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É appunto nelle opere latine che Boccaccio trova più ampio spazio per approfondire la ricostruzione storica della figura di Didone, senza per questo rinnegare la valenza poetica dell’opera

§3 Didone in Dante

4. É appunto nelle opere latine che Boccaccio trova più ampio spazio per approfondire la ricostruzione storica della figura di Didone, senza per questo rinnegare la valenza poetica dell’opera

virgiliana, come spiegato in un paragrafo della Genealogia deorum gentilium:

«Quod autem Virgilio obiciunt, falsum est. Noluit quippe vir prudens recitare Didonis hystoriam; sciebat enim, ut talium doctissimus, Didonem honestate precipuam fuisse mulierem, eamque manu propria mori maluisse, quam infixum pio pectori castimonie propositum secondi inficere nuptiis. Sed, ut artificio et velamento poetico consequeretur quod erat suo operi oportunum, composuit fabulam in multis similem Didonis hystorie; quod, ut paulo ante dictum est, veteri instituto poetis conceditur»

(Genealogia deorum gentilium, XIV, 13,12).

Didone diventa polisemico paradigma perché prendendo a pretesto il suo comportamento (la sua scelta alternativa, non in contraddizione con la vulgata virgiliana) Boccaccio costruisce il rapporto tra poesia e storia137, portando così ad una perfetta coincidenza l’istanza morale e l’istanza politica. La questione era stata affrontata già da Benzo di Alessandria, alquanto scettico circa l’impianto storico delle narrazioni virgiliane138 e, con specifico riferimento a Didone, da Giovanni del Galles, che nel suo Breviloquium de virtutibus principum et philosophorum scrive, in una prosa densa di richiami patristici:

«Dido enim soror Pigmalionis, multo auri et argenti pondere congregato, Affricam navigavit ibique urbem Cartaginem condidit; et cum a Iarba rege Libie in coniugium peteretur, paulisper distulit nuptias, donec conderet civitatem, nec multo post extructam civitatem in

136 Partendo dalla «quivi non era da piagnere» (IV,4,16), S. MARCHESI (Lisabetta e Didone: una proposta per

“Decameron” IV, 5, in «Studi sul Boccaccio», vol. 27, 1999, pp. 137-147) traccia un parallelo tra la prima parte della quinta novella della quarta giornata e gli inizi delle avventure della regina cartaginese: aldilà della somiglianza del nome (Elissa>Elisa> [E]lisabetta) entrambe le vicende si muovono «tra i poli di un avvio felice ed un esito luttuoso» (p. 137), e sia Didone che Lisabetta soffrono per l’omicidio dell’amato (Sicheo/Lorenzo) ad opera di fratelli accecati dall’avidità. Se comunque anche le divergenze sono sensibili tra i due casi (dopo il lutto «per Didone il ruolo di regina prevale su quello di amante infelice (almeno sino all’arrivo di Enea a Cartagine); per Lisabetta, al contrario, la vicenda si tinge di colori elegiaci prima che epici», p. 139). Interessante, in riferimento al macabro particolare della decapitazione del cadavere di Lorenzo, è tuttavia il richiamo che l’autrice fa ad una miniatura dell’ombra di Sicheo priva di capo contenuta in un manoscritto francese della Histoire Ancienne jusqu’à Cesar (pp. 145-147). Per quel che riguarda il Boccaccio, basti ricordare la novella (II,2) di Rinaldo d’Esti e il comportamento della vedova amante del marchese Azzo da Ferrara.

137 Allo stesso tempo Boccaccio cita almeno quattro ragioni che potrebbero essere alla base della rielaborazione

virgiliana del mito didoniano: «seguire la lezione di Omero nella struttura del poema, ossia narrando i fatti senza ordine cronologico e non descrivendoli nel loro farsi bensì riferendoli come ricordo dei personaggi (Ulisse racconta ad Alcinoo le sue peripezie come Enea a Didone la fine di Troia); prefigurare mostrare il ravvedimento dell’eroe di fronte al male; esaltare la nobiltà e la fierezza della gens Julia; prefigurare l’espansione politica e militare di Roma», A. CERBO, op. cit., p. 184.

138 «Cum autem tantis auctoribus, scilicet Ennio, Varrone, Trogo, Ysidoro, Tito et Solino constat Romam conditam et

denominatam a Romulo, licet Salustius dicat fuisse Troyanos et Virgilius dicat esset Evandrum, qui non fuit historiographus, sed poeta» (M, f, 140v, cfr. M. PETOLETTI, op. cit., p. 103).

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memoriam mariti quondam Sichei maluit ardere quam nubere; casta mulier Cartaginem condidit».

