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Delle sette giovani donne componenti la «laudevol compagnia» protagonista della macrostoria in cui si contengono, in ordinata ripartizione, le cento novelle del Decameron, Boccaccio spiega in

§3 Didone in Dante

3. Delle sette giovani donne componenti la «laudevol compagnia» protagonista della macrostoria in cui si contengono, in ordinata ripartizione, le cento novelle del Decameron, Boccaccio spiega in

minuzioso dettaglio le ragioni di opportunità storica che lo inducono a tener celata la vera identità128; designandole per altro ognuna con un particolare nom de plume che possa rivelarne – come identicamente avverrà per i tre giovani uomini – qualità, indole, ruolo psicologico. Ultima fra le sette ad essere così indicata è Elissa, portatrice di una cifra nominale in cui già «il Billanovich indicò […] la filigrana e l’allusione alla più appassionata figura virgiliana, alla regina fenicia simbolo di amore totale»129. Collocato in apertura d’opera, l’implicito richiamo a Didone può essere

128 «li nomi delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse, la quale è questa: che

io non voglio che per le raccontate cose da loro, che seguono, e per l’ascoltate nel tempo avvenire, alcuna di loro possa prender vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere che allora, per le ragioni di sopra mostrate, erano nonché alla loro età ma a troppa più matura larghissime; né ancora dar materia ag’invidiosi, persti a mordere ogni laudevole vita, di diminuire in niuno atto l’onestà delle valorose donne con isconci parlari», G. BOCCACCIO, Decamon I, Introduzione, 50.

129 V. BRANCA, Introduzione a G. BOCCACCIO, Decameron, Torino, Einaudi, 1980, p. 31, nota 1. Come d’altronde

gli altri nomi, quello questo s’inserisce in una coerente rete di molteplici richiami: «essi rappresentano in qualche modo coi loro nomi stessi le figure divenute esemplari per le vicende di fortuna, di intelligenza e soprattutto di amore nella letteratura e nella cultura, dalla più grande poesia latina ai più cari testi contemporanei: da Virgilio (Elissa) e da un esemplare e famoso poemetto mediolatino (Panfilo) allo Stil Novo e Dante (Neifile) al Petrarca (Lauretta), giù giù sino alle esperienze della giovineza creativa del Boccaccio presenti e vive ancora prepotentemente nel Decameron (Filomena e FIlostrato) già nel Filostrato, Fiammetta nel Filocolo, nella Commedia e nell’Elegia, Emilia nel Teseida e nella Commedia, Pampinea e Dioneo nella Commedia», Id., Bocaccio medievale, Milano, BUR 2010 [Firenze, Sansoni 1956], p. 69.

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letto in una duplice ottica: in senso più generico, come ogni altro senhal femminile, esso testimonia la filoginia dichiarata dal Boccaccio già al momento della dedica dell’opera alle donne innamorate130. Ma se un tale atteggiamento sin troppo ostentato non manca in realtà di nascondere ben celate punte di una del tutto opposta misoginia, è quanto meno singolare che le prime parole pronunciate da Elissa

«Veramente gli uomini sono delle femine capo e senza l’ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine […]»

(Decameron, I, Introduzione, 76) suonino denigratorie del sesso femminile, della sua congenita debolezza e di una conseguente dipendenza dall’uomo: difetti peraltro del tutto assenti nella Didone “storica”, lodata per la sua coraggiosa energia e le autonome capacità politiche, e proprio in quanto tale recepita da Boccaccio spesso in dichiarato contrasto con l’asse Virgilio-Dante.

