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Tendenze di medio periodo

Nel documento Una scettica confessione (pagine 103-127)

TOGLIATTI E LA POESIA DI «RINASCITA» (1944-1960)

2. Tendenze di medio periodo

Stando ai dati numerici, nel periodo considerato la politica redazionale sembra inclinare verso un lento quanto inesorabile disimpegno dall’uso del testo poetico (fig. 1)(9). Dai picchi del 1945 (con 21 testi inseriti nelle 12 mensilità)(10), si produce un regolare declino (a parte un piccolo aumento tra il 1950 e il 1953) che porta ad un azzeramento delle presenze nel 1959. Questo processo è in parte spiegabile con la cessione degli aspetti artistici ad altri periodici (come «Contemporaneo» o «Società»); in parte, in modo consistente a partire dal 1955-1956, a seguito di un ripensamento complessivo della linea culturale. In una serie di comitati di redazione precedenti e poi con forza nel VII congresso del 1956, le strutture interne cominciano a richiedere a gran voce l’apertura del partito a ambiti culturali nuovi, più tecnici e più attrezzati a cogliere i repentini sviluppi della società italiana (sul fronte della vita di fabbrica, in cui cominciano ad introdursi i primi germi di automazione, come sul fronte della cultura dei ceti medi, con l’ingresso di nuovi media e di nuovi linguaggi), superando la tendenza umanistica con il suo corollario di discipline e saperi. La poesia, avvertita come un vecchio vizio dei quadri e dei dirigenti di partito, viene marginalizzata per fare posto a una lotta culturale più al passo coi tempi (si pensi ad esempio alla sfida posta dal nuovo pensiero sociologico americano). Anche nell’approccio alle questioni umane (qualità della vita di fabbrica, condizione contadina, alienazione..), il compito di documentazione materiale ed esistenziale che poteva essere assolto dalla poesia neorealistica viene superato dalla più aggiornata inchiesta sul campo, seguendo l’esempio dei socialisti di «Mondo operaio» di Raniero Panzieri. All’interno di questo processo di crescente marginalizzazione sono rilevabili ulteriori fenomeni di medio periodo. Tra il 1944 e il 1960 la platea di testi pubblicabili includono autori italiani, dialettali e stranieri (fig. 2). Tuttavia, si scorge nel tempo una forte mutevolezza dei valori, che allude, naturalmente, anche ad un ripensamento delle linee estetiche. Dal 1956 si osserva la scomparsa della poesia dialettale, che ha rappresentato una componente quantitativamente e qualitativamente centrale in «Rinascita». Dello stesso anno è poi l’indiscutibile sorpasso della poesia straniera, che scalza sistematicamente per numero la produzione nazionale. Il 1956 si conferma, come immaginabile, un anno centrale per la riformulazione culturale degli organi legati al Pci. Non è improbabile, per altro, che la sostituzione alla testa della commissione cultura di Salinari da parte di Mario Alicata avvenuta nel 1955 abbia inciso su questi aspetti(11). Tuttavia, a prescindere da questioni legate alla composizione degli organismi culturali del partito, il risultato è chiaro: come si approfondirà anche in seguito, il venir meno combinato della produzione dialettale e di quella italiana a favore della componente estera – spesso di grande qualità – denuncia da un lato il colpo di mano della compagine più raffinata della redazione proprio quando la poesia diviene di fatto marginale rispetto ai piani del Pci; dall’altro segnala il riassorbimento della carica “sperimentale” della rivista, in cui poesia e politica convivevano – almeno nei progetti iniziali – in un tutto organico. La proposta estetica di «Rinascita», insomma, dal 1956 si normalizza.

A mutare nel tempo è poi un’altra componente significativa della proposta poetica. Uno dei tratti caratterizzanti di «Rinascita» è il gusto elitario per la presentazione di testi in lingua originale, spesso forniti senza traduzione. Pur essendo una rivista ad ampia diffusione(12), il lusso di pubblicare testi in lingua denunciava a colpo d’occhio la destinazione implicita del mensile: adatto ai quadri e alla dirigenza del partito, scritta e prodotta per le élite colte; per militanza e simpatizzati vi erano organi più consoni (come «Società», «Contemporaneo», «Il Calendario del Popolo»). Si trattava per lo più di produzione francese, o al limite spagnola. Al di là dell’occhieggiamento elitario, l’operazione in parte si giustifica con la passione filofrancese di Togliatti, nonché con l’intento implicito di rinsaldare i legami di una dirigenza che in gran parte aveva scontato l’antifascismo in lunghi anni di esilio oltralpe. Tuttavia, la pratica dei testi in originale verrà accantonata di fatto attorno al 1949 (fig. 3). Perché? Proprio a partire dal 1949 «Rinascita» apre alla pubblicazione di diverse tradizioni nazionali: accanto a quella francese (presidiata soprattutto da Eluard e Aragon), vengono ora accolti testi di autori sudamericani, russi, e in misura minore tedeschi, turchi, nordafricani (fig. 4). L’impossibilità di fornire versioni originali in tutte queste

