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MODI E MOTIVI DI UNA SCRITTURA CIVILE: GIAN PIETRO LUCINI
3. Modalità della satira
Gli ingredienti peculiari che fanno di quella luciniana una scrittura eminentemente satirica sono tutti presenti, stando almeno alle proposte teoriche di uno dei maggiori studiosi italiani del fenomeno: la satira si presenta quale «pratica sans genre ai confini del letterario che predilige la mescolanza e la saturazione delle forme, dei generi, degli stili, dei linguaggi, marcatamente settoriali, privatistici e spesso osceni, il bricolage parodistico e l’estemporaneità, linguaggi tanto retoricizzati da simulare l’informale o l’improvvisato, il disprezzo della forma chiusa e del “senso della fine”»(72). Non è difficile riconoscere con una certa precisione, in tali caratteri, il lavoro di Lucini, il quale opera un superamento dei generi – facendo ricorso in particolare al dialogo e al verso libero – e un’estensione delle dimensioni ideologiche e stilistiche del testo che parrebbe anticipare l’idea di opera aperta e costruita secondo criteri modulari tipica delle avanguardie novecentesche.
La satira, anche quella luciniana, punta in grande misura sulla categoria di eccesso, con quanto a essa si connette (l’iperbole, l’iconografia grottesca), nonché su una giustapposizione di piani (l’«antinomia» luciniana), per cui il non letterario entra prepotentemente nello spazio riservato della letteratura per portare scompiglio (ed è per tali motivazioni, come fa notare Bachtin, che la satira è stata sempre ritenuta pratica marginale e poco sublime). Sul terreno della retorica, cioè dei principi organizzativi sui quali si struttura il testo, ne scaturisce un prodotto letterario fortemente eterogeneo e plurivoco, in cui alto e basso si scontrano dialetticamente, con un vistoso effetto di rovesciamento; e la scrittura satirica luciniana ha sovente un andamento parodico, la cui plurivocità è garantita dalla grande mole di materiali che vi capitano dentro. L’invettiva satirica è così congegnata secondo una (anti)norma accumulativa, che carnevalizza il testo: se ne può leggere un piccolo, ma assai efficace,
specimen nel Congedo delle Revolverate, nel quale viene stilato l’elenco dei protagonisti della
mascherata messa in scena nel testo, vittime designate delle «palle blindate di feroce ironia»: nonzoli, uscite, libidinosi
bitorzoluti dall’onanismo, emunti liceisti di mal francese, madamigelle pallide di leucorrea, chierichetti mignoni insatiriti, [...]
eroi da un soldo, poetini in fregola, poetesse di rossor’ catameniali, pie prostitute de’ confessionali scintillanti ufficiali inuzzoliti, monaci, monacelle,
abati modernisti,
incappucciati Anticristi del vecchio rituale; [...](73)
Uno dei meccanismi di maggiore frequenza nelle scritture satiriche è il ricorso alla sfera semantica del corpo in chiave eversiva e dissacrante. Anzi, si può affermare con una certa sicurezza che tra satira e corporalità esiste un nesso piuttosto saldo(74), giacché l’intrusione del basso, di ciò che è ritenuto osceno o immorale, nel testo provoca uno spaesamento e un rovesciamento del punto di vista che finisce con il provocare un effetto “anarchico” nei confronti dell’istituzione letteraria. Il
décalage risulta ancor più efficace ove l’intendimento sia fondamentalmente parodico, per cui si
ridicolizza il sublime inserendolo in un contesto dominato dalle istanze del corpo (ma la parodia agisce anche mediante il procedimento esattamente inverso): è il caso, per Lucini, della citazione petrarchesca che chiude la Canzone della Cortigianetta.
