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MODI E MOTIVI DI UNA SCRITTURA CIVILE: GIAN PIETRO LUCINI
2. Dall’invettiva alla satira
«Oggi è tempo di Satira!», scrive Lucini (o meglio il suo pseudonimo Oldrado) in epigrafe alla sezione di Revolverate significativamente intitolata Sarcasmi. Si tratta, come si è visto poco sopra, del segnale di una consapevolezza definitiva sul destino di una scrittura che intenda costituirsi quale strumento critico nei confronti della realtà sociale circostante. Le prime manifestazioni della tensione satirica sono riconoscibili nelle opere scritte da Lucini intorno alla seconda metà degli anni Novanta dell’Ottocento, i Drami e La Prima Ora, ove la satira non è ancora, se non l’unica, la principale forma di poesia civile. Essa convive infatti con un altro strumento espressivo della poesia politica, più tradizionale e per certi versi meno efficace, vale a dire quello dell’invettiva. Questa utilizza un tono sostanzialmente elevato, rifacendosi a prototipi di indignatio etico-civile fortemente radicati nella nostra tradizione letteraria, ai quali tuttavia la satira (posta nei termini del sarcasmo
feroce delle Revolverate) resta alquanto estranea, dal momento che è stata tenuta per secoli al di fuori dei generi nobili della letteratura. Nel momento in cui affronta questioni apertamente politiche, Lucini sente la necessità di potenziare la propria poesia inserendovi una serie di segnali di genere, i quali indicano la legittimità di quel testo e di quei temi sulla base di un sostrato letterario di qualità. Non è perciò un caso che lo scrittore ricorra a determinati riferimenti intertestuali proprio nell’ambito di situazioni testuali di intenso impegno politico. Già in apertura del Sermone al
Delfino, viene evocata la figura letteraria che sta all’origine della tensione civile lombarda:
Le vecchie fole della Mitologia nobiliare, sacro e vecchio Maestro, il fiero mio e venerando Abate,
primo sfatò, enciclopedicamente: ed a lui mi inchinai.(47)
Parini (di lui si tratta) è chiamato in causa con la sua autorità per ratificare il discorso letterario di Lucini contro l’aristocrazia. Altrove entra in azione il meccanismo dell’allusione testuale diretta: «Nobile Patria, corifea al lercio / Vecchio, costretta da manette e birri, / Donna precinta, or schiava da bordello»(48), in cui la ripresa dantesca (cioè del massimo poeta civile d’Italia) non implica alcuna intenzione parodica, come avviene in altri casi.
Esiste infine un terzo referente nella poesia politica di Lucini, l’ammirato – ma in maniera affatto controversa – Carducci, il quale agisce sullo scrittore lombardo più che altro come modello di oratoria civile, con il risultato di versi orientati ad accenti di solenne declamazione. Si veda, a titolo di esempio, questo campione testuale, assai rappresentativo di un modus scribendi largamente adoperato:
Ma se l’allobroga volpe s’impaccia dentro ai forzieri della Tiberina che estrugge case di macerie a scherno, oltre al Tevere giallo, sopra ai magni prati infecondi, al di là della Mole Adrianea,
(ergasterei plebei, carceri umide ai pochi cenci dei morti di fame)
i milioni che dà il pingue bottino d’una conquista, mal rassodata e vile;
[...]
questo Papà a cui fur sacra l’impunità e regale
il fescennar di tra le vecchie Egerie pingui di molli zinne; questo real Papà, specchio di nobile cavalleria antica, chiama il vecchio Sciacallo truffatore e raccomanda a lui sé stesso e lo scrigno e la patria.(49)
Il legame con Carducci è quanto mai lampante nel recupero di alcuni procedimenti stilistici propri del poeta toscano: la costruzione subordinata che fa coincidere la frase con l’intera strofe e provoca una dilatazione disarticolante del discorso; l’ampio ricorso all’antonomasia, deliberatamente ingiuriosa (per cui Giolitti diventa «l’allobroga volpe»); una scelta lessicale, che pur con qualche escursione in basso tipica di Lucini, si mantiene entro l’orizzonte di un registro elevato e ricco di latinismi; l’evocazione di una realtà storica hic et nunc che, a distanza di anni, rende meno decifrabile questa scrittura.
