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1 Roma “cauda mundi” nel Dialogo in cui la Nanna insegna a la Pippa di Pietro Aretino

Nella seconda giornata del Dialogo di Messer Pietro Aretino1(1536) l’episodio virgiliano di Didone viene fatto oggetto di una riscrittura che, se in alcuni momenti si accosta ad una libera traduzione, ne fornisce in ultima istanza una parodica versione/rielaborazione in prosa – con le dovute differenze tra i rispettivi contesti – volta ad assecondare la verve polemica dello scrittore toscano. Proprio la capacità di decostruire e transcodificare il testo dell’Eneide costituisce infatti l’aspetto più interessante dell’opera di Aretino2: mediante la messa in crisi della stessa struttura narrativa, questa moderna pratica di «Kreuzung der Gattungen»3, o per meglio dire, di «accavallamento reciproco» o «aggressione ai “generi”»4, comporta una indubbia anticipazione di alcuni stilemi barocchi5. Solo di recente, comunque, il rapporto Virgilio-Aretino è stato inquadrato correttamente,

1 Il titolo completo è In questa seconda giornata del dialogo di Messer Pietro Aretino la Nanna racconta a Pippa sua le

poltronerie degli uomini inverso de le donne. Per quel che concerne il titolo generale dell’opera, spiega P. PROCACCIOLI (Nota al testo, in P. ARETINO Ragionamento – Dialogo, Introduzione di N. BORSELLINO, Milano, Garzanti, 1984, p. XXXIX): «non fissato dall’autore (che pubblicò separatamente il Ragionamento della Nanna e della Pippa [1534] e il Dialogo di Messer Aretino nel quale la Nanna…insegna a al Pippa…[1536]), fin dalle prime edizioni complessive è stato adattato, nell’una o nell’altra delle forme più volgate, sulla base di ricostruzioni e ipotesi più o meno probanti». Una dettagliata analisi del brano aretiniano è quella di G. MARCONI, Un aemulatio…a degrado (P. Aretino, “Giornata 2,2: del barone e della signora), «Quaderni della “Rivista di cultura classica e medievale”», Pisa- Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001.

2 Cfr. R. SALINA BORELLO, D’amoroso strale – per una tipologia delle riscritture, Roma, Edizioni Nuova Cultura,

1994, p. 120.

3

«L’opera è un incontro di commedia e novella, di recitato e narrato, di discorso e di descritto. Con questa impostazione, che meglio risponde alle sue attitudini, l’Aretino soddisfa il suo gusto di contaminare i generi letterari, di rompere gli schemi classici, di trasgredire regole e ordini prefissi, affidandosi alla poetica dell’arbitrio naturalistico», A. PICCONE STELLA, L’arte dell’Aretino, in P. ARETINO, Piacevoli e capricciosi ragionamenti, a cura di A. PICCONE STELLA, Milano, Bompiani, 1944, p. XXXVI. Cfr. anche G. DAVICO BONINO, Aretino e Virgilio: un’ipotesi di lavoro, in «Sigma», n°9, 1966, pp. 41-51. Per una completa e approfondita discussione dell’espressione di Wilhelm Kroll, cfr. «Matrices of Genre: Authors, Canons, and Society», ed. by M. DEPEW and D. OBBINK, Cambridge: Harvard University Press, 2000. A proposito del polimorfismo dello stile di Aretino scrive E. PARATORE: «l’indifferenza ai valori etici superiori, la spregiudicatezza nel volteggiare fra I più diversi contenuti, l’attenzione rivolta sempre di preferenza all’impsto linguistic in quanto carico di familiar e aggressive discorsività e icasticità e sentito quindi come unico mezzo per comunicare simpateticamente col lettore e creare nel suo spirit la suggestion trascinatrice dell’autore, tutto questo è stato interpretato come volute e decisa contrapposizione alla letteratura dei Bembo, dei Castiglione, dei Trissino, come tappa capital di quell moto sotterraneo che avrebbe spinto a poco a poco anche lo stilizzato mondo letterario cinquecentesco, prigioniero della retorica classica, a far erompere dal suo genio i medesimi fermenti che nel mondo della musica, attraverso il Vecchi e il Banchieri, avrebbero liquidato la polifonia vocale di tipo palestriniano legata agli uffici liturgici e aperto la strada alla rivoluzione del Monteverdi […]», Aretino rielaboratore di Virgilio, in Spigolature romane e romanesche, Roma, Bulzoni, 1967, p. 115.

