Questo è un breve testo sulla posizione del poeta. Parto da due suggestioni emblematiche.
La prima è l'immagine di Francesco Petrarca, che Andrea Zanzotto in un suo remoto scritto divideva tra stanzetta e palazzo – ovvero l'immagine di un poeta diviso in maniera armonica tra la sua attività contemplativa e di scrittura (quello che Julien Benda chiamerebbe perfetto chiericato), e la sua attività pubblica, se non direttamente politica, visto l'alto prestigio intellettuale che egli godeva in tutta Europa.
La seconda è a noi più vicina, e riguarda rispettivamente gli autori a cui mi ispiro in questo breve scritto, ossia Julien Benda, per Il tradimento dei chierici, e Fernand Braudel, per Storia misura del
mondo: ebbene, qui abbiamo un'immagine doppia emblematica di un'epoca (ma anche del destino
singolo di due intellettuali), del tutto complementare a quella di Petrarca. Julien Benda pubblica la sua opera maggiore in due momenti cruciali della storia del Novecento, la prima vota nel 1927, la seconda nel 1946, dopo che la Seconda guerra mondiale non solo lo aveva costretto, in quanto ebreo e non-collaborazionista, a vivere e lavorare in clandestinità, ma anche aveva fatto emergere in maniera inequivocabile che la Francia era spaccata in due, tra gollisti e collaborazionisti – in questo senso riveste ancor oggi un estremo interesse per noi la Prefazione alla nuova edizione del 1946, dove si chiarisce del tutto cosa l'autore intenda per "tradimento dei chierici" e autonomia della cultura. Riguardo a Fernand Braudel, che come tutti sanno fu più fortunato di Bloch (il quale da partigiano venne catturato e fucilato dai Tedeschi), venne internato in due campi in Germania (prima a Magonza e poi a Lubecca), dal 1940 al 1945, dove ebbe la fortuna di poter redigere non solo il suo colossale Mediterraneo, ma anche di tenere delle lezioni/conferenze ai compagni di prigionia, delle quali teneva regolarmente nota in quaderni che spediva a casa alla moglie – uno di questi quaderni contiene appunto il celebre Storia misura del mondo, dove lo storico enuncia con chiarezza la sua teoria sulla storia profonda e sulla storia evenemenziale, con la famosa immagine marina delle correnti profonde e delle onde superficiali.
Partiamo appunto da Fernand Braudel. Che cosa può essere ancora valido per noi, e per noi poeti, in quest'epoca post-ideologica e post-utopica? Egli stesso afferma, rispetto alla condizione di cattività in cui scrisse, che "se non avessi vissuto la prigionia, avrei certamente scritto un libro del tutto diverso": la sua risposta esistenziale alla tragicità del contesto evenemenziale, quindi, è un'eredità per noi notevole. Più oltre, però, l'eredità intellettuale è quella che risulta ancora spendibile oggi, ovvero da un lato la fiducia nella storia profonda e nel suo corso lento e vasto, rispetto al quale la pur tremenda situazione contingente diventa tollerabile, perché appunto destinata assolutamente a finire; dall'altro, l'idea di storia come racconto e assieme spiegazione, una materia a cui occorre pertanto un metodo razionale e l'apertura alla società, non più al solo individuo. Come può essere appunto spendibile quest'ultimo punto per la poesia, oggi? Perché è evidente che oggi più che mai la poesia non può alimentarsi da sola, e più che mai deve alimentarsi del mondo e delle altre visioni culturali del mondo – solo che il mondo, appunto, non è più quello di una volta (volendo anche tralasciare il fatto che nel frattempo anche la storia è esplosa nella storia globale, e che i mondi sono almeno due, uno reale e il suo compenetrante archivio