Ciò nonostante, l’interpretazione che Lucini offre di Carducci è decisamente tendenziosa, giacché opera una forzatura in direzione dell’enfatizzazione dei lati progressivi della poesia carducciana. Ed è, comunque, un apprezzamento non assoluto e incondizionato, giacché nemmeno a Carducci, agli elementi restaurativi della sua scrittura, viene risparmiata, nelle Revolverate, una buona dose di sarcasmo: «come ricanta un nostro senatore, / che bebbe in fresco a Cristo e ai porcellini / ed or professa il Re»(50). Per il poeta lombardo la pregiudiziale antimonarchica non viene mai meno, anzi si inasprisce con il tempo, e pertanto assai difficilmente potrebbe concordare con la vena celebrativo-encomiastica di testi come Alla Regina d’Italia. Dalla lettura dei due pamphlet dedicati
all’autore delle Odi barbare e dai passi consacratigli nel Verso Libero, si desume l’interesse luciniano per un «certo Carducci giacobino»(51), quello di Giambi ed Epodi, per intendersi, poeta d’opposizione e figura di sicuro rilievo politico. Carducci assolve così, all’interno della poetica luciniana, una funzione ideologica, diventa quasi una maschera letteraria ideata dallo scrittore lombardo, la quale non trova un gran numero di sostegni nella realtà dei fatti. Ha ragione Curi, nell’investigare il rapporto tra i due poeti, quando rileva «un travisamento»(52) da parte di Lucini, il quale, a ben vedere, inventa – per ragioni sia private che politiche – un Carducci che non c’è, con una nient’affatto velata intenzione polemica antidannunziana.
Al di là della triade di autori appena descritta, il cui influsso è comunque delimitato, ne esiste un quarto che, al contrario, esercita su Lucini un magistero di vasta portata e tutt’altro che episodico, Ugo Foscolo. Le attestazioni di stima, del tutto incondizionata e ai limiti dell’apologia, sono ricorrenti e trovano la massima espressione nella conclusione del Verso Libero, in cui si parla di «eterno poetico didimeo, vertice, tormento e gloria delle lettere nostre italiane»(53). E anche Foscolo (quello didimeo, appunto, del Gazzettino del Bel Mondo) diventa un alter ego di Lucini, ispiratore di una linea civile della nostra letteratura fondata sull’ironia e sulla satira di costume. «Soli Foscolo e Carducci, aprendo e definendo il secolo, avevano saputo riserbarsi grandissimi poeti, essendo disputatori veementi di una politica d’eccezione»(54); la diade concettuale Foscolo-Carducci è particolarmente attiva ed efficace per Lucini, poiché i due poeti «costituiscono la vera “funzione” Parini della nostra letteratura»(55). Si tratta, ancora una volta, dell’indizio di un atteggiamento lombardo, teso ad assumere all’interno del proprio quadro ideologico (al cui principio sta, precisamente, il poeta del Giorno) esperienze allotrie per modificarle in senso civile ed etico. La lezione di Foscolo risiede tra l’altro nella fondazione di una letteratura che, per mezzo dell’ironia (e sulla scorta di Sterne, autore estremamente determinante anche per Dossi), scompagina le divisioni tra i generi e moltiplica le maschere dell’autore; in quest’ultima direzione, Lucini combina assai efficacemente Foscolo con Stendhal(56).
Rispetto alle auctoritas della scrittura civile, Lucini realizza un riscaldamento dei toni che certifica una maggiore aggressività politica; facendo agire, in dialettica con la tradizione civile italiana, il proprio anarchismo e quello del francese Tailhade, la sua scrittura si tende fino all’eccesso, trasfigurando una carica rivoluzionaria che ormai ha escluso dalla propria prospettiva la possibilità di una riforma della società dal suo interno (come avviene nel caso di Parini). Dall’invettiva e dall’apostrofe si passa così, senza ulteriori mediazioni, all’«imprecazione»(57) e alla «bestemia», secondo le parole dello stesso Lucini. Nel gusto per certa “scandalosa” violenza verbale, lo scrittore sembra toccare uno dei punti di più immediata convergenza con la Scapigliatura, ma le sue motivazioni si mostrano più profonde e radicate di quelle di un Praga. Scrive nel congedo delle
Antitesi, ironizzando sulla propria inclinazione a chiamare le cose con il loro nome:
Quante bellezze semplici e gioconde vi ho messo in bacheca nel libro;
e come fui guardingo in sui vocaboli indicativi, io, che sono di solito sboccato;
niente scatologia, niente pornografia, proprio come si usa nei salotti per bene asessuali ed eunuchi;
proprio come è di moda,
broda fogazzariana, elettuario idealista, faccia sentimentale
e misticismo di seminarista.(58)
Quando entra in gioco, l’ironia realizza, all’interno della scrittura luciniana, uno scarto non indifferente, in cui concentrazione polemica e densità stilistica tendono ad avvicinarsi e a produrre i risultati più ragguardevoli. Di fatto, la satira sembra essere la cifra – non soltanto ideologica, bensì propriamente formale – per mezzo della quale è possibile interpretare una parte piuttosto imponente della produzione di Lucini. In prosa, qualche referto è rintracciabile nelle pagine del Verso Libero