Di un uso del corpo (e di quanto gli pertiene) in funzione apertamente contrastiva si trovano numerose attestazioni in Lucini: l’universo corporale dispiega le proprie potenzialità anche a livello puramente retorico, per cui le finalità della satira vengono indicate per mezzo di un’efficacissima metafora corporea: «sollevar le gonne della matrona del sentimento ufficiale»(75); qui il côté ideologico e la volontà satirica della poesia di Lucini mostrano la loro stretta compenetrazione. E, ancora, segnatamente satirico è l’atteggiamento di fondo che contrassegna maschere come Brighella, Gioppino e il Nipote di Rameau, che all’interno della struttura testuale assolvono il compito di fare da contraltare alle tensioni sublimi di altri personaggi. Se sulla scena del teatro virtuale di Lucini agiscono forze intellettuali sia omogenee che eterogenee rispetto all’ideologia e alla psicologia dell’autore, è evidente che l’impresa antilirica di un Gioppino ha, più o meno, la stessa dignità di esistere delle tentazioni “alte” delle maschere contro cui si volge. Pertanto, se lo scrittore lombardo realizza, attraverso il corpo, un’operazione satirica con risvolti anti-istituzionali, tale operazione colpisce più in direzione di quanto sta al di fuori del testo che verso lo spazio interno della scrittura. Lucini vive infatti una contraddizione sostanziale tra la volontà di mantenere certe prerogative della letteratura e la necessità, non soltanto privata ma per lui ormai irrimediabilmente storica, di un ripensamento di vaste proporzioni finalizzato al superamento della letteratura stessa, intesa quale prassi troppo formalizzata: è il famoso programma del «sorpassare la
consuetudine». Lo scrittore, in tal modo, non giunge al punto estremo (toccato invece da talune avanguardie storiche) di negare la stessa letteratura, ma si limita – e, per i suoi tempi, non è poco – alla secca ricusazione di una pratica letteraria, quella dell’epoca della mercificazione borghese. È chiaro che, rebus sic stantibus, occorre ammettere l’insanabilità di una tale contraddizione, che alla fine esercita, su colui che si avvicina alla produzione luciniana, a seconda di come la si osservi, un effetto di disturbo o una particolare suggestione(76). E la peculiarità di Lucini risiede, in ultima istanza, nella volontà di non occultare la contraddizione, bensì di esibirla – a dire il vero senza eccessivi compiacimenti edonistici – in vivo, non come limite, ma quale elemento dotato di grande efficacia produttiva. La sua risposta alla crisi della letteratura, in ultima istanza, si delinea come ipotesi di radicale riscrittura dello statuto della letteratura medesima, nella direzione di una «politicizzazione dell’arte», secondo i termini di Walter Benjamin, nella forma (sia in senso ideologico che stilistico) propria della satira. Si tratta di una poetica della presenza, della compromissione con il mondo circostante, che non trova alcuna affinità nel panorama storico-letterario italiano di quegli anni. In questo senso, è possibile prendere in considerazione l’eventualità di un Lucini teorico di un’avanguardia, «allora anacronistica e in controtendenza»(77), che, per potere irraggiare la propria efficacia, dovrà sedimentare a lungo, ben oltre i limiti cronologici dell’avanguardia futurista, per la quale, comunque, contribuì a preparare il terreno. Solo così, forse, ci si spiega il revival luciniano concomitante con l’esperienza del Gruppo 63.
La destinazione satirico-politica prescritta da Lucini alla scrittura non poteva, naturalmente, andare d’accordo né con poetiche romantiche della contemplazione del mondo, né, tanto meno, con l’estetismo decadente, edonistico e poco incline all’azione: non a caso, a D’Annunzio, che della poesia politica luciniana è il negativo esemplare, spetta l’addebito di «esteta passivo»(78). E le medesime ragioni stanno anche all’origine dell’ostinato rifiuto della qualifica di decadente, nell’accezione più largamente diffusa(79).
