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Le figure della vendicazione

Nel documento Una scettica confessione (pagine 187-192)

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MODI E MOTIVI DI UNA SCRITTURA CIVILE: GIAN PIETRO LUCINI

1. Le figure della vendicazione

Che Gian Pietro Lucini concepisca la poesia come funzione attiva, sia in senso individuale che collettivo, è pressoché implicito nella sua poetica anarchica («agire è la sola pietra di paragone colla quale si deve stabilire il valore del nostro sapere»(1)); resta da appurare, tuttavia, con quali modalità lo slancio rivoluzionario si traduce nei termini concreti della scrittura. Per lo scrittore lombardo, la parola letteraria, qualora sottesa da un ideale libertario, è essa stessa, «azione pura e luminosa»(2), che non necessita di mediazioni di carattere, per così dire, “contenutistico”. Lo stesso agire letterario, pertanto, diventa direttamente un operato in senso rivoluzionario: «arme ritrova la Ribellione nelle figure della canzone»(3). E ancora: «sian tutte queste carogne sociali / che abbattei con piacer, l’una sull’altra, / con giuste e numerate revolverate»(4). La pregiudiziale rivoluzionaria è connaturata al fare letteratura di Lucini, in un nesso inestricabile tra il livello ideologico e quello delle scelte operative: «ho espresso la poesia delle folle, delle rivoluzioni trascorse ed avvenire, il vortice ed il rombare delle grandi machine a scoprirsi, la felicità delli umili, la contentezza misera alla quale tutti possono accostarsi, l’angoscia della fame e la filosofia che verrà»(5). In particolare, sul piano della pratica testuale, due sono gli esiti maggiormente visibili: la predilezione per i momenti storici nei quali fermentano i movimenti rivoluzionari e l’elaborazione di una sorta di mitologia della vendicazione sociale.

L’interesse luciniano per l’istante “prima della rivoluzione” affonda le radici in quella che si potrebbe intendere come la preistoria della sua scrittura, vale a dire il romanzo breve Spirito ribelle, ma si sviluppa distesamente in Gian Pietro da Core e nella Prima Ora della Academia. Per quanto estremamente diverse fra loro, queste due opere rispondono, attraverso una sorta di reciprocità (l’una sembra essere il rovescio dell’altra), al medesimo intento: laddove nel romanzo Lucini vuole dimostrare l’erroneità di una lotta di classe che crede di poter fare a meno dell’apporto della cultura (e per questo inserisce il personaggio di Menicozzo il Savio quale proprio portavoce), nel poema drammatico la cultura prende direttamente la parola, diventa protagonista dell’agitazione rivoluzionaria. Viene così sottolineata l’importanza storica degli «Eroi» (Marat, Diderot, Condorcet e altri), mentre al Nipote di Rameau è delegata la funzione ironica e satirica del testo. È questo personaggio a chiudere, con le proprie parole, l’opera, con uno scarto metaletterario che sembra negare il valore della “visione” appena svanita:

[...] Tutto questo è Accademia,

una bislacca Venere pandemia, letteratura senza paura che non dà fondo a nulla, né meno alla pancia.

Udite le budella a risvegliarsi come ruggendo nel ventre capace. Noi potremo dormire? Dimenticate il presente e il passato. Tabula rasa: io continuo a ghignare.(6)

Il proposito di Lucini è l’esatto contrario di quello che dice, con fare sarcastico, il Nipote di Rameau (e quel ghigno conoscerà ulteriori incarnazioni, altrove), cioè dare vita a una letteratura che tenti di adoperarsi per il superamento delle contingenze materiali, sostenitrice di «idee che hanno la forza della fame»(7), secondo le parole di Sanguineti. Ciò giustifica, probabilmente, la presenza costante della fame (e della relativa povertà) come dato di fatto irriducibile e quasi assoluto, che, a partire dal Gian Pietro da Core, si propaga fino ai testi dotati di una maggiore e più immediata aggressività sul piano politico (due su tutti: Il Sermone al Delfino e La Nenia al Bimbo). Dice ancora il Nipote di Rameau, ottemperando al proprio ruolo di artefice di un controcanto ironico che abbassa costantemente il livello del discorso per condurlo all’orizzonte del ventre: «La vecchia prosodia è una retorica; questa filosofia / un accalappia nuvole. Rameau, l’idee son grigie / come uno stinco di morto alla notte, se tu non hai cenato»(8). Tra l’altro, la fine imminente dell’ancien régime è posta