4

G. FERRONI, IL teatro della Nanna, in Le voci dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro, Napoli, Liguori, 1977, pp. 145-146.

5 Come già notato da G. WEISE, Manieristische und frühbrarocke Elemente in den religiösen Schriften des Pietro

Aretino, in «Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance», T. 19, No. 2 (1957), pp. 170-207. A tale proposito aveva prima osservato A. PICCONE STELLA (op. cit., p. XXI): «L’elemento che per intenderci chiameremo barocco, ha all’esterno, in considerazione della stessa novità ed eccessività, uno spicco rilevantissimo, gli appartengono le frequenti

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con l’individuazione di un passaggio intermedio sfuggito ai precedenti esegeti. Quello che lo stesso Aretino, indirettamente, sembra adombrare come plagio («Mi pareva che tutta Roma gridasse a la strangolata: Pippa, o Pippa, tua madre latroncella ha furato il Quarto di Virgilio, e vassene facendo bella», esclama alla fine la Pippa), e che tale è stato in parte semplicemente reputato, è in realtà un’attenta operazione cui compartecipano varie categorie letterarie (parafrasi, adattamento, rielaborazione, traduzione) compiuta da un «raffinato esegeta, se non proprio […] traduttore- filologo» attraverso il filtro dell’ «Eneide in terza rima di Tommaso Cambiatore da Reggio, composta intorno al 1430, ma pubblicata postuma a Venezia, presso Bernardino de Vitali, nel 1532»6. L’occasione narrativa in cui s’inserisce l’ardita parafrasi del testo latino è costituita dal racconto del sacco di Roma da parte della Nanna, una cortigiana il cui compito è quello di insegnare il mestiere alla figlia Pippa7. Dopo l’introduzione – invenzione dell’Aretino rispetto all’ipotesto8 virgiliano – del sogno di quest’ultima in cui l’autore ha subito modo di dare dimostrazione del suo debordante e colorato stile9, il racconto della Nanna si accosta subito ai versi dell’Eneide:

Conticuere omnes intentique ora tenebant Inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto: «Infandum, regina, iubes renovare dolorem, Troianas ut opes et lamentabile regnum Eruerint Danai, qua eque ipse miserrima vidi Et quorum pars magna fui. Quis talia fando Myrmidonum Dolopumve aut duri miles Ulixi Temperet a lacrimis? Et iam nox umida caelo Praecipitat suadentque cadentia sidera somnos. Sed si tantus amor casus cognoscere nostros Et breviter Troiae supremum audire laborem,

quamquam animus meminisse horret luctuque refugit, Incipiam. […]

«Allora il barone, volendo ubidire ai comandamenti de la sua supplica, traendo uno di quei sospiri che malandrinamente escano dal fegato d’una puttana che vede una borsa piena, disse: «Da che la tua Altezza, signora, vuole che io rammenti quello che mi fa portare odio a la mia memoria che se ne ricorda, io ti narrarò come la imperatrice del mondo diventò serva di gli Spagnuoli, e dirotti anco quel che io viddi di miseria: ma qual marrano, qual todesco, qual giudeo sarà sì crudele che racconti cotal cosa ad altrui senza scoppiar di pianto?»

Eneide, II, 1-13

Tra i calchi più evidenti, praticamente una traduzione letterale, c’ è subito quello dei versi 10-11 del testo virgiliano che – mediante il passaggio dantesco ([…] Tu vuo’ ch’io rinnovelli / disperato dolor

personificazioni degli astratti, il vuoto e lambiccato concettismo, le agudezas, lo spreco dei tropoi, l’abuso delle antitesi, il falso rigoglio ornamentale, l’impiego dell’aggettivo come sostantivo, la disposizione multipla, al plurale, e speso al superlativo, degli aggettivi e dei verbi».

6

L. BORSETTO, Traduzione e furto nel Cinquecento: in margine ai volgarizzamenti dell’”Eneide”, in Riscrivere gli Antichi, riscrivere i Moderni e altri studi di letteratura italiana e comparata tra Quattrocento e Ottocento, Alerssandria, Edizioni dell’Orso, 2002, p. 25.