contro i gusti letterari della borghesia, contro i pedanti, o nei due volumi dell’Antidannunziana. Di una intentio satirica si trova traccia anche in un testo che, almeno in apparenza, parrebbe il meno idoneo, cioè il saggio Pro Symbolo: «mi sfuggirono, nell’irruenza del dire, acrimonie e sarcasmi, che mi piacciono ancora e li conservo ancora come movimento d’arte; né di questo mi dolgo, se pure chiedo venia»(59). La giustificazione è probabilmente dovuta a un ossequio, ancora piuttosto vivo a questa altezza cronologica, verso la concezione tradizionale, la quale destina la satira ai piani bassi dell’edificio letterario. Ma già nella Prima Ora della Academia si incontrano le prime timide espressioni della satira luciniana, «pillole omeopatiche a dosi alternate» di un veleno sociale. Se il Nipote di Rameau è, nell’impianto del poema drammatico, il vettore della carica satirica, spetta a Diderot tessere le lodi dell’efficacia di quest’ultima: «Così il veleno del sarcasmo / passa nei salotti: la satira. Ironia medicata, spuma / leggiera, che crepita scintilla e sfuma; acre al sapore, acre al pensiero»(60).
Il programma è formulato a chiare lettere, con tanto di riferimento classico, nelle Nuove
Revolverate:
Nel comporre e nel raccogliere tali satire determinate all’antica, quand’anche in versi liberi, fui e sono animato da un orgoglio luciferino. Mi propongo niente di meno di emulare e sorpassare Giovenale. Un Giovenale modernissimo ed istessamente crudele [...].(61)
A queste parole, Lucini fa seguire un elenco di nomi, nella stragrande maggioranza lombardi, che vanno a costituire l’albero genealogico della sua idea di satira: Porta, Heine, Giusti, Dossi e Parini. Non si tratta di autori citati a caso: in particolare Porta, Parini e, naturalmente, Dossi hanno lasciato tracce evidenti nella scrittura luciniana, sia sul piano ideologico che su quello figurativo (nella deformazione grottesca), fino a veri e propri depositi testuali. Memorie pariniane, per esempio, compaiono qua e là nelle Revolverate, vecchie e nuove, proprio laddove i testi sono più che mai attraversati dalla tensione etica. Si troverà così un «fimo alto che fermenta», che, seppure posto in bocca a Gioppino, non rivela alcuna volontà di irrisione, mentre la parodia intenzionale si mostra immediatamente in quel «Torna a fiorir Manzoni» che apre il Divertimento, una delle composizioni di maggiore rilievo parodistico(62).
A testimonianza del radicamento di Lucini nel contesto sociale e letterario della Lombardia non ci soccorre unicamente la genealogia poetica che lo scrittore si elegge, perché anche gli obiettivi polemici contro i quali si scaglia hanno una loro giustificazione storica. Al solo sfogliare la gran parte della produzione – sia critica che creativa – di Lucini, ci si imbatte piuttosto frequentemente in attacchi, severi o sarcastici, contro la borghesia, la quale si attesta quale bersaglio principale di tutto il sovversivismo dello scrittore. I documenti di tale atteggiamento recisamente antiborghese sono numerosissimi, tanto che non è nemmeno il caso di farne un pur minimo elenco: quello che pare utile stabilire, in effetti, non è quante volte e in che modo Lucini critichi la classe dominante, bensì la sua capacità di comprendere quale sia il suggello che questa, con la sua Weltanschauung, ha impresso alla sfera dell’estetico. E, di fatto, Lucini ha saputo individuare, senza dubbio per primo in Italia, il danno principale della mentalità borghese sull’arte, cioè la mercificazione: «Hanno industrializzato l’arte, la scienza, la politica, l’opinione pubblica; vi concorsero i vermiciattoli della scribacchiatura venale, i dubii arrivati, li imbecilli arrivisti, i così-così, in caccia di un ciondolo mallevadore della loro onestà, che poco persuade»(63). Fondata com’è su una realtà di fatto, su una conoscenza assai ravvicinata e non indeterminata dell’universo sociale messo in discussione, la rivolta luciniana, con tutti i limiti di una posizione politica en artiste, disancorata com’è da una prospettiva di classe, non ha i caratteri astratti di molta della scrittura civile dell’Ottocento (Carducci e Cavallotti in testa, tanto per fare due nomi familiari a Lucini). Il pubblico che Lucini ha presente non è una massa indistinta, possiede un’identità sociale ben precisa, quella della borghesia milanese (ceto di appartenenza dello stesso poeta), la quale ha tradito ogni istanza rivoluzionaria ed è ormai divenuta «a tutto indifferente che non sia machina, scambio, operai, cambiali»(64). Nella
Passeggiata sentimentale per la Milano di «L’altrieri», da cui è tratta la citazione, si sente
sovrappiù di consapevolezza storico-sociale che travalica nettamente il maledettismo scapigliato. La trasformazione dell’oggetto estetico in merce non risparmia nulla, arriva fino alle coscienze e investe perfino la città-opera d’arte per antonomasia: «Una Venezia che si lascia comprare, / tutto un mondo che ponsi all’incanto»(65).