virtuale – a questo proposito si parla ormai nei termini inediti del concetto di inforg). In sostanza, la questione investe il range, o raggio d'azione, dell'intellettuale, o del poeta come intellettuale – forse l'ultimo. Bisogna guardare anche alla poesia come "misura del mondo", nel suo rapporto privilegiato con la storia; ma, aggiungo, farsi anche misurare da esso. Mi limiterò qui a elencare qualche elemento, fra quelli proposti da Braudel, utile per la poesia, intesa come comprensione plausibile e attuale del mondo, di questo mondo. Primo elemento: il concetto di grande storia, o storia profonda, caratterizzata dalla lentezza dell'evoluzione delle sue strutture. Questo pone una duplice sicurezza: salva dall'evento, dalla ridicola rincorsa del particolare di cui parlare senza magari capire, perché è di moda 'stare sul pezzo'; e allo stesso tempo però costringe ad annotare l'evento, in quanto primo elemento di una
spiegazione successiva. Braudel lo dice chiaramente: "L'avvenimento di oggi è il fatto storico di domani", ma appunto, allo stesso tempo, "Gli eventi ci investono e spariscono con grande rapidità", tanto che "l'attualità sembra a tratti una caricatura della storia". Conta la spiegazione più profonda, la quale illumina le grandi correnti delle epoche. In questo senso, conta la marginalità rispetto all'attualità, e anche il porsi a una distanza compatibile – rispetto al passato questo è scontato, rispetto al presente lo è meno. Mi viene quasi da ironizzare, dicendo che non è perché finiscono le ideologie, che finisce il mondo. Casomai si affaccia un problema più grave: la fine del mondo, o dell'antropocene, causata dalla questione ecologica – ma sarebbe un discorso a parte. Secondo elemento: l'esigenza di allargare l'ambito di ricerca e azione alla storia degli uomini, alla storia collettiva, e quindi della società, non solo dell'uomo, del singolo, il che salva dalla deriva individualista e contingente, che oggi è l'altra medaglia del consumismo e dello spettacolo, e della merce culturale. Ipotizzare delle conseguenze dei grandi avvenimenti, anche quando, come oggi, sembrano essere invisibili, o fluidi e veloci, è compito a mio avviso ancora centrale, per il poeta. Terzo elemento: l'apertura alla spazialità della geografia, ma anche alla ricchezza delle altre scienze – quello che Braudel chiama "accendere tutte le luci contemporaneamente" –, che mi ricorda da vicino tanti studi recenti ibridi, non più solo di critica letteraria: penso ai lavori di Umberto Casadei e Niccolo Scaffai, ma anche a quelli Emanuele Coccia sulle piante, alla vicinanza che hanno al concetto di environement umano anticipato da Braudel. Quarto elemento: essere spogli da sé stessi, nel proprio 'mestiere di poeta', come suggerisce Bloch nel proprio "mestiere di storico", o come specifica con precisione Braudel: "Urge che lo storico (...) si spogli di sé stesso, eserciti su di sé una sorveglianza continua, indichi esplicitamente la propria posizione personale" – che a ben vedere suona ancor più come un paradosso, in un'epoca come la nostra, di crisi totale di ogni possibile umanesimo e di ripiegamento solipsistico-narcisistico, che tra l'altro è il contrario di un rivelare apertamente la propria posizione. Quinto elemento: se i fatti sono transitori, come le cose; se ciò che permane sono elementi che superano nell'attualità la comprensione del singolo; se, tuttavia, nella storia si può riconoscere ciò che permane, sia come corrente sia come fatto dirompente; bisogna
esporsi e spiegare, esporsi a spiegare. Se il mondo muta, bisogna esporsi a cambiare linguaggio.
