§2 La tragedia di Didone
2. È stato anche osservato che Enea si rivolge, nell’ultimo incontro dei lugentes campi, a Didone in toni molto vicini alla poesia alessandrina 131 : effettivamente, l’allusione a Catullo culminante nel
verso 460 (Invitus, regina, tuo de litore cessi), su cui già si è discusso nel capitolo precedente e che – come si è detto – va direttamente collegata alla recisione della ciocca di capelli di cui si parla nei versi finali del IV libro132, va adeguatamente contestualizzata. Il segmento comprendente l’ultimo incontro tra Enea e Didone, inoltre, appare chiaramente diviso in tre momenti: la scoperta di Didone da parte di Enea (vv. 450-454), il tentativo di dialogo da parte di quest’ultimo (vv. 455-468) seguito dall’eloquente silenzio della regina133, che infine s’allontana (469-476): suggestiva, oltre che fondamentalmente condivisibile, l’interpretazione fornita da Thomas Eliot a riguardo, secondo cui «Dido’s behaviour appears almost as a projection of Aeneas’ own conscience; this, we feel, is the
130 Infine, se «Procri’s jealous suspicious of her husband’s innocent pursuit of the hunt might be compared with Dido’s
inability to understand Aeneas’ pursuit of his fated mission» (P. A. JOHNSTON, op. cit., p. 651), per l’ambigua figura di Ceneo si può condividere quanto osservato da G. S. WEST (Caeneus and Dido, in «Transactions of the American Philological Association», vol. 110, 1980, pp. pp. 318-319), secondo cui il cambio di sesso di Cenide in Ceneo potrebbe avere un parallelo nel passaggio da moglie devota a governatore di città, con ulteriore e fatale ritorno della natura femminea con l’innamoramento per Enea, nel caso di Didone.
131
«Aeneas speaks not merely as the hero of the poem, or even as the hero of a Herculan catabasi, but as a learned, Alexandrian poet», R. A. SMITH, A Lock and a Promise: Myth and Allusion in Aeneas’ Farewell to Dido in “Aeneid” 6, in «Phoenix», vol. 47, n° 4 (Winter 1993), p. 305. Cfr. anche M. SKINNER, The Last Encounter of Dido and Aeneas: Aeneid 6 450-476, in «Vergilius», vol. XXIX, 1983, p. 18.
132 Cfr. J. TATUM, Allusion and Interpretation in Aeneid 6 440-476, in «American Journal of Philology», vol. 105, n°4
(Winter, 1984), pp. 434-452.
133 Al cui proposito Servio scrive: «tractum autem est hoc de Homero, qui inducit Aiacis umbram conloquia fugiente,
76
way in which Aeneas conscience would expert Dido to behave to him»134. Didone appare nel mondo ultraterreno in compagnia di altre donne, ognuna delle quali – come poc’anzi si è già accennato – rappresenta una parte del suo destino: fedele al marito come Evadne, ma non sino in fondo come Erifile; suicida per un amore vietato, al pari di Fedra, ma anche vittima innocente, come Procri. Mediante l’accostamento a Ceneo, infine, si può osservare che proprio mediante il venir meno ai pubblici/politici impegni di dux femina facti, Didone riscopre, ancorché con esito tragico, la propria dimensione intima di donna capace d’innamorarsi135.
Inter quas phoenissa recens a volnere Dido Errabat silva in magna. Quam troius heros Ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras Obscuram, qualem primo qui surgere mense Aut videt aut vidisse putat per nubila lunam, Demisit lacrimas dulcique adfatus amore est: Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo
Venerat extinctam ferroque extrema secutam? Funeris heu tibi causa fui? Per sidera iuro, Per superos, et si qua fides tellure sub ima est, Invitus, regina, tuo de litore cessi.
Sed me iussa deum, quae nunc has ire per umbras, Per loca senta situ cogunt noctemque profundam, Imperiis egere suis: nec credere quivi
Hunc tantum tibi me discessu ferre dolorem. Siste gradum teque aspectu ne subtrahe nostro. Quem fugis? Extremum fato quod te adloquor hoc est. Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem
Lenibat dictis animum lacrimasque ciebat. Illa solo fixos oculos aversa tenebat: Nec magis incepto voltum sermone movetur, Quam si dura silex aut stet marpesia cautes. Tandem corripuit sese atque inimica refugit In nemus umbriferum: coniunx ubi pristinus illi Respondet curis aequatque Sycaeus amorem. Nec minus Aeneas casu concussus iniquo
Prosequitur lacrimans longe et miseratur euntem.