in relazione con l’esaurimento del suo patrimonio culturale, la «vecchia prosodia»: il verso libero (messo in atto proprio nel testo che parla della Rivoluzione) si configura apertamente come arma rivoluzionaria(9).

«Evoluzione e rivoluzione: necessità»(10): la filosofia della storia di Lucini è tutta inscritta in queste parole, nell’idea di un processo storico che si muove in maniera ascensionale ed è nondimeno segnato da alcune fratture che gli imprimono improvvise accelerazioni; historia facit

saltus, insomma, e a questo balzo in avanti la letteratura deve cooperare in maniera fattiva, non per

via subordinata. Il primo e più ovvio corollario di una simile concezione della poesia è il rifiuto del «lavoro solitario nella torre eburnea»(11), del solipsismo romantico che fa dell’intellettuale un estraneo nel proprio mondo. Lucini propugna dichiaratamente una letteratura che possa avere un’eco nella società, che prenda la parola per fare giustizia dei delitti commessi dalla borghesia contro il popolo e contro l’arte (lo scrittore agisce infatti, allo stesso tempo, come vendicatore di sé stesso e di coloro che non hanno voce).

In tal senso, l’autentico punto di svolta nella coscienza poetica e politica (le due cose procedono appaiate), il discrimine nel percorso intellettuale dello scrittore è senza dubbio rappresentato dai moti milanesi del maggio 1898, i quali restano, anche negli anni successivi, una sorta di ferita insanata che grida vendetta: «La reazione savoina compiuta da Bava-Beccaris, il nuovo Haynau di Milano mi ha sollecitato all’azione politica più direttamente»(12). Lo scrittore interviene immediatamente – sia pure mantenendo l’anonimato, per sfuggire alla repressione – con Il Sermone

al Delfino, ma non perdona ai suoi colleghi un silenzio che giudica colpevole. Afferma altrove

Pierrot, nei panni del rivoluzionario: «Erano i giorni sacri all’Epopea, / la mite melopea della Tempe clorotica taceva; / tutto il mondo attendeva»(13). Se l’episodio storico evocato è in effetti la Comune parigina (vicenda molto cara a Lucini), non è difficile leggervi in controluce un attacco contro quei poeti che non hanno sentito l’urgenza di rendersi partecipi di avvenimenti tanto gravi. Alcuni anni più tardi, ben più apertamente, Lucini, nell’Antidannunziana, farà i nomi da accusare: «due fatti, essenzialmente italiani politici e civili, si avvicendarono in quest’ultimi tempi: I, le

giornate del maggio 1898; II, il terremoto siculo-calabrese. Davanti a questi avvenimenti,

Carducci, Pascoli, D’Annunzio rimasero silenziosi: la loro Musa non ha trovato verso»(14).

Le stesse maschere sono senza dubbio interpretabili, more allegorico, in chiave rivoluzionaria, quali «Maschere sante della ribellione»(15), dove l’attribuzione di santità fa corpo unico con l’idea di un «Popolo Cristo assassinato»(16). L’iconografia cristologica, in questo caso, non si riferisce al solo artista, ma, in senso più vasto, fa del Cristo l’allegoria degli oppressi: «è Cristo, cara, / è il povero pezzente, che Tu divori ogni dì; / è l’operaio che sciopera; è il ribelle che ha fame»(17). Nell’epica luciniana, pertanto, la figura del Cristo entra a far parte di una costellazione di simboli e di motivi tutti contrassegnati dall’idea della rivoluzione e della vendicazione (e sarà, allora, soprattutto un Cristo vindice).