lingue avrà spinto per uniformare gli usi, a scapito delle antiche consuetudini. Ma a questa spiegazione meccanica se ne può affiancare un’altra. Il venir meno delle versioni in lingua è strettamente legato al venir meno della produzione francese, documentabile negli stessi anni. Curiosamente, l’andamento di quest’ultima pare inestricabilmente legato all’andamento della componente russa. La presenza di testi di Puškin, Majakovskij e altri è facilmente spiegabile con l’inasprimento della divisione tra i blocchi(13) e con l’ovvia vicinanza culturale che il Pci tiene a segnalare. Tuttavia, ciò non dice ancora nulla sull’evidenza quantitativa che sottolinea il continuo balletto tra testi russi e testi francesi tra 1948 e 1957, in cui le due tradizioni sembrano letteralmente darsi il cambio: al picco positivo dell’uno corrisponde un picco negativo dell’altro (si vedano in particolare le annate ‘48, ‘49 ‘52, ‘56 e ’57, in fig. 3). Proviamo ad avanzare alcune ipotesi.

Nel settembre 1947, alla prima riunione del Cominform il Pci e il Pcf vennero pesantemente accusati di gradualismo e di parlamentarismo dai dirigenti del Pcus e in particolare dal fronte jugoslavo(14). Questo scontro provocherà un solco tra i due maggiori partiti comunisti dell’Europa occidentale destinato ad acuirsi negli anni. Per smarcarsi dalle accuse del Cominform, Thorez (segretario del Pcf) sarà costretto a prendere le distanze dalla politica togliattiana, facendo il gioco di chi, come Pietro Secchia, condannava l’operato del leader dalla “svolta di Salerno” in poi e sostenendo in parte la posizione di Tito. All’interno di questo gioco di alleanze tuttavia, lo stesso Stalin, sconfessando le posizioni dei maggiorenti del Pcus, sostiene le scelte di Togliatti sia contro gli oppositori interni al Pci, sia contro gli jugoslavi e i francesi. La scelta di Stalin verrà poi formalizzata nella seconda riunione del Cominform del giugno del ’48. La programmazione culturale di «Rinascita» del 1949, per quanto attiene alla componente della poesia straniera, risente allora di questi echi: la marginalizzazione della componente francese e l’inedito aumento della poesia russa intercettano il mutare dei rapporti tra i tre partiti. Il Pci, anche attraverso la pubblicazione culturale lancia un segnale politico: l’allontanamento dalla tradizione francese e il contemporaneo avvicinamento alla componente russa sottolinea il raffreddamento dei rapporti con il Pcf e l’avvicinamento strategico al Pcus.

Nel giugno del 1952 compare sulle pagine di «Rinascita» una poesia di Paul Eluard intitolata À

Jacques Duclos. Jacques Duclos, segretario ad interim del Pcf, nel maggio del 1952 fu arrestato

dalle autorità francesi con l’accusa, poi rilevatasi completamente infondata, di «complotto contro lo stato»(15). Quello che venne definito «complotto dei due piccioni» perpetrato dalle forze reazionarie francesi contro il dirigente comunista, scatenò vigorose proteste anche in Italia(16). In particolare la segreteria del Pci si mobilitò in una battaglia per la liberazione di Duclos, funzionale non solo a manifestare solidarietà tra i due più importanti partiti comunisti europei, ma anche per spingere sul pedale dell’accusa contro una propaganda reazionaria e anticomunista invasiva anche in Italia(17). Durante le elezioni amministrative svoltesi tra il 1951 e il ’52 e sulla loro scia, la segreteria del Pci decise di puntare sulla lotta all’anticomunismo e alla reazione(18), nonché sulla denuncia dell’asservimento della DC ad una forza straniera come gli Stati Uniti d’America(19). Per fare questo però vi era la necessità, da un lato di allentare l’ingombrante presenza sovietica e dall’altro di sottolineare la comune condizione sofferta dai partiti comunisti europei(20). La pubblicazione di testi francesi e la consustanziale scomparsa di poesie russe nell’annata 1952 appare legata ancora una volta alla stretta attualità politica. La presenza di poesie di Eluard accompagna una esibita solidarietà al Partito Comunista Francese, quando le necessità politiche consigliano un allentamento dei rapporti tra il Pci e il Pcus. La poesia funge allora da strumento attraverso cui cementare di volta in volta alleanze tattiche con il fronte europeo o con quello sovietico.