AC
Era con queste la fenissa Dido, che, di piaga recente il petto aperta, per la gran selva spazïando andava. Tosto che le fu presso, Enea la scòrse per entro a l’ombre, qual che vede o crede Veder tal volta infra le nubi e ‘l chiaro la nova luna, allor che i primi giorni del giovinetto mese appena spunta; e di dolcezza intenerito il core, dolcemente mirolla e pianse e disse: «Dunque, Dido infelice, e’ fu pur vera quell’empia che di te novella udii, che col ferro finisti i giorni tuoi? Ah, ch’io cagion ne fui! Ma per le stelle, per gli supremi dèi, per quanta fede ha qua giù, se pur v’ha, donna, ti giuro che mal mio grado dal tuo lito sciolsi. Fato, fato celeste, imperio espresso fu del gran Giove, e quella stessa forza, che da l’eteria luce a questi orrori de la profonda notte or mi conduce, che da te mi divelse; e mai creduto ciò di me non avrei, che ‘l patir mio cagion ti fosse ond’a morir ne gissi ma ferma il passo, e le mie luci appaga de la tua vista. Ah, perché fuggi? E cui? Quest’è l’ultima volta, ohimè! Che ‘l fato Mi dà ch’io ti favelli, e teco sia».
Così dicendo e lagrimando intanto placar tentava o raddolcir quell’alma, ch’una sol volta disdegnosa e torva lo rimirò; poscia o con gli occhi in terra, o con gli omeri vòlta, a i detti suoi
stette qual alpe a l’aura, o scoglio a l’onde. Alfin, mentre dicea, come nimica
gli si tolse davanti, e ne la selva al suo caro Sichèo, cui fiamma uguale e par cura accendea, si ricondusse né però men dolente, e men pietoso restonne il teucro duce: anzi quant’oltre poté con gli occhi, e lungo spazio poi col pianto e coi sospiri accompagnolla.
VA RCO
Fra queste tutte, errar per l’ampia selva Vede Enea la pur dianzi uccisa Dido; O di vederla pargli; che a quel fioco Barlume, qual fra nubi incerta luna,
Tra l’altre, fresca ancor di ferita, Didone fenicia vagava per la foresta immensa. Ed ecco l’eroe teucro le fu vicino, e la conobbe, fra l’ombre incerta, come chi sorgere, al principiare del mese,
134 T. S. ELIOT, What Is a Classic, London, Faber&Faber, 1946, p. 20. 135 Cfr. V. PÖSCHL, Dido und Aeneas, op. cit., p. 158.
77
La scorgea. Ma non pria le giunge appresso, E la ravvisa, che il pianto lo assale,
E tal con amor tenero le parla: Dido infelice, (oimé) verace dunque Fu la novella, che di ferro estinta
Tu di tua propria man cadessi? Ahi lasso! Cagion io fui del morir tuo! Ma, il giuro Per gli astri tutti, e per gl’Iddii, (se fede Dite ammette pur anco) io da’ liti tuoi Mal mio grado, o Regina, mi partiva. Comando alto de’ Numi, ch’or mi spinge Quaggiù tra l’ombre e lo squallor tremendo Di questa notte eterna, allor mi trasse Fuor de’ tuoi regni a forza. Ahi! Non credetti Che dolor tanto il mio partir ti fora.
Deh, ferma il piè; dagli occhi miei non vogli Così sottrarti. Oh ! Tu mi sfuggi? E questi, gli ultimi accenti miei son pur che ascolti…. Con tali voci Enea l’irata Dido,
Che torva riguardavalo, addolciva, Invitandola al pianto. Ma, rivolta Gli occhi immobili al suolo, ella si stava Sorda a sue voci, e tacita, più ch’aspro Marpesio masso in Alpe. Al fin si toglie Dalla di lui presenza, in atto ostile, Rinselvandosi là, dove di pari Amor l’appaga il pristino consorte Sichèo, che ancor le cure sue divide. Cogli occhi lagrimosi l’accompagna Quanto più puote il Teucro Eroe, compunto Dal fero caso, e impietosito, assai.
vede, o crede vedere, fra nubi la luna;
e lasciò correr le lagrime e la chiamò con amore: «Didone misera! e dunque era vero l’annunzio che t’eri uccisa col ferro, che avevi voluto morire. Di morte io ti fui causa! Per le stelle ti giuro,
pei superi, per quale valga mai pegno sotto la terra profonda, io non volevo, regina, lasciar la tua spiaggia.