In conclusione, va rilevato che il basilare principio organizzativo della scrittura satirica luciniana è il ricorso abbastanza sistematico all’allegoria, che della satira in genere è uno dei meccanismi privilegiati, se non quello esclusivo. Nella poesia civile e politica di Lucini, l’allegoria si fa largo lentamente ma in maniera progressiva: da una iniziale tendenza all’invettiva, senza alcuna mediazione figurale del discorso, lo scrittore perviene a una pratica obliqua della propria azione critica nei confronti della società. Naturalmente, i segnali del processo di avvicinamento all’allegoresi sono sparsi già in testi di molto anteriori alle Revolverate, le quali costituiscono senza dubbio il momento di massima espressione della satira luciniana (nonché, forse, il migliore risultato della sua poesia): basti pensare alla prosopopea, che conosce una larghissima applicazione negli scritti luciniani, soprattutto nella chiave animalizzante. È il caso dell’«allobroga volpe» già citata e di molti testi delle Revolverate, in primis la Favoletta di un Gallo, nella quale gli animali sono palesemente figure degli uomini, dei tipi sociali del mondo contemporaneo: così, per esempio, il Gallo è un sobillatore che canta il proprio «chiricchichì repubblicano» e «Le Galline producono, indifferentemente e senza voluttà, / ma con molto sudore, / come le contadine italiane»(80). Nel Lai
a Melisanda Contessa di Tripoli, testo violentemente anticolonialista, l’intentio allegorica è sempre
più evidente nel largo uso di un’emblematica non ideata dallo scrittore, ma piuttosto diffusa all’epoca: il Leopardo è l’Inghilterra, l’Orsa bianca la Russia e così via. La ripresa, almeno sul piano nominale, di alcune forme poetiche antiche e medievali (canzone, ballata, lai) sembra imporre a Lucini anche il recupero della prassi allegorica che sovente vi è collegata; perciò, la favola degli animali, che da sempre rappresenta uno dei modelli retorici più frequenti nella satira, viene attualizzata, e quindi straniata, a contatto con una realtà completamente nuova. Vale la pena osservare di sfuggita che la “favola” come esemplare della funzione satirica della scrittura, nonché terreno privilegiato per l’esplosione del più furente sarcasmo, troverà ulteriori configurazioni novecentesche nella prosa gaddiana del Primo libro delle favole. Scrive Lucini, il quale possiede una certa coscienza dei propri mezzi espressivi: «la favolistica serve a tutto, specialmente alla satira»(81), mostrando in tale maniera il nucleo sostanziale della propria ideologia poetica, cioè quell’azione perlocutoria che è uno dei segni caratteristici della sua scrittura. L’opzione in favore
della «favoletta carnascialesca» e della «parabola» (titoli ricorrenti nelle Nuove Revolverate) comporta necessariamente l’impiego dell’allegoria: intendo dire che non è possibile verificare in Lucini una coscienza teorica particolarmente acuta della propria poiesi allegorica, anzi spesso condannata in maniera pregiudiziale o confusa con quella simbolica, tuttavia, nel momento in cui lo scrittore sceglie di elaborare una scrittura destinata all’azione sociale e pertanto energicamente coinvolta nella temporalità storica, l’acquisizione dell’allegoria satirica diventa un dato di fatto quasi naturale. L’allegoria, in altre parole, sta nel testo, nella sua realtà concreta (e, a posteriori, nell’interpretazione di chi legge) e non prima del testo. E chissà che non si possa leggere Lucini entro l’anceschiana linea lombarda, quale direzione di poetica «che preferisce la corposa allegoria alla diafana analogia», per approdare a una «poesia in re»(82).
Massimiliano Manganelli
Note.
(1) G.P. Lucini, Il Verso Libero. Proposta, Milano, Edizioni di Poesia, 1908, p. 526 (cito dalla ristampa anastatica a cura di Pier Luigi Ferro, Novara, Interlinea, 2008).
(2) G.P. Lucini, Al 6 di Marzo 1898, in Revolverate e Nuove Revolverate, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1975, p. 315 (d’ora in poi RNR).
(3) G.P. Lucini, La nuova Carmagnola, in RNR, p. 151. Il richiamo alla rivoluzione è quanto meno ovvio in una canzone intitolata alla danza rivoluzionaria per eccellenza.
(4) G.P. Lucini, Congedo le Revolverate, in RNR, p. 336. Il titolo della raccolta testimonia anch’esso l’aggressività verbale di questa poesia, ma occorre sempre ricordare che esso non è luciniano, giacché fu proposto da Marinetti.
(5) G.P. Lucini, Il Verso Libero, cit., p. 568. Tutta la pagina merita la lettura, poiché Lucini vi descrive la sostanza della Prima Ora della Academia e, in ultima analisi, di gran parte della propria produzione.