«Vendicazione» è dunque parola cruciale per Lucini, sotto la cui insegna può collocarsi gran parte della sua produzione letteraria; essa compare ben prima del fatidico 1898 (che è pur sempre, secondo la specificazione luciniana, «Anno Vindictae Domini»), giacché, nell’Epistola apologetica, lo scrittore lombardo parla di una «volontà di vendicazione e di risorgimento»(18). La frequenza del termine aumenta ove il testo diviene in maniera più manifesta vettore di un particolare disegno contestativo, in particolare, ça va sans dire, nelle Revolverate. Il testo mostra, gia in limine, le proprie carte:

Per chi io canto questi fiori plebei e consacrati dal martirio plebeo innominato,

in codesto sdegnoso rifiuto di prosodia, per l’odio e per l’amore,

per l’angoscia e la gioja, e pel ricordo e la maledizione,

Da notare, ancora una volta, il fatto che Lucini sottolinea il nesso saldo e indissolubile tra la palingenesi sociale e la nuova forma d’arte, quel «rifiuto di prosodia» che è «sdegnoso» non soltanto per ragioni interne alla letteratura.

Il tema della vendicazione si ricollega, attraverso un itinerario ideologico-letterario fortemente radicato nella tradizione lombarda (e presente a Lucini medesimo) alla Scapigliatura, a quella rivolta ideale di cui essa era stata espressione. Nonostante l’autore del Verso libero non manchi mai di ricordare l’ambiente scapigliato con una non trascurabile vena di nostalgia (un esempio per tutti, la giustamente celebre Passeggiata sentimentale per la Milano di «L’altrieri»), sarebbe alquanto riduttivo fare di Lucini un epigono attardato della Scapigliatura. È sicuramente vero che egli ne eredita l’impeto sovversivistico, ma il suo progetto è meno astratto rispetto a quello di Praga e compagni, poiché viene a collocarsi in relazione – sia pure decisamente problematica – con i movimenti reali della società, non prende una colorazione di esclusiva impronta individuale(20). Qualora si confronti il concetto di vendicazione con il quadro di riferimenti letterari (e non) che costituiscono l’alveo entro il quale germina il sistema di scrittura di Lucini, non si potrà non ravvisare la matrice regionale di una siffatta tematica. Essa si presenta come variante individuale di una tensione morale della letteratura che caratterizza tutti gli scrittori lombardi, da Parini a Gadda; in Lucini, tale funzione etica è quanto mai operante – «persuadere nell’estetica, l’etica»(21) è uno dei suoi motti preferiti –, ma è assai inasprita, fino a trasformarsi, appunto, in «vendicazione», per varie ragioni, dalla perdita di ruolo dell’intellettuale (con la sua conseguente emarginazione) all’indebolimento e alla definitiva caduta delle aspettative rivoluzionarie riposte nella borghesia(22). Quest’ultima ha perpetrato un tradimento, inquinando con la mercificazione l’intera realtà, tanto che il poeta, magari nella posizione privilegiata dell’aristocratico, è incline a rifiutarla come destinataria del proprio discorso, indirizzato, invece, direttamente al popolo degli oppressi. È abbastanza scontato che un elemento ideologico costitutivo della scrittura luciniana come quello della vendicazione (e, più estesamente, della rivoluzione) abbia la propria corrispondenza in sede testuale in un sistema figurativo alquanto articolato. Nella poesia di Lucini è di fatto possibile rintracciare una sorta di mitologia della «divina Rivoluzione»(23) la quale, a sua volta, dà origine a un’iconografia che attraversa, quasi in forma di Leitmotiv, un’ampia parte della produzione creativa dello scrittore. Oltre al Cristo di cui si è già detto, almeno due sono le figure degne di nota nella costellazione rivoluzionaria, Prometeo e Gioppino, che, in virtù dei loro opposti caratteri (l’uno colto e letterario, l’altro basso e popolare), rendono pienamente conto dell’ambivalenza della scrittura luciniana.