Ma la legge dei numi, che or mi fa andare fra l’ombre, per luoghi squallidi, mucidi, entro la notte profonda, con la sua forza mi urgeva: e non potevo, no, credere che t’avrei dato, partendo, così disperato dolore. Ferma il passo, oh non sottrarti al mio sguardo.
Chi fuggi? Per fato, è l’ultima volta che posso parlarti!» Così quell’anima ardente, che torvo guardava,
Enea tentava lenir con parole, e piangeva. Ma lei gli occhi a terra, nemica, fissi teneva. Né al suo parlare cambia espressione del volto, più che se rigida roccia o scoglio marpesio là stesse. Si scosse alla fine e corse, nemica, a nascondersi nel bosco ombroso: là dove il primo marito,
al suo affanno risponde, uguaglia il suo amore, Sicheo. Tanto più Enea, sconvolto dall’ingiusta sciagura, la segue con lacrime a lungo, mentre fugge, e ne piange.
Se Annibal Caro decide d’insistere – mediante la reduplicatio (“Fato, Fato celeste”) – sull’ineluttabilità dell’obbligo cui Enea è dovuto sottostare, Alfieri sottolinea giustamente – a differenza della Calzecchi Onesti – la particolare sfumatura (dulci amore, tradotto con “amor tenero”) del sentimento che spinge Enea a rivolgersi a Didone. Tutta la scena è magistralmente giocata su un cambio di ruoli rispetto a due momenti topici del primo e del quarto libro, e la permutazione avviene mediante due similitudini: lo scorgere, da parte di Enea, Didone, come luna fra nubi136, e la ostinata resistenza della regina a non rivolgere parola all’addolorato Enea137. Ancora, se il quesito con cui s’apre l’ultimo incontro di Enea e Didone sembra confermare l’ignoranza del primo circa la morte della seconda, rivelandone «his human weakness»138, in riferimento al paragone Catullo/Virgilio circa la recisione della ciocca, nell’Eneide la spada acquista un significato ben più profondo e tragico, dal momento che è lo strumento mediante cui Didone si infligge la morte139. Solo nel mondo dell’oltretomba Enea capisce il senso della tragedia
136
immagine mediata probabilmente dall’incontro di Linceo con Eracle in Apollonio Rodio (IV, 1479-1480).
137 «This starting point of the last encounter between Aeneas and Dido sends us back to their first meeting when
Aeneas, like a statue of a god, suddenly appeared from a cloud of mist which had hidden him from Dido (1. 586-593). In comparison with book 1 the roles are now reversed. The first encounter of the lovers happened in the daylight, but they had no knowledge of their fate. Now, in the darkness of the underworld, knowledge will come. The second simile relates our scene to Book 4. Despite Aeneas’ entreaties, Dido remains unmoved as marble (6. 470-471). In book 4 conversely, Dido had implored Aeneas and he had been hard as stone (4. 366) and unshattered like an oak in the storm (4. 441-449). The similes reflect the reversal of the situation and the change of roles», M. VON ALBRECHT, Roman epic: an interpretive introduction, Leiden, Brill, 1999, p. 124.
138 D. C. FEENEY, The Taciturnity of Aeneas, in «Classical Quarterly», New Series, Vol. 33, n°1, 1983, p. 217.
139 «The curse and the sword, however, rather being associated with Aeneas, the character that swears here and who is,
78
causata140 e anche mediante l’allusione catulliana al catasterismo della ciocca, viene anticipato il futuro destino grandioso della stirpe: Giulio Cesare, discendente di Enea, la cui morte fu testimoniata dal fenomeno astronomico della cometa, diverrà post mortem figura divina, con una propria costellazione141. Per quel che concerne invece il nesso Alcesti/Didone, per la seconda (ed Enea) è condivisibile quanto, in riferimento alla tragedia euripidea, ha scritto Segal circa l’importanza della figura maschile, reale nodo problematico della tragedia142.