Non si può comunque parlare dell’archetipo Didone nel Decameron senza osservare come sotto le insegne della tragica vicenda amorosa narrata da Virgilio nel IV libro dell’Eneide si colloca l’inserimento in quarta posizione della giornata dedicata a «coloro li cui amori ebbero infelice fine». Il tema tragico, imposto in questa giornata da Filostrato, viene accolto dalla brigata con qualche resistenza, di cui si fa portavoce Fiammetta, lamentando che quella «Fiera materia di ragionare» (IV,1,2), in palese contrasto con quanto dovrebbe essere raccontato «dove per rallegrarci venuti siamo» (IV,1,2), sia stata imposta dal re «per temperare alquanto la letizia avuti li giorni passati». Non potendo trasgredire il volere regale, ella esprimerà con un eccesso di zelo il suo dissenso, raccontando «un pietoso accidente, anzi sventurato e degno delle nostre lagrime» (IV,1,2). Come palese paradigma iper-tragico, viene allora proposta la novella di Ghismonda131, la principessa salernitana «novella Didone»132. Sin dalla prima descrizione della figlia di Tancredi, appaiono chiari i riferimenti ai vari tratti peculiari della regina cartaginese, sia per quanto riguarda la bellezza che per le qualità intellettuali e morali:

«Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura si richiedea»

(IV, 1, 5)

e proprio al suo essere «savia» molto più di quanto, per norma, si richiede a una donna per poterla ritenere tale, consiste in primo luogo la radice del tragico che la investe. Decisamente problematico, o quanto meno contorto, è il rapporto che lega il principe Tancredi alla figlia, la quale, dopo una breve parentesi matrimoniale, è tornata a vivere con lui. Essendo dunque vedova, consapevole di come il padre non pensi affatto a rimaritarla, non parendo a lei «onesta cosa […] il richiedernelo»133

130 Intendendo il Decameron come opera finalizzata ad un garbato intrattenimento, ma dichiaratamente priva di alte

finalità etico-didascaliche, Boccaccio arriva a chiamarlo prencipe Galeotto, dove è sin troppo evidente il richiamo a Dante, Inferno, V, 137-138, Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante. A questo riguardo, non si può non ricordare come, nel passo ad locum delle Esposizioni sopra la Comedia, Boccaccio inventi la storia pregressa del matrimonio contratto da Francesca con Paolo, rappresentante per procura di Giangiotto Malatesta, ma a lei presentato come suo vero marito. Un’invenzione elaborata con l’evidente finalità di giustificare, almeno parzialmente, la colpa di Francesca, riabilitando così indirettamente, anche buona parte di quella letteratura romanzesca da Dante esplicitamente condannata, nonché ‒ sulla base delle analogie Didone/Francesca precedentemente riscontrate – la stessa regina cartaginese.

131 Cfr. M. BARATTO, Realtà e stile nel Decameron, Vicenza, Neri Pozza, 1974, pp. 171-195. 132 V. BRANCA, Boccaccio medievale, op. cit., p. 113.

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Partendo dalla vicenda – presente in rielaborazioni nel Satyricon petroniano e nell’Appendix perottina di Fedro – della Matrona di Efeso, A. BISANTI (Noterelle braccioliniane, in «MAIA», fascicolo II, anno XLIV, maggio-agosto 1992, pp. 173-192) analizza il fil rouge di un topos favolistico che dalla classicità arriva sino al Novecento di d’Annunzio (La veglia funebre) e Amado (Dona Flor e seu dois maridos). Proprio in Boccaccio viene individuato un