Lucini constata dolentemente di vivere nel tempo in cui «la poesia si vende, / come il pane ed il vino, / come vorreste comperar l’amore»(66); il destino comune della letteratura e dell’amore, ambedue ridotti al rango di merci, disvela ancora una volta quanto sia efficiente, in Lucini, il nesso tra poesia e prostituzione. In un siffatto orizzonte storico, è ovvio che la responsabilità etica che lo scrittore lombardo attribuisce al proprio ruolo è enorme: l’intellettuale deve fare da baluardo contro la morale borghese, difendere il patrimonio della cultura dall’invasività della merce. Ecco perché Lucini decide di non scendere a compromessi con l’industria editoriale e di non aderire ai gusti del pubblico borghese, affidando così il proprio operato a un lettore a venire: per questa ragione, nell’esercizio della propria attività di critico, lancia in continuazione strali contro i letterati che cedono al mercato – i «vermiciattoli della scribacchiatura venale», produttori di una «baldracca letteratura»(67) –, con un piglio che, talvolta, diventa decisamente ingeneroso. È il caso, per noi piuttosto sorprendente, di Gozzano, dapprima apprezzato, poi, al momento del successo e del passaggio al biasimato Treves, stroncato(68). E in questa stessa ottica va interpretata l’avversione per D’Annunzio, la produzione poetica del quale si costituisce come il perfetto omologo della mentalità della classe dominante: «Data questa società è logico il suo poeta»(69). Lo scrittore pescarese è, appunto, «l’industriale di poesia», colui che ha asservito il proprio talento all’efficienza produttiva, vera pietra di paragone del borghese, per giungere infine a una «irrelata produttività
formale»(70). L’inconciliabilità delle due posizioni è sottolineata da Lucini nell’assenza, all’interno
della poetica dannunziana, di un fattore etico che giustifichi la letteratura: «non si può parlare di rinascita formale, cioè di scoperte nuove avvenute nel campo della bellezza, se ci accorgiamo che l’etica va a morire od è morta già»(71). E, a tale atteggiamento, la poetica luciniana risponde con la scrittura civile.
Se, nel dipingere con tratti grotteschi la borghesia, come fa in Revolverate, Lucini mostra la sostanza lombarda del suo operato – contraendo in particolare un debito notevole, da lui stesso in qualche modo ammesso nell’Ora topica, con il Dossi dei Ritratti umani –, occorre osservare che, rispetto al modello più ravvicinato, Lucini non cede alla tentazione reazionaria. Non v’è dubbio che nella sua condotta si possano scorgere istanze regressive e nostalgiche dell’aura perduta (sarebbe forse sorprendente il contrario), ma è altrettanto vero che, per lo più, la propria risposta alla perte
d’auréole Lucini la enuncia in termini progressivi. Tra il restauro della figura del vate proposto da
D’Annunzio (il cui rovescio della medaglia sembra essere il sarcasmo conservatore di Dossi) e la negazione della poesia caratteristica dei crepuscolari, Lucini si fa sostenitore di una terza via, quella di una rifondazione del ruolo del poeta. In altre parole, per condensare il discorso con una formula, tra l’orgoglio e la vergogna della poesia, lo scrittore lombardo sceglie una sorta di orgoglio critico.