La selezione dei testi poetici da inserire in rivista rivela una cronologia che segue con grande attenzione il gioco di accordi e di scontri interni al Cominform e al sistema di alleanze tra i partiti comunisti occidentali. Lo stesso ampio spazio accordato alla produzione italiana almeno fino al 1948 (quando cioè, come accennato, la scelta di campo non era più eludibile con l’inasprimento della Guerra Fredda), può in effetti considerarsi un corollario della strategia togliattiana di radicare il partito (sulla linea della proposta già avanzata da Gramsci e da Togliatti condivisa sulle pagine di

«Ordine Nuovo») nel tessuto culturale della nazione. Non è un caso, come detto, che dal 1956 (ma a ben vedere già dal ‘52) la primazia della produzione italiana cederà il posto alla componente estera. La poesia allora rivela, già a questo primo livello di analisi, una forte correlazione con le grandi questioni politiche: sottolinea e approfondisce il gioco di alleanze internazionali nel contesto della politica dei blocchi e persegue una linea di radicamento nazionale grazie anche al gioco di sponda con la produzione dialettale.

3. Tre fasi

L’uso del testo poetico muta nella rivista anche dal punto di vista dell’impaginazione e del contesto di caduta, sottolineando così importanti svolte nell’elaborazione della politica (non solo culturale) del Pci. I dati consentono di articolare chiaramente tre fasi.

Dal 1944 fino grossomodo al 1950, la poesia accompagna i diversi contenuti proposti dalla rivista. La selezione dei contesti sembra dunque assecondare pratiche di “contiguità”: la poesia selezionata funge da corollario artistico dei temi proposti negli articoli. Nel secondo numero (luglio 1944), ad esempio, la poesia neorealista a contenuto resistenziale di Nino Sansone (Il nostro dovere) viene posta in calce all’articolo Il marxismo e la lotta per la democrazia di Vincenzo La Rocca. La necessità espressa da Sansone per la lotta resistenziale contro i nazifascisti conserva per La Rocca la sua attualità anche nell’Italia repubblicana: serve a garantire il pieno sviluppo democratico contro i residui reazionari(21). Articolo e poesia costituiscono un pendant confermativo: l’uno costituisce, nei fatti, la conferma delle tesi dell’altro. Se questo è il modulo base, non risulta tuttavia il solo. Spesso è la specificità linguistica e retorica a consentire alla poesia di assolvere pratiche più complesse e meno lineari. Nel fascicolo del giugno 1944 viene pubblicata Primu Maggiu di Giovanni Formisano. Scritto in dialetto siciliano, il testo è imperniato su una similitudine centrale, ben espressa da questi versi: «li Santi, lu Signuri / dappresso non ni perdunu di vista / ca fòru como

a nui scausi e nuri / li primi Comunisti!» La collocazione di Primu Maggiu consente una doppia

interpretazione, posta com’è dai redattori tra la lettera di Guido Dorso Per il risanamento politico

del Mezzogiorno e l’articolo di Eugenio Reale Comunisti e cattolici. Da un lato, l’uso di una poesia