(6) G.P. Lucini, La Prima Ora della Academia, Milano-Napoli-Palermo, Sandron, 1902, pp. 356-357. (7) E. Sanguineti, Per una letteratura della crudeltà, in Ideologia e linguaggio, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 132. So bene che il richiamo è decisamente azzardato, ma tra gli scritti di Lucini e le teorizzazioni di Sanguineti (sulla scorta di Artaud) c’è una corrispondenza non lieve: la «letteratura delle crudeltà» è l’espressione di quella «funzione Sade» da cui questi scrittori sono segnati, come ha spiegato Fausto Curi nel suo Struttura del risveglio. Sade, Sanguineti, la modernità letteraria (Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 139-179).
(8) G.P. Lucini, La Prima Ora della Academia, cit., p. 292.
(9) «[...] la genesi del Verso Libero coincide coll’apparire di un nuovo momento storico nella letteratura» (Il Verso Libero, p. 397); forse, la storicità potrebbe essere intesa anche oltre l’orizzonte strettamente letterario. (10) Ivi, p. 317n.
(11) Lettera a Carlo Linati del 4 febbraio 1913, in Lettere inedite di G.P. Lucini, a cura di G. Vigorelli, in «Primato», 4, 1942, p. 87. Poche righe sopra, con una certa causticità, questo atteggiamento dell’intellettuale viene bollato come «puro onanismo».
(12) G.P. Lucini, Autobiografia, in Prose e canzoni amare, a cura di I. Ghidetti, Firenze, Vallecchi, 1971, p. 114. Al maggio ’98 è dedicata una pagina piuttosto risentita del Verso Libero (cfr. p. 267).
(13) G.P. Lucini, I monologhi di Pierrot, in I Drami delle Maschere, per cura, introduzione e note di G. Viazzi, Parma, Guanda, 1973, p. 338 (d’ora in poi DM).
(14) G.P. Lucini, Antidannunziana, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1914, p. 115; sull’ambiguità del silenzio del poeta toscano, comunque caro a Lucini, cfr. Ai mani gloriosi di Giosuè Carducci, Varazze, Botta, 1907, p. 98. Per il terremoto di Messina, Lucini scrisse il Carme d’angoscia e di speranza, pubblicato nel 1909 dalle Edizioni di «Poesia», i cui proventi furono devoluti alle popolazioni colpite dal sisma.
(15) G.P. Lucini, La Parata dell’Introduzione, in DM, p. 82. In ultima istanza, questo testo, esattamente come Gian Pietro da Core e La Prima Ora della Academia, mette in scena la preparazione di una rivolta. (16) G.P. Lucini, Il Sermone al Delfino, di un Çi-devant, edito nel Buio, dal Paese della Miseria, all’insegna della Speranza, pei tipi della Fame (Milano), 1898, p. 23.
(17) G.P. Lucini, Prima Comunione, in RNR, p. 478.
(18) G.P. Lucini, L’Epistola Apologetica, in Per una poetica del simbolismo, a cura di G. Viazzi, Napoli, Guida, 1971, p. 40 (lo scritto costituiva in origine la prefazione a R. Quaglino, I modi: anime e simboli,
Milano, Galli, 1896).
(19) G.P. Lucini, Per chi?..., in RNR, p. 17.
(20) G. Scianatico Calì Carducci ha parlato di un «concreto contenuto di antagonismo sociale che, per quanto disarticolato da una prospettiva consistente di lotta di classe, [...] si pone comunque come effettiva rottura del consenso e non solamente a livello etico-letterario» (Il «caso Lucini», in «Problemi», 49, 1977, p. 217). In questo senso, come minimo riscontro, si potrà addurre il fatto che Il Sermone al Delfino è dedicato ad Anna Kuliscioff.
(21) G.P. Lucini, Ai mani gloriosi di Giosuè Carducci, cit., p. 43.
(22) Si vedano, a conferma di quanto appena detto, queste osservazioni di Curi: «il tema della vendetta [...], sublimato a volte in severa azione pedagogica, come presso Parini e Manzoni, configurandosi altre volte, in Lucini, come “vendicazione” che la classe proletaria consuma o deve consumare sull’aristocrazia e sulla borghesia, altre volte ancora affidandosi alla profanazione dell’eros perpetrata da Carlo Porta o all’ilare, mordente ironia di Carlo Dossi, percorre tutta la letteratura lombarda dal ’700 al ’900» (La scrittura e la morte di dio, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 98-99). Da Dossi in poi, e quindi anche in Lucini, questo tema si intreccia stabilmente con la nevrosi individuale.