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(Decameron, IV,1,5), Ghismonda mostra concretamente tutta la sua saggezza nel cercare «di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante» (IV,1,5). Ella intende così recare ai suoi naturali istinti una soddisfazione tanto più legittima se nel realizzarla occultamente ella non scalfirà in alcun modo la sua immagine di principessa figlia e vedova. Di qui lo stratagemma da lei rinvenuto di introdurre nei suoi appartamenti il giovane amante servendosi di una grotta e di un passaggio segreto di cui tutti hanno dimenticato l’esistenza. Se un chiaro simbolismo erotico emerge nella relativa descriptio loci, l’attenzione a simili dettagli non sembra essere tanto, come voleva Auerbach134, il segno di una debolezza intrinseca del tragico boccacciano, facilmente contaminabile dall’elemento avventuroso, quanto proprio la dimostrazione di una femminile ‘saggezza’ straordinaria, che tale si rivela nei comportamenti empirici come si dispiegherà poi nella sua lunga orazione. Tanto cauto e saggio l’agire di Ghismonda, che nulla potrebbe determinare la scoperta dei suoi furtivi appuntamenti galanti, se non il proditorio attacco della «fortuna, invidiosa» (IV,1,15), o piuttosto, il comportamento sempre più ombroso e ambiguo del padre che, introdottosi di nascosto negli appartamenti di lei, si ritrova ad essere traumatizzato spettatore di quanto mai avrebbe immaginato o ancor meno voluto vedere. Sarà ovvio per lui e per la sua autorevolezza infierire sul giovane Guiscardo, farlo uccidere e – in un estremo sadico sussulto – inviare alla figlia il cuore di lui in una coppa d’oro. E’ proprio nel momento in cui prende avvio il tragico epilogo che Ghismonda, risoluta a darsi la morte, diventa sempre più simile a Didone. Solo alla luce di tale somiglianza, in relazione ad un modello tragico della classicità, sembrano infatti rendersi plausibili e legittime le sue manifestazioni di dolore:

«udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto ma ancora preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì e a mostrarlo con romore vicina: ma pur questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con meravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di più non stare in vita dispose»

(IV, 1,30)

peraltro assolutamente straordinarie e inusuali se relazionate ad un livello medio del comportamento femminile registrabile nel Decameron in quanto specchio del costume storico-sociale vigente. Dall’ultimo passo emerge chiaramente come l’eccezionalità ‘storica’di Ghismonda consista proprio nella sua dimensione caratteriale, analoga a quella tratteggiata da Virgilio per Didone ‒ coerentemente con quanto verrà poi approfondito nelle opere latine della maturità – che al tutto la differenzia dagli atteggiamenti di debolezza comunemente ritenuti propri della donna. E come estremo momento di somiglianza tra la determinazione della vedova Ghismonda e il coraggio della

univira135 Didone, valga l’explicit dell’amaro saluto, che la prima rivolge a Tancredi:

«Or via, va con le femine a spander le lagrime, e incrudelendo, con un medesimo colpo, se cosi ti par che meritato abbiamo, uccidi»

(IV,1,45)

In un’apostrofe di profonda veemenza che intende, oltre al padre, offendere in lui l’uomo: il maschio avvilito e devirilizzato. Al contrario di quello di Tancredi, apparentabile al pianto lamentoso delle ‘femine’, quello della mulier fortis non si enuncia come segno di fragilità/debolezza. Ghismonda rinuncia infatti al suo primo proposito di restare comunque a ciglio asciutto, pur di tributare al cuore di Guiscardo, lavandolo con le sue lacrime, il più nobile omaggio

elemento cruciale di quel processo evolutivo del genere che dà esiti significativi in cospicua misura all’interno del Facetiarum liber dell’umanista toscano.

134 E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Enaudi, 1956, vol. I, pp. 250-251. 135 Cfr. nota 9 del presente capitolo, oltre che capitolo I p. 25.

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funebre. Per questo, il suo pianto è frutto del supremo sforzo di volontà, emanazione tutta cerebrale («che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore», IV,1,55) 136. Al di là di ogni inesistente somiglianza tra le due vicende umane, è la stoica e teatralizzata fine a costituire un trait d’union tra Didone e Ghismonda, e questo è anche dimostrato dalla presenza, in entrambi i casi, della solenne orazione funebre pronunciata prima dell’atto estremo: sia Didone che la principessa salernitana vengono quindi a porsi come portatrici di un’istanza tragica, secondo cui esse stesse si rendono registe della messa in scena della propria morte.

4.

É appunto nelle opere latine che Boccaccio trova più ampio spazio per approfondire la

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