in dialetto siciliano vuole suggerire l’idea di una forte attenzione del Pci alla questione meridionale e alle sofferenze dei suoi strati popolari; dall’altro, l’uso insistito della similitudine, che consente un accostamento esibito tra il lavoro dei comunisti durante il ventennio e la predicazione di Cristo e i suoi discepoli, tende a sottolineare l’idea di una profonda unità culturale tra i due fronti ideologici. Attraverso una comparazione che viene accreditata almeno a partire dal poema I dodici di Alekandr Blok, i comunisti si propongono dunque come i più autentici prosecutori del messaggio cristiano. La genericità del paragone contrasta però con la stringente necessità del contesto: questa poesia accompagna il tentativo (perseguito da Togliatti almeno fino alle elezioni del 18 aprile del 1948) di gettare le basi per un’alleanza tra i comunisti (il Pci) e gli strati popolari più a sinistra del mondo cattolico (da strappare, ovviamente, all’abbraccio della Dc). I termini in cui questa politica viene espressa sono lontanissimi da quelli esposti nella similitudine di Formisano. Per la dirigenza del partito infatti – come esprime bene anche l’articolo di Reale – il patto tra Pci e strati popolari cattolici va ricercato nella comune radice antifascista maturata in anni di soprusi da parte del regime(22). Si tratta dunque di un accordo eminentemente tattico: Togliatti – impegnato per altro in una violenta polemica anticlericale – non avrebbe mai potuto sostenere che cristianesimo e comunismo hanno radici e esiti affini, cosa che invece può permettersi di fare il discorso poetico. I versi insomma vengono incaricati di esplicitare contenuti inesprimibili pubblicamente, per lo meno in termini schiettamente politici. Ad essi viene affidata la possibilità di esprimere mozioni emotive, non razionalizzabili, fortemente semplificate ed estetizzate, in grado però di far presa su una parte della militanza meno incline ad assecondare il respiro breve della necessità storica.

Si è detto che la poesia viene utilizzata in questa prima fase per esprimere contenuti inesprimibili in termini di discorso esplicito, per confermare con altri mezzi posizioni politiche, o per segnalare

vicinanze o distanze tattiche tra forze differenti. Un’ulteriore modalità d’impiego riguarda invece la capacità della poesia di rafforzare e sostenere, per così dire, la mitopoiesi del partito. La poesia interviene per rinverdire elementi culturali che fanno ormai parte del patrimonio simbolico del Pci: la lotta resistenziale contro il nazifascismo; la celebrazione di leader sovietici e non (Il nome di

Dimitrov di Blaga Dimitrova; Scusa, Vladimiro Ilic di Renata Viganò; Per questo nacque Lenin di

Vladimir Majakovskij); il canto dei vari martiri della causa (In memoria di Eugenio Curiel di Alfonso Gatto, Coro dei compagni caduti di Renzo Nanni, Il tempo degli eroi di Ettore Settanni,

Légende de Gabriel Péri di Aragon); la funzione antinazista dell’Armata Rossa (Quattro poesie per l’armata rossa, di L. C.); il mito dell’unità della comunità-partito e così via. Occorre soffermarsi

brevemente sul primo e sull’ultimo aspetto.

L’abbondanza del richiamo alla lotta armata, pur essendo ovviamente parte integrante della cultura del Pci (che si è sin da subito accreditato quale forza centrale e imprescindibile della guerra al nazifascismo), conserva aspetti ben più specifici, inerenti alla gestione interna delle diverse sensibilità politiche. In particolare, la produzione resistenziale costituisce un segnale lanciato dal segretario alla minoranza interna addensatasi attorno alla figura di Pietro Secchia, «che incarnava nel partito gli umori più radicali legati alla guerra di Liberazione»(23). Dopo la svolta parlamentarista del ’44, permaneva in questa minoranza (che non aveva abbandonato del tutto il miraggio di una sommossa armata), una forma più o meno esplicita di malumore nei confronti della linea democratica del segretario. Il mito del ribellismo e dello spontaneismo rivoluzionario contro l’occupazione nazista viene allora usato da Togliatti come una sorta di addomesticamento simbolico (ovviamente non del tutto efficace) verso una componente del suo stesso partito; rappresenta cioè il modo in cui prende corpo la normale dialettica interna ad un’organizzazione politica. Non è un caso, per altro, che questo filone si spegnerà lentamente attorno al 1947-48 (vedi appendice). Ciò avverrà non solo per ragioni fisiologiche (l’allontanamento temporale dai fatti descritti comporta una forma di attenuazione), ma soprattutto per ragioni strategiche: con l’approssimarsi da un lato delle elezioni politiche del 1948 e dall’altro con il favore accordato da Stalin alla linea moderata di Togliatti (nel Cominform del settembre 1947 e poi in ulteriori incontri tra i dirigenti del Pci e del Pcus a Mosca avvenuti nel dicembre dello stesso anno), il richiamo alla componente rivoluzionaria e alle forze resistenziali vicine al Pci diviene sempre meno necessaria e opportuna(24).