Nell’economia della produzione letteraria di Lucini, il burattino Gioppino, di origine specificamente lombarda, riveste un ruolo tutt’altro che secondario, come attesta la sua presenza costante nelle opere dello scrittore; con il suo manifestarsi essa copre infatti un arco temporale che parte dal Gian

Pietro da Core e arriva fino alle Revolverate, attraversando così una porzione non esigua dei testi

creativi luciniani. E, di tale produzione, Gioppino è magna pars, al punto da travalicare l’orizzonte entro il quale dovrebbe muoversi, quello peculiare della teatralità, per entrare anche nel territorio della narrativa. Il burattino bergamasco (ché di questo si tratta, effettivamente, e non di una maschera della Commedia dell’Arte) si delinea quale funzione ideologica dell’autore, ne costituisce uno dei portaparola di maggiore rilievo e significatività; nondimeno, e nonostante una deformità che, con un facile psicologismo, indurrebbe a intravedervi una proiezione di quella di Lucini, è difficile scorgere in lui – come avviene invece nel caso di Menicozzo il Savio – un travestimento del poeta. Al massimo, mediante un processo analogo alla mise en abîme, è lecito immaginare il fantoccio quale appendice, fisica e soprattutto ideologica, di Menicozzo stesso.

Già nel romanzo, nell’episodio della recita per i contadini, il burattino liberatore è descritto con tratti che ne accentuano la centralità: «Quel suo Gioppino ridicolo, cavalier di virtù, ardito combattente, giocondo ed astuto di furberia montanara, dall’eloquio imaginoso a tropi ed a figure, imperniava a torno a sé tutto il perché dell’azione»(24). Senza sradicarlo dalle sue origini, il narratore innalza il personaggio a una dignità che si potrebbe definire epica: «Per lui, la nostra poesia nostalgica dell’azione suscitò, dalle guerre, l’Epica»(25). Gioppino combatte «colla sceda e

col randello»(26), diventando specchio della necessità di congiungere in un’azione integrata e unitaria le armi dell’intelletto con quelle della piazza.

Tuttavia, il temperamento caustico e l’intransigenza da vendicatore dei torti non sono requisiti attribuiti ex novo da Lucini a Gioppino, poiché sono già racchiusi nella caratterizzazione popolare del personaggio: lo scrittore ne amplifica il tratto “politico”, per farne il ribelle per antonomasia. Esso rappresenta, nella sostanza, la «vendicazione» incarnata, tanto che la sua sola presenza è sufficiente per arrecare disturbo, e magari anche timore, ai nemici degli oppressi. Nella Nenia al

Bimbo, colui che parla con il figlio di aristocratici dice: «i giuocattoli dormono anch’essi. Che

peccato, però hai / il teatrino colle marionette: ma ti manca il villano colla falce»(27). Per allegoria, si può leggere qui la rappresentazione della rimozione (anche nel significato propriamente psicologico) operata, nel tentativo di preservarsi, dalle classi alte nei confronti della miseria e delle potenzialità di rivolta delle masse. Così, con un chiaro intento pedagogico, il Gioppino viene allontanato dagli occhi del bimbo ricco. A sua volta, il burattino si rivolge ai bambini poveri definendoli: «genitura clamante dentro al vizio / dell’eterna miseria, progenie a cui è destinata la più fatale / opera del futuro, progenie destinata alla vendicazione»(28).

