Il titolo
Ho intitolato il mio intervento La curva del giorno, titolo di un mio libro di poesia, perché credo che alla domanda circa la relazione tra lirica e società, domanda coraggiosa, non possa che provare a rispondere innanzitutto rimandando alla rischiosa concretezza di un’opera, del suo stile, dei suoi temi. E dico ciò ricordando quanto Luciano Anceschi scriveva a proposito della critica dei poeti che è cosa diversa dalla critica militante e dalla critica accademica. Tutte necessarie come dimensioni della critica e talvolta sovrapponentesi. Dunque oggi credo di parlare a partire da ciò che scrivo in versi (e dovrei aggiungere da ciò che dipingo su tela, essendo le logiche compositive non così separate).
1.
Politicità come stile non come tema: il corpo connesso
Se mi chiedo in cosa consista la “politicità” del mio lavoro in versi, in cosa consista il riferimento al vivere sociale, osservo che se vi è della politicità questa non è nei temi, per lo più relativi alla minima quotidianità, ma nella forma. Lo stile implica un giudizio, una presa di posizione, anche se è fenomeno complesso, in parte non consapevole. In cosa consisterebbe dunque la “politicità” del mio stile? Mi rispondo nel provare ad alludere a una condizione in cui tutti noi, a prescindere dalle nostre particolari situazioni, viviamo. Si tratta innanzitutto della condizione del corpo “connesso”, tecnologicamente connesso.
La condizione connessa e la poesia testimonianza antropologica
La condizione “connessa” è talmente tecnologicamente pervasiva da essere ritenuta scontata e perciò invisibile, potente, di vera e propria rilevanza antropologica. In questo senso la politicità della poesia può incontrare la testimonianza antropologica, prima ancora che etica. Antropologica nel senso di un modo di organizzare in parole, suoni e immagini il senso dell’umana esperienza.
Il grado zero per un quotidiano connesso
Lo stile che definisco del “grado zero” prova appunto a tratteggiare questa condizione in cui sembra crescere un nuovo tipo di solitudine, un nuovo tipo di ansia, attraversanti i nostri corpi “collegati”, la nostra attenzione che passa da un dispositivo all’altro. Da una parte dunque il minimo quotidiano, la preparazione del cibo, il camminare, il dormire, l’incontrare, dall’altra la superfetazione comunicativa che sostituisce il silenzio con una modalità silenziosa che non è più il silenzio.
Reazioni in assenza di azioni collettive, il progetto moderno
La politicità credo sia anche in questo processo di svuotamento per poter illuminare il comune, ciò che accomuna. Questi corpi “connessi” si agitano nella forma dell’io, riproducono immagini e parole di sé, diffondono continuamente “reazioni” , nella probabile impossibilità di progettare collettivamente una sola azione che riguardi la struttura della vita, mentre un’intera civiltà sta implodendo rinunciando al suo progetto moderno che prometteva l’emancipazione collettiva di tutti gli uomini.
Politicità come rifiuto della retorica dell’Io sentimentale e dell’Io cerebrale
Politicità credo sia anche una rottura di complicità. In questo caso con l’estetizzazione diffusa, con la neutralizzazione dell’intenzione estetica sepolta sotto un intero paesaggio che negli ultimi decenni si è sempre più estetizzato. Questo rifiuto dell’estetizzazione diffusa passa attraverso il rifiuto della retorica dell’Io sentimentale (non rifiuto della dimensione sentimentale ma solo della sua mistificazione), così come dell’Io cerebrale e della sua retorica autoreferenziale.
Politicità come esperienza del confine con le altre arti. Leonkart 1995
Politicità è anche spingere la poesia ai suoi confini, intrecciarla alle altre arti, provarla su nuovi supporti perché la funzione intellettuale connessa con la politicità accomuna le diverse espressioni e tendenzialmente i diversi pubblici. In tal senso ricordo con piacere l’esperienza del Leonkart, arte nel centro sociale Leoncavallo, che nel 1995 provava a mescolare all’interno di un territorio fortemente connotato le diverse dimensioni artistiche e i diversi tipi di pubblico.
La politicità dunque a mio avviso non è nei temi affrontati dalla poesia ma dalle scelte stilistiche e da ciò che Benjamin chiamava i mezzi di produzione letteraria, cioè dal tipo di organizzazione materiale della pratica letteraria.
2.
Crisi della testualità e della rappresentanza
Il tema dell’incontro Lirica e società è un tema coraggioso perché chiede di porre in relazione due termini che in questi ultimi decenni hanno subito profonde trasformazioni che non riguardano solo le forme (della letteratura e della politica) ma le strutture, per così dire, i supporti.
Dico subito che se c’è come credo una crisi dello statuto della testualità della lingua poetica e dell’autorialità anche per la diffusione delle nuove infrastrutture della comunicazione attraverso la rete, vi è pure contemporaneamente una crisi della statuto della rappresentanza politica, che si accompagna egualmente alle nuove infrastrutture della produzione del significato.