Altrettanto rappresentativa di come la poesia costituisca una forma di sostegno alla linea ufficiale del Pci è il testo di Alfonso Gatto Ai compagni d’Italia, di cui si riproduce sulla pagina della rivista il manoscritto(25). I versi di Gatto aprono il V Congresso del partito tenutosi a Roma tra il 29 dicembre 1945 e il 6 gennaio 1946. Puntando su elementi non divisivi come la Resistenza e la lotta operaia, essi risultano particolarmente consoni ad inaugurare l’inizio dei lavori, ponendo l’accento sugli elementi di unità in un momento di per sé critico della vita di un partito. Più a fondo, però, Ai

compagni d’Italia sembra scritta e pubblicata con l’intento specifico di propiziare quello che è il

programma politico avanzato dalla segreteria. Le relazioni di Togliatti e di Longo esposte in quella sede, infatti, intendono aprire alla costruzione di un «partito unico della classe operaia» attraverso la fusione paritaria tra Partito Comunista e Partito Socialista(26). Una mozione non facile da digerire per la militanza (d’altronde si rivelerà essere solo una mossa di corto respiro di Togliatti): il ruolo della poesia di Gatto, facendo leva su elementi largamente condivisibili da una compagine di sinistra eminentemente rivolta alla questione operaia, sarà di accompagnare e sostenere la linea politica della segreteria, cercando al contempo di mantenere ordinato il piano della discussione, rafforzando la cultura dei legami interni e enfatizzando i punti di contatto con i compagni socialisti. Anche la poesia localistica, sia essa in dialetto o in italiano, assolve una funzione particolarmente importante in questa prima fase. Ne articolerei gli usi in due macrogruppi: la poesia centrata su questioni di “area” e la poesia-poesia dialettale. Nella prima categoria si includono testi che intendono porre attenzione su specifiche questioni politiche e sociali locali: ad esempio a illustrare le condizioni di particolari classi di lavoratori (come le mondine nella poesia di Renata Viganò)(27), o a solidarizzare con le popolazioni colpite da calamità naturali (come nell’Orazione

comunità locali su questioni specifiche: rilevante in questo senso è il testo sulla coeva lotta per la terra in Romagna a seguito della riforma agraria varata nell’ottobre del 1950 (Raoul Bartolotti, La

lota par la tèra)(29). Si tratta in maggior parte di una poesia che si fa cronaca, che spesso cioè

traduce in termini estetici la più stretta attualità perché vuole agire su di essa. Una sorta di poesia-manifesto che innalza la dignità del fatto in analisi.

Il secondo gruppo invece raccoglie assieme tutti i testi accomunati da una pura specificità linguistica: sono cioè scritti in dialetto, a prescindere dal loro contenuto. Sebbene legati a temi generalmente pauperistici e a classi marginali, non vi è alcuna necessità sociale né urgenza politica. Rientrano in questa categoria le poesie di Trilussa, dello pseudonimo Trinacria, di Spampinato Sciuto, di Ciccio Carrà Tringali, di Cesare De Murtas o di Giuseppe Gioacchino Belli. Ciò che conta nell’uso di questi testi è in realtà la loro diversificazione regionale. I redattori di «Rinascita» sembrano cioè particolarmente attenti a rappresentare, attraverso i vari dialetti(30), tutte le realtà regionali del Paese. Questa strategia, se da un lato ovviamente può essere fatta risalire alle teorizzazioni gramsciane sul folklore, ha anzitutto la ragione strategica di radicare il part ito nelle singole realtà locali. L’impostazione per così dire federativa del Pci (una confederazione di strutture ben ancorate ai territori) si riscontra già nelle direttive del partito avanzate nel 1947(31). Orientamento poi confermato da Togliatti nel suo intervento alla Commissione cultura del partito nell’aprile del 1952, quando esortava a «studiare a fondo tutta la cultura nazionale, ricercando nella “tradizione nazionale e popolare […] gli elementi italiani di una cultura socialista nostra”»(32). Per altro, il forte apporto della cultura regionalistica e locale e specialmente la sua focalizzazione su questioni legate a lavori preindustriali (braccianti, mondine, sigaraie…) veicolata attraverso la poesia, sembra accondiscendere alle volontà di una parte del mondo comunista che rimaneva legata ad un’immagine plebea delle masse italiane e da un capitalismo destinato in occidente al declino e all’estinzione(33). La stessa segreteria del Pci, sebbene attenta alle innovazioni che soprattutto nei primi anni Cinquanta inondavano il mondo della fabbrica, non era immune da questa deriva.

La prima fase dunque (1944-1950) vede un intervento a tutto campo della poesia, che si trasforma in un corollario della produzione saggistica. La sua selezione discende in ultima analisi dalle linee

Nel documento Una scettica confessione (pagine 103-127)