È proprio nei Drami delle Maschere, per forza di cose, che a Gioppino è accordato più ampio spazio, grazie al quale dispiega tutte le proprie virtualità letterarie e iconografiche. Il personaggio, infatti, e qui risiede la sua specificità di rappresentante delle popolazioni rurali, fa riferimento in maniera quasi ossessiva, nei propri discorsi, ad aree semantiche “basse”, relative alla corporalità (la fame e la polenta); ciò ne mostra la parentela stretta con altre due maschere fondamentali, Arlecchino e Brighella (il Monologo di Brighella è infatti tutto improntato a un linguaggio gastronomico). Ovvio, dunque, che Gioppino funzioni, nel testo, come doppio parodico di personaggi che si collocano – o tentano di collocarsi – nel territorio del sublime; è il caso, per esempio, del Monologo del Don Juan, alla conclusione del quale la comparsa del burattino fa l’effetto di un improvviso rovesciamento e abbassamento di tono del discorso. In tal caso, Gioppino assolve la funzione di cattiva coscienza del seduttore: «porto / davanti a voi e vi rivelo nella gola sformata tutti i vostri delitti»(29). Egli è perciò dotato di una qualità ostensiva della fame e della miseria che lo rende un disvelatore del senso che si cela dietro le apparenze nobili: opera, in ultima istanza, per contrasto.

Nel personaggio di Don Juan è sempre dato vedere, nei testi luciniani, una valenza nettamente negativa: esso di fatto contribuisce a rappresentare le classi elevate con tutto il loro corredo di vizi, a cominciare da quello della seduzione, particolarmente gravido di insidie sul piano sociale (oltre che eticamente condannabile). Il giudizio di riprovazione nei confronti della figura del seduttore è un’altra di quelle tematiche che inducono a descrivere Lucini come scrittore saldamente ancorato a un “discorso lombardo” della letteratura. Dal «giovin signore» pariniano al Mussolini interpretato da Gadda in Eros e Priapo, la seduzione, sia che si eserciti sulle donne che sulle masse di lettori e di elettori, è destinata a ricevere una severa condanna. Nel caso dell’autore delle Revolverate, l’apice di tale valutazione negativa è raggiunto nel sarcasmo feroce con il quale si biasima il dongiovannismo dannunziano, attivo costantemente e in ogni direzione, ancor più pericoloso in quanto teso alla realizzazione di un consenso popolare attorno alla persona del poeta(30). Ed è per queste ragioni che Lucini tende a immaginare il proprio operato contro i «Don Giovanni / della poltrona e piatta modernità»(31) come analogo a quello del Commendatore: la scrittura civile si immedesima così nella parola del Convitato di Pietra.

All’altra icona della rivoluzione, delle due individuate, cioè Prometeo – il cui nome è accostato a quello di Cristo(32) –, è intitolato il testo di apertura del libro primo delle Antitesi. Attraverso un procedimento di ipersignificazione di un ipotesto, l’eroe greco, con Shelley (un brano del quale è posto in epigrafe da Lucini alla sua composizione), si è progressivamente trasformato nel portatore di un ideale libertario che lo scrittore lombardo accentua ulteriormente all’interno dell’ottica anarchica(33). Il carattere di Prometeo, alleato degli uomini e fautore di una rivolta contro gli dei, non può non entrare in risonanza armonica con la poetica anarchica di Lucini. In più, nell’etimologia del nome dell’eroe (che è profeta, anticipatore del futuro) si stabilisce un’affinità

con la natura di rivoluzionario e iniziatore del nuovo che Lucini attribuisce, tra l’altro, al poeta, il quale si propone, appunto, come «Prometeo moderno»(34). Ma ciò che più interessa, nell’uso che lo scrittore fa del mitologema, è il bagaglio figurativo che se ne determina; questi i versi conclusivi di

Prometeo: «Noi veniamo con te: dai pali avulso / scardina il mondo: ribellion di gioia / rida di

fiamma, domini col fuoco»(35). In questa specie di apologia della distruzione vanno a convergere numerosi motivi provenienti dal romanticismo, da Nietzsche e dall’ideologia anarchica; ed è piuttosto sintomatico, nonché singolare (data l’epoca), che al Prometeo faccia seguito, nella stessa sezione delle Antitesi, la figura di un altro distruttore rivoluzionario, lo scandaloso Sade.