La testualità sembra attratta da ciò che Ong definiva oralità secondaria, il nuovo supporto elettronico inoltre muta i rapporti di produzione letteraria come avrebbe detto Benjamin in quanto l’autopubblicazione in rete incide su nozioni come autorevolezza e autorialità. Insomma parlando di poesia e politica oggi, nel 2019, stiamo parlando di due incognite e stabilire una relazione tra due incognite è compito molto arduo.
La dissoluzione della funzione intellettuale
Un altro elemento da considerare in via preliminare è ciò che agli inizi degli anni ’90 indicavo come passaggio dalla società di massa con le sue istituzioni/tessuto (Università, editoria, Stampa) alla società mediatizzata, attraversata prima dalla televisione e dalla pubblicità poi dalla rete e da una varietà di dispositivi, con parallela crisi o anche dissoluzione della funzione intellettuale. All’epoca della società di massa la poesia rientrava a pieno titolo nella funzione intellettuale, almeno sul piano dell’immaginario, diciamo così. E la funzione intellettuale si poteva distinguere ancora in apocalittica e integrata. Alla metà degli anni ’80 si discuteva tranquillamente della funzione antagonista della poesia, penso ai dibattiti a cui ho partecipato sulla rivista Altri Termini e in seguito sulla rivista Baldus, si pensi all’antologia intitolata Poesia Italiana della Contraddizione del 1989 uscita, a cura di Mario Lunetta e Franco Cavallo, con la Newton Compton: un certo tipo di poetica, come quella de “La parola innamorata” del 1979, poteva essere facilmente percepita da noi come integrata, come apologetica dell’esistente.
I poeti e la politica.
Ricordo a partire dalla seconda metà degli anni ’80 ciò che per me era il rapporto lirica-società. Mi riferisco alla frequentazione di Paolo Volponi (che fu anche ottimo poeta oltre che grande narratore e senatore della repubblica) e ai suoi discorsi sulla funzione civilizzatrice dell’industria, a Francesco Leonetti e alla sua battaglia (per un tratto anche mia, ormai agli inizi degli anni ’90 con la rivista Campo); penso a Majorino e alle sue Lotte secondarie, penso a Luigi Di Ruscio e alla sua furia bruniana. Mi viene in mente anche una curiosa pubblicazione, voluta da Sanguineti nel 1991 dal titolo Mozione dei poeti comunisti che fu presentata al Congresso dedicato al tema del cambio del nome del PCI. Oggi può accadere di sorridere all’idea di una raccolta di versi con questo titolo. Ma accadde. A quell’epoca il mio rapporto con Balestrini e Pagliarani era molto stretto: le ragioni della
politica erano legate in modo inestricabile anche alle ragioni della forma. Il sabotaggio del linguaggio poetico ambiva ad essere sabotaggio dell’ideologia dominante. Politica e poesia dovevano incontrarsi sul piano dell’innovazione formale.
Senza questo nesso La ragazza Carla sarebbe stata difficile da concepire, senza il lavoro di violento montaggio e orchestrazione dei registri. Dallo sperimentalismo alla neoavanguardia si stava consumando questo nesso, sullo sfondo il Benjamin della terribile accoppiata Avanguardia e
rivoluzione. Ma quello ormai era anche il tempo del Gruppo 93 e della rivista Baldus (tra il 1989 e il
1996) che da quelle esperienze si allontanava nella consapevolezza che le riflessioni di Lyotard, Paul Virilio, Walter Ong, Jameson offrivano un punto di vista diverso. Si entrava nel postmoderno ma nella versione ideologica che rimuoveva la questione del potere e quindi della politica.
L’affermazione del “Pensiero debole” di Vattimo ricordo fu il mio bersaglio polemico preferito, il modo per leggere dentro una questione filosofica e culturale una questione politica. All’epoca insistevo sull’errata interpretazione della diagnosi del la condizione postmoderna che aveva fatto Lyotard. Le due grandi metafore dei giochi linguistici di Wittgenstein e della Volontà di potenza di Nietzsche erano state ridotte alla prima in nome di un relativismo che non si accompagnava più alla questione del potere e quindi dell’importanza dei rapporti di forza anche in ambito culturale. La presunta fine delle ideologie sanciva la vittoria di una sola ideologia. Questa sconfitta del pensiero critico e della funzione intellettuale sarebbe poi diventato il cosiddetto Pensiero Unico.
Le strategie formali
Le avanguardie storiche speravano di cambiare insieme all’arte anche il mondo, vi era una pulsione palingenetica. Se per gli anni della Neoavanguardia già poteva valere solo la strategia del sabotaggio linguistico, almeno come atteggiamento di criticità, alla fine degli anni 80 il dato più rilevante era per me l’estetizzazione diffusa prodotta dalla crescita della pubblicità e l’importanza della televisione. Non valeva più la dicotomia tradizione avanguardia si parlava di contaminazione postmoderna, nel mio caso di postmoderno critico.
Conclusione
Politicità della poesia è oggi nella rottura di complicità con l’estetizzazione diffusa, modo idiosincrasico di testimonianza antropologica attraverso un sapiente manufatto di parole