E se dalla storia si può trarre diretto insegnamento, più difficile è il percorso della poesia: «non futilis, sed succiplena facultas, sensus volentibus ex fictionibus ingeni» (Genealogia, XIV,6,9). Ancora, è la figura della regina cartaginese a saldare in un unico discorso estetico-poetologico le disquisizioni contenute nella Genealogia deorum gentilium con l’impianto narrativo proprio del De

claris mulieribus e del De casibus virorum illustrium. Queste due opere presentano significative

analogie e differenze: se l’intento comune è quello di riabilitare l’immagine della regina cartaginese, in risposta alla condanna della Commedia dantesca e in linea – come si avrà a breve modo di vedere – con il pensiero petrarchiano, i due testi nascono sulla base di una differente impostazione: il De casibus «ha una sua cornice, il tema della sventura moralisticamente inteso, nella quale i personaggi sono inseriti e presentati»139, comportando ciò una preminenza delle riflessioni etiche sulla narrazione vera e propria, mentre il De claris è più semplicemente una raccolta di profili biografici, tra i quali il capitolo XLII è appunto intitolato De Didone seu Elissa

Cartaginensium regina; altrettanto importante è però rilevare l’analoga conclusione di carattere

tragico – in cui è quindi possibile rinvenire un’eco virgiliana – della vicenda di Didone. Se infatti nel De claris si legge:

«Didonem igitur exangue cum lacrimis publicis et memore cives, non solum humanis, sed divinis etiam honoribus funus exercentes magnificum, extulere pro viribus; nec tantum publice matris et regine loco, sed deitatis inclite eisque faventis assidue, dum stetit Cartago, artis templisque excogitates sacrificiis coluere»

(De claris mulieribus, XLII, 16) nel De casibus l’autore scrive:

«Carthaginienses autem tam dirum cernentes facinus in gemitus et memorem lapsi, optimam reginam atque pudicam flevere diu et cruentas exequias multo cum ploratu celebrantes illam patrie matrem vocantes, humanos divinosque illi honores impendere omnes, ut si quid vite abstulisset boni fortune crudelitas, in morte civium repensaret pietas»

(De casibus virorum illustrium, II, X, 30). Elemento fondante della descrizione di Didone è il carattere virile – sottolineato ancora dalla similitudine con la quercia («Mulieris virile robur. O feminei pudoris decus laude perpetua celebrandum», De casibus virorum illustrium, II, XI, 1) – che la contraddistingue: se infatti l’agire di quest’ultima viene, sotto il chiaro influsso della letteratura patristica, mostrato come eroicamente paradigmatico140 nella prima opera:

«et posita feminea mollicie et firmato in virile robur animo, ex quo postea Didonis nomen meruit, Phenicum lingua sonans quod virago latina»

(De claris mulieribus, XLII, 5)

simili tratti compaiono anche nella seconda, in cui la descrizione di Didone, decisa al suicidio allorquando Enea raggiunge le sue coste, sembra assumere un crisma martirologico141:

139 Ivi, p. 194.

140 «L’apertura della “mens” di Didone, simile a quella virile perché capace di affrontare e dominare la realtà con lo

stesso ardimento e la stessa perspicacia, trova la sua giustificazione nell’essere la donna antesignana della morale cristiana», A. CERBO, op. cit., p. 197.

141 «Didone che si uccide per ricongiungersi inviolata allo sposo è l’archetipo della tragedia cristiana; simboleggia,

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«Quo concesso atque adveniente Enea troiano nunquam viso, mori potius quam infringendam fore castimoniam rata, in sublimiori patrie parte, opinione civium manes placatura Sicei, rogum construxit ingentem et pulla tecta veste et cerimoniis servatiis variis, ac hostiis cesis plurimis, illum conscendit, civibus frequenti multitudine spectantibus quidam factura esset. Que cum omnia pro votis elisse, cultro, quem sub vesti bus gesserat, exerto ac castissimo aposito pectori vocatoque Syceo inquit – Prout vultis cives optimi, ad virum vado

‒. Et vix verbis tam paucis finitis summa omnium intuentium mestitia, in cultrum sese

precipitem dedit et auxiliis frustra admotis, cum perfodisset vitalia, pudicissimum effundens sanguine, ivit in mortem»

(De claris mulieribus, XLII, 14). È proprio in virtù della rinuncia all’eroe – strumento attivo del Fato – che Didone viene a porsi come paradigma di purezza vedovile e fulgido esempio di fedeltà coniugale, e questo non poteva non risuonare come un chiaro richiamo da parte di Boccaccio alla comunità civile a lui contemporanea, all’interno del quadro di rinascita spirituale successivo alla peste del 1348. Il tratto di maggior differenza con l’archetipo virgiliano è proprio nell’opposto stato d’animo con cui Didone decide di andare incontro alla morte: se infatti nell’Eneide l’odio e il risentimento della regina abbandonata sfociano in aperta minaccia:

Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor, Qui face Dardanios ferroque sequare colonos, Nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires. Litora litoribus contraria, fluctibus undas

Inprecor, arma armis, pugnent ipsique nepotesque. (Eneide, IV, 625-629)

qui, al contrario, la serenità della protagonista è esemplificata nell’annuncio «Ad virum vado», simbolo di coerente e fedele dedizione all’amore coniugale:

«O pudicitie inviolatum decus! O viduitatis infracte venerandum eternumque specimen. Dido! In te velim ingerant oculos vidue mulieres et potissime cristiane tuum robur inspiciant, te, si possunt, castissimum effudentem sanguinem, tota mente considerent, et he potissime quibus fuit ne ad secunda solum dicam, sed ad tertia et ulteriora etiam vota transvolasse levissimum!»