Bisogna, in poche parole, trovare parole nuove, perché quelle vecchie non descrivono più nulla. In sostanza, afferma Braudel, "la storia fa presa sulla vita", sul mondo: come dovrebbe fare la poesia. Quello che Fernand Braudel lascia qui sottesa, non nominandola con il suo nome, è la questione morale, ed è qui che entra in gioco Julien Benda (che tra l'altro Braudel cita nel suo quaderno), in un'incredibile corrispondenza di intenti ed esiti. La domanda che ponevo nel titolo è se il poeta può essere (ancora) un chierico. Ovviamente si tratta di una domanda retorica – ma è interessante vedere in che termini sia possibile oggi praticare il 'chiericato della poesia', in termini di opposizione a qualsiasi livello di potere e imposizione di ordine. Chi è il chierico? L'intellettuale, o chierico, secondo Benda è una persona la cui attività non è diretta ai fini pratici, è una persona che cerca soddisfazione nell'arte, nella scienza o nella speculazione filosofica – in breve, è una persona che mira costantemente al possesso di "beni immateriali". Allo stesso tempo, Benda ne definisce i caratteri affrontando un duplice problema: il rapporto con il potere e il rapporto con il mondo. In quanto al primo punto, un elemento di criticità riguarda l'atteggiamento del chierico verso l'ordine, dato oggi dallo Stato monolitico, che c'è ancora, anche se in forme diverse dai totalitarismi del Novecento (per esempio, nel concetto di 'sovranismo' è ben chiara questa implicazione); il chierico, o intellettuale, aderendo ai valori della democrazia, e quindi al suo portato di rispetto per la giustizia, la persona e la libertà, è esplicitamente e implicitamente alleato del disordine, della giustizia contro al forza, della verità contro la propaganda mistificatoria, in quanto portatore di un atteggiamento critico verso il mondo. Aggiungo che uno Stato ordinato e forte si autoritrae come costantemente minacciato, ed è costantemente come in una condizione bellica – e infatti la guerra ha un doppio legame con l'ordine. Che cosa significa, però, per l'intellettuale proclamarsi "democratico"? Non significa certo propugnare dei principi (libertà, verità, giustizia) che storicamente non sono né naturali, né vincenti; di conseguenza, l'intellettuale può affermare solo
che i suoi principi sono "comandamenti della coscienza, che, lungi dall'obbedire alla natura, pretendono di cambiala e assimilarla a sé". In quanto al secondo punto, sopra accennato, l'intellettuale di Julien Benda ha una posizione interessante per noi anche rispetto al dinamismo del mondo, ai suoi cambiamenti sempre più repentini. Già Benda si rifiutava, rispetto al dinamismo principale, quello economico, di descriverlo in termini irrazionalistici, come se il divenire appunto fosse una trasformazione per effetto della coscienza irrazionale – questo perché, partendo da Spinoza, Benda dice chiaramente che "il divenire storico è una cosa; l'idea di dinamismo un'altra", e, in quanto formulabile e comunicabile, essa idea è statica, quindi razionale. In questo senso, la funzione del linguaggio è chiara: non può che immettere continuità nella discontinuità, identità nella diversità.
Concludendo, i valori clericali che Julien Benda propone – la giustizia, la verità, la libertà, la ragione – sono statici, ossia (esattamente come per Braudel), sono simili a sé stessi al di là delle circostanze, e sono astratti, per cui lo studioso auspica che il chierico rimanga almeno lui a rap-presentarli all'umanità; sono anche disinteressati, in quanto non possono essere pratici, pena perdere lo statuto di valori; sono condizioni sostanziali della persona, e tuttavia non essendo pratici, non possono costruire qualcosa (per esempio, la democrazia non è che l'attuazione imperfetta della libertà, la quale di per sé non ha mai costruito niente); su tutti spicca il fatto che la verità, che è un "valore clericale solo nella misura in cui è onorata a prescindere", non può essere piegata, pena perdere la sua natura, a nessun "dei proclami patriottici, politici, religiosi o morali"; infine, "l'attività artistica, in quanto sostanzialmente disinteressata, estranea per natura, come la scienza, alla ricerca del bene, materiale o morale, dell'umanità, è un valore clericale". Per ora mi fermo qui, ma già si capisce come vengano a capovolgersi i parametri di quello che noi correntemente riteniamo efficacia e/o impegno del poeta, della poesia, nel mondo. E chiudo con questa citazione da Benda, oggi così attuale: "È legge del chierico, quando l'universo intero s'inginocchia davanti all'ingiusto diventato padrone del mondo, restare in piedi e contrapporgli la coscienza umana".