7 Per la presenza delle prostitute nella Roma rinascimentale cfr. G. MARCONI, 48-51. 8

Anche in questo caso, come nei precedenti capitoli, si usa il termine «ipotesto» seguendo l’accezione fornita per tale lemma da G. GENETTE, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris, Seuil, 1982, p. 11.

9 Cfr. la descrizione degli animali che Pippa vede intorno al suo letto«di broccato riccio»: «intorno a me si raggiravano

buoi, asini, pecore, bufalacci, volpi, pavoni, barbagianni e merloni, i quali né per iscorticargli, né per iscardassargli il pelo, né per trargli le penne e maestre e de la coda, né per berteggiarli, non si movevano; anzi mi leccavano da capo a piei».

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che ‘l cor mi preme, Inferno, XXXIII, 4-5) – diventano «se la tua volontà è di sapere i nostri casi

(casus cognoscere nostros, v. 10), se bene mi rinovano i dolori (quamquam animus meminisse

horret luctuque refugit, v. 12), a dirgli cominciarò (incipiam, v. 13). La medesima

contestualizzazione temporale, in entrambi i casi notturna, […] Et iam nox umida caelo

Praecipitat suadentque cadentia sidera somnos

«Signora, egli è ora di dormire, e già le stelle spariscano via; […]»

Eneide, II, 8-9

subisce però in Aretino, che ancora una volta traduce il secondo elemento della frase quasi alla lettera, un sensibile «slittamento nel quotidiano e nel banale»10. Il primo segnale forte dell’intento, al contempo polemico nei confronti dell’eroe eponimo virgiliano e rivoluzionario rispetto al testo di riferimento, consiste nella descrizione del narratore Enea/«barone»: dall’incanto epico che avvolge l’uditorio cartaginese, su cui si gioca il passaggio dal I al II libro, si passa infatti ad «uno di quei sospiri che malandrinamente escano del fegato d’una puttana che vede una borsa piena». Con maggior precisione, Nanna presenta nei seguenti termini, eloquentemente spregevoli 11, il protagonista della sua narrazione:

«Un barone romanesco, non romano, uscito per un buco del sacco di Roma, come escano i topi, essendo in non so che nave, fu gittato con molti suoi compagni da la bestialità dei venti pazzi al lito di una gran cittade de la quale era padrona una signora che non si può dire il nome».

Se quindi il barone (appellativo portatore di un doppio significato: in senso ironicamente positivo in quanto titolo d’alto rango, ma anche accrescitivo di baro12) viene subito assimilato ad un topo (un’altra anfibolia è contenuta nell’espressione «uscito per un buco del sacco di Roma») che “esce”, cioè senza opporre alcuna resistenza attiva, dalla città13, la protagonista femminile viene subito designata quale «signora», e un indubbio tono positivo viene ancora usato nei confronti di quest’ultima, allorquando vengono narrati i primi soccorsi prestati al naufrago:

«Ma la signora, cacciategli a le forche con uno alzar di testa, se gli fece incontra: e con aspetto grazioso e con atto benigno, lo confortò; e adagiatolo nel suo palagio, fece ristorar la nave e i navicanti più che signorilmente; e visitato il barone, il quale s’era tutto riavuto, stette a udire il proemio, la diceria, il sermone e la predica che le fece, dicendo che egli si scorderia de la sua gentilezza quando i fiumi correranno all’insù (uomini traditori, uomini bugiardi, uomini falsi); […]».

10

R. SALINA BORELLO, op. cit., p. 81.

11 Sulla valenza dell’espressione offensiva «romanesco, non romano» cfr. G. MARCONI, op. cit., p. 63. 12

Per l’etimologia del lemma e le connessioni lessicali con i termini “bareria” e “barreria” presenti in Leonardo da Vinci e Ariosto cfr. G. MARCONI, op. cit., 62 nota 119.

13 Sottile, ma significativo, è il capovolgimento operato da Aretino rispetto agli avvenimenti della storia romana:

«Cartagine nel mito subiva un brutto contraccolpo dall’affare Enea-Didone e nella realtà la piena distruzione ad opera di Roma, nella storia moderna invece Roma è a sacco e la salvezza del barone ha luogo a Venezia = Cartagine», G. MARCONI, op. cit., p. 65.