(De claris mulieribus, XLII, 16). Il tratto distintivo di Didone consiste proprio nella totale e cosciente rinuncia e ripulsa di ogni attrattiva sensuale, a differenza delle altre vedove che confessano e tentano di addurre giustificazioni ai loro cedimenti:

«O ridiculum! Dido quorum subsidio confidebat, cui exuli frater unicus erat hostis? Nonne et Didoni provocatores fuere plurimi? Imo, et ipsa Dido eratne saxea aut lignea142 magis quam hodierne sint? Non equidem»

(De claris mulieribus, XLII, 17).

superiore. Per la regina suicida la vita terrena è esercizio di virtù, ed è quindi il rifiutarsi quando il conservarla è subordinato al peccato e alla colpa», ivi, p. 208.

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Nel passo latino si può cogliere un’eco di un particolare segmento dell’orazione di Ghismonda a Tancredi: «Esser ti dové, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dei, quantunque tu ora sie vecchio, cehnti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza», Decameron, IV, I, 33.

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Un’altra vedova, più giovane, cita addirittura il precetto paolino143, a giustificazione della propria debolezza:

«Aderit, suo iudicio, astutior ceteris unaque dicat: - Iuvenis eram; fervet, ut nosti, iuventus; continere non poteram; doctoris gentium aientis: ‘Melius est nubere quam uri’ sum secuta consilium - »

(De claris mulieribus, XLII, 22) alla quale l’autore contrappone la risposta:

«O quam bene dictum! Quas ego aniculis imperem castitatem, vel non fuerit, dum firmavit animo castimoniam, iuvencula Dido! O scelestum facinus! Non a Paulo tam sancte consilium illud datur quin in defensionem facinoris persepe turpius alligetur. Exhaustas vires sensim cibis restaurare possumus: superfluas abstinentia minorare non possumus! Gerntilis femina ob inanem gloriam fervori suo imperare potuit et leges imponere; cristiana, ut consequatur eternam, imperare non potest!»

(De claris mulieribus, XLII, 22). Il legame tra Didone (cui Boccaccio attribuisce la medesima pietas che Virgilio aveva riconosciuto a Enea) e Sicheo (al quale è dedicato l’apposito capitolo LVII De Syceo Phylistenis filio et Didonis

viro delle Genealogiae deorum gentilium) è presentato in tutta la sua risplendente onestà («Hi

[Didone e Sicheo] autem invicem sanctissime se amarunt», De claris mulieribus, LLII, 4), e sin da subito viene posto l’accento sulla differenza tra il coniuge e il fratello della regina144 (al quale Boccaccio dedica il breve capitolo LIX De Pygmalione filio Beli delle Genealogiae deorum

gentilium):

«Erat preceteris mortalibus cupidissimus et inexplicabilis Pygmalion auri, sic et Acerba ditissimus; esto, regis avaritia cognita, illud occultasset latebris. Verum cum famam occultasse nequiverit, in aviditatem tractus, Pygmalion, spe potiundi, per fraudem occidit incautum. Quod cum cognovisset Elyssa, adeo impatienter tulit ut vix abstineret a morte»

(De claris mulieribus, XLII, 4-5). Il vincolo matrimoniale tra Didone e il suo sposo viene descritto, in una prosa «non priva di lirismo misto a rigore etico»145, come paradigma di felicità e fedeltà, e proprio in questo è chiara la derivazione da Tertulliano che nel già citato Ad uxorem (II, 8) scrive a proposito del legame coniugale:

«Ambo fratres, ambo conservi, nulla spiritus carnisve discretio. Vere duo in carne una. Ubi caro una, unus et spiritus».

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Cfr. p. 94 nota 11.

144 Lo stesso argomento viene trattato più estesamente – oltre che in maniera diretta – nel De casibus virorum illustrium

(II, 10): «Optimi navigationis nostre socii, quod feceritis ignoratis arbitror; opers Acerbe ac Pygmalionis proiecistis in undas, quo facinore ego aut mortis aut fuge socios adinveni. Avaritiam quidem Pygmalionis novistis; has ob opes Acerba vir meus occisus est. Nec dubium si ad eum proiectis his deveniamus, quin spe frustrates et succensus ira, nos omnes in cruciatus mortemque compellat. Quam quidem (postquam is quem summe diligebam subtractus est) libens adsumam; sed vobis compatior. Et idcirco si me una vobiscum nefario e conspectus fratris fuga auferre velitis, vite parcam mee, et ad sedes lettore pretenda faustis avibus me ducem vobis offero». Particolarmente importante è il verbo “compati”, in cui «è la manifestazione della propria responsabilità e insieme il sentimento di carità umana che stringe fra loro la sofferenza della vedova e le sorti dei compagni fuggitivi», A. CERBO, op. cit., p. 199.

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