Nei versi citati poco sopra occorre sottolineare, accanto agli elementi ideologici, il dato iconografico del fuoco, strettamente correlato all’immagine della rivoluzione. Attraverso un’analisi dei testi luciniani attenta ai fenomeni dell’immagine, è possibile individuare una sequenza analogica e metonimica schematizzabile nel modo seguente: Prometeo – fuoco – rivoluzione – sangue – rosso. In effetti, la presenza di un singolo termine non comporta affatto l’immediata evocazione di tutti gli altri; le occorrenze di Prometeo, per esempio, sono circoscritte a pochi testi, poiché esso agisce per lo più in profondità, quale repertorio figurativo dal quale attingere incessantemente. Tuttavia, non c’è dubbio che si possa scorgere una struttura triadica di base (fuoco, rivoluzione, rosso) che esercita la propria forza di evocazione in senso iconografico nella gran parte della produzione luciniana.

Ha scritto Bachelard che «tutto ciò che cambia rapidamente si spiega attraverso il fuoco»(36), sottolineando in sostanza la potenzialità rivoluzionaria e trasformativa di quest’ultimo. Nel caso di Lucini, in virtù dell’attivazione di un nesso metonimico, il fuoco e il rosso (del fuoco stesso, del sangue e delle bandiere) costituiscono le concretizzazioni della vis rivoluzionaria della scrittura; tuttavia, sempre come elemento di trasformazione, la fiamma appartiene anche alla simbologia alchemica, senza dubbio non ignota allo scrittore lombardo. E se in Palazzeschi, per esempio, il rosso rimanda a una catena referenziale «tutta negativa»(37), fondata su un dramma inconscio, per Lucini esso è al contrario dotato di segno positivo, giacché legato alla sfera del fluido e del trasformabile, secondo la lettura fornita da Viazzi(38). Scrive Lucini nel Sermone al Delfino:

Fiammi la Coscienza popolare, intensa,

come un rogo, vendicazione. Fiammi raggi e distrugga: e sorgano crepitanti le lingue improvvise, febrili, lambenti

ai fastigi scolpiti dei palazzi.(39)

Ma è nella Nuova Carmagnola delle Revolverate che si registra l’assoluta identità tra il fuoco e la rivoluzione; il testo è infatti una sorta di inno alle facoltà distruttive del fuoco stesso:

Sprizza, va, scintilla attizza, nella bizza del pitocco:

esaspera il sesso delle prostitute, arma di ciottolo la mano scabra del bastardo vagabondo;

nel profondo dell’anima incoraggia: precipita e confondi

superstizione e libertà, lecito e arbitrio, virtù e delitto; nel conflitto secolare,

tra l’imperial straccioneria e i ricchi, soffio, furia, devastazione:

i pasciuti riusciti a pontificare,

dopo il dominio breve, si preparano le bare.(40)

Il rosso, la cui frequenza è ancor più rilevante, si pone come colore naturale della rivolta, così che la scrittura è «poema di rossi perché»(41); inoltre esso compare regolarmente quale segnale visivo di una esplosione di passione civile, sia in senso privato che collettivo: «Bolle la terra, e bolle il cuore,

/ non v’è colore miglior del rosso»(42). Questi due versi si ritrovano, pressoché invariati, nella

Nuova Carmagnola, testo che già nel titolo rivela quanto la Rivoluzione francese, «il più grave fatto

politico e sociale dell’Europa moderna»(43), abbia influito sulla formazione intellettuale di Lucini, tanto da configurarsi come una sorta di mito originario, luogo di elaborazione di un gran numero di

Nel documento Una scettica confessione (pagine 187-192)