuso in un campo di sterminio potesse “cantare” la bellezza senza raffrontarla alla tragedia in cui era immerso. Ne abbiamo avuto esempi notevoli e strazianti. Poteva essere altrimenti?

Può essere altrimenti, ora che i capannoni industriali, gli uffici, gli ipermercati o i marchi della grande distribuzione, obbediscono a leggi sempre più lontane da quelle che permettono a dipendenti e fruitori di mantenere intatta la propria dignità, di non veder offesa ogni giorno la propria felicità?

Quelli per cui essa è ancora un valore, peraltro. Tutto è merce, sembra dirci la realtà. Può esserlo anche l'anima, un sorriso, le parole che doniamo agli altri?

Dagli albori della grande crisi, mentre vedevo svilire l'etica delle mani, mentre perdevo il lavoro e si apriva un vuoto solitario, mentre lo ritrovavo e mi impegnavo a mantenerlo per sostentare la famiglia, dare una laurea a mio figlio... ho scritto di ciò che, pur essendo un fatto personale, vedeva egualmente coinvolti, nello stesso lasso epocale, milioni di persone.

Credo di aver dato voce a tanti che non hanno voce.

Forse anche al silenzio umiliato di quella cameriera, in un bar di frontiera, quarant'anni or sono.

Nel documento Una scettica confessione (pagine 54-58)