(23) G.P. Lucini, Entusiasmi di un nottambulo a due voci, in RNR, p. 503.
(24) G.P. Lucini, Gian Pietro da Core, a cura di C. Cordiè, Milano, Longanesi, 1974, p. 119 (il libro vide la luce per la prima volta nel 1895).
(25) G.P. Lucini, Il Verso Libero, cit., p. 267. L’affermazione è tanto più interessante dal momento che è situata all’interno di una pagina dedicata al maggio 1898.
(26) G.P. Lucini, Gian Pietro da Core, cit., p. 120.
(27) G.P. Lucini, La Nenia al Bimbo, di un Çi-devant, edito nel Buio, dal Paese della Miseria, all’insegna della Speranza, pei tipi della Fame (Milano), 1898, p. 12. A proposito dell’identificazione della marionetta mancante, cancella ogni equivoco un passo del Verso libero in cui si parla di «un Tipo di gozzuto e di scarno, colla falce in pugno» (p. 266).
(28) G.P. Lucini, La parata dell’Introduzione, in DM, p. 60. (29) G.P. Lucini, Il monologo del Don Juan, in DM, p. 246.
(30) Lucini parla spesso, nei due volumi dell’Antidannuziana, di «bovarysmo», di un D’Annunzio che crede di possedere la folla e invece ne è schiavizzato (cfr. Antidannunziana, cit., p. 284). Con Gadda, peraltro, si ravvisa una convergenza nell’opinione sulla folla, contrassegnata da un’«indole isterica ed avventurosa femminile» (G.P. Lucini, Il Sermone al Delfino, cit., p. 29).
(31) G.P. Lucini, Premunizione alle Nuove Revolverate, in RNR, p. 375. Il ruolo di guastafeste del poeta è ribadito anche altrove: il Melibeo «si presenta al borghese come un ostacolo alla sua cotidiana degustazione di grasse e codificate felicità, quanto nauseose!» (Notizia del Melibeo, in La solita canzone del Melibeo, Milano, Edizioni Futuriste di Poesia, 1910, p. 11; d’ora in poi SCM).
(32) Nell’Apoteosi di Francisco Ferrer, contenuta nelle Nuove Revolverate, uno delle composizioni maggiormente contraddistinte dal furore anarco-rivoluzionario, in ragione del soggetto di cui discorre. (33) La vicenda di Prometeo nella modernità letteraria e le possibili mediazioni attraverso le quali giunge a Lucini sono brevemente compendiate da Viazzi nel suo commento a Le Antitesi e le Perversità, Parma, Guanda, 1970 (d’ora in poi AP), pp. 359-360; ma è da leggere anche, nello stesso volume, la prefazione del curatore, intitolata Tentativo di descrizione di un poeta simbolista, p. LXVIII.
(34) G.P. Lucini, Il Verso Libero, cit., p. 291. Forse non è superfluo ricordare, in proposito, il precedente del Rimbaud che scrive a Paul Demeny: «le poëte est vraiment voleur de feu».
(35) G.P. Lucini, Prometeo, in AP, p. 11. Il potenziale anarchico della poesia è confermato dal fatto che essa fu pubblicata per la prima (e unica, Lucini vivente) volta sulla rivista anarchica «La Demolizione» nel 1910. (36) G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, in L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco, Bari, Dedalo, 1973, p. 131. La frase compare nel contesto di una trattazione del «complesso di Prometeo», che è il sintomo di una rivolta intellettuale.
(37) F. Curi, Edipo, Empedocle e il saltimbanco, in Perdita d’aureola, Torino, Einaudi, 1977, p. 74.
(38) Cfr. il già citato Tentativo di descrizione di un poeta simbolista, pp. LIV-LV, nel quale Viazzi analizza quella stessa polarizzazione dei due elementi del rosso e del bianco che contrassegna, forse in maniera ancor più profonda, la scrittura palazzeschiana.
(39) G.P. Lucini, Il Sermone al Delfino, cit., p. 25.
(40) G.P. Lucini, La nuova Carmagnola, in RNR, p. 152. Ma cfr. anche, nella stessa poesia, i vv. 31-48. (41) G.P. Lucini, Favoletta di un Gallo, in RNR, p. 75.