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La scrittura dell’Aretino è tutta volta ad inserire in un contesto prosastico di cruda cronaca cortigiana i vari artifici retorici presenti nella poesia dell’ipotesto, come dimostrano ad esempio l’adunaton dei fiumi che «correranno all’insù» e la doppia anafora («uomini traditori, uomini bugiardi, uomini falsi») in cui si condensa tutto l’astioso livore polemico che la narratrice nutre nei confronti del genere maschile. E proprio a questo riferimento non è casuale che il barone, icasticamente dipinto come un anti-eroe:

«povero uomo sceso in terra molle, rotto, smorto, rabuffato, e più simile a la paura che non è a la furfanteria le corte d’oggidì»14

provenga proprio da Roma, di cui Enea, designato dal Fato fondatore e in virtù di ciò “assassino” di Didone, è simbolo. Analogamente, proprio di Roma viene dato un quadro non troppo dignitoso:

«ecco le botti guardiane di ponte Sisto che si sbarrattano; ecco lo essercito che di Trastevere si sparpaglia per Roma: già i gridi si odano, le porte vanno per terra, ognun fugge, ognun si asconde, ognun piange. Intanto il sangue bagna lo spazzo, la gente si ammazza, i tormentati raitano, i prigionieri pregano, le donne si scapigliano, i vecchi tremano: e volta la città coi piedi in suso, beato è quello che muor tosto o, indugiando, trova chi lo spaccia».

Ancora una doppia anafora è utilizzata per ribadire un dilagante comportamento pavido e fedifrago (fuga, occultamento, pianto), diametralmente opposto alla rabbiosa e disperata resistenza dei Troiani incitati da Enea:

Quos ubi confertos audere in proelia vidi, Incipio super his: “iuvenes, fortissima frustra Pectora, si vobis audentem extrema cupido Certa sequi, quae sit rebus fortuna videtis. Excessere omnes adytis arisque relictis

Di quibus imperium hoc steterat; succurritis urbi Incensae: moriamur et in media arma ruamus.

Una salus victis nullam sperare salutem”. (Eneide, II, 347-354)

o al valore grazie a cui proprio il figlio di Anchise si distingue su tutti, nel testo virgiliano:

Extemplo Aeneae solvuntur frigore membra: ingemit et duplicis tendens ad sidera palmas talia voce refert: O terque quaterque beati, quis ante ora patrum Troiae sub moenibus altis contigit oppetere, o Danaum fortissime gentis Tydide, mene Iliacis occumbere campis

14 «assumendo il mito classico, senza assumerne l’ideologia, la narratrice ribalta gli schemi consueti, per cui risulta

positiva la figura femminile, generosa e appassionata, capace di slanci e di abbandoni, mentre su quella maschile viene addossata quella falsità e calcolo, che un certo tipo di cultura attribuisce tradizionalmente, siano esser “oneste” o, come si usava dire, “disoneste”», ivi, p. 85.

203 non potuisse tuaque animam hanc effundere dextra, saevus ubi Aecidae telo iacet Hector, ubi ingens Sarpedon, ubi tot Simois correpta sub undis

scuta virum galeasque et forti a corpora volvit? (Eneide, II, 92-101).

E il virtuosismo dello scrittore cortigiano dilata – traducendo comunque alla lettera il verbo principale obstipuit/«stupiva», fatta salva però la differenza tra la secca puntualità del perfetto e la continuità d’azione dell’imperfetto ‒ l’icasticità virgiliana nella descrizione della profondità dell’emozione che Enea/«barone» suscita nella persona di Didone e della «signora»:

Obstipuit primo aspectu sidonia Dido « e rimirandogli il petto e le spalle, stupiva, fornendosi di traboccar di meraviglia nel contemplare l’alterezza de la sua faccia; i suo occhi pieni di onore la facevano sospirare, e i capegli di niello anellato, perdersi fatto a fatto»

Eneide, I, 612

per la quale ricore il medesimo uso verbo bibebat/«beeva»: in questo caso Aretino mantiene l’imperfetto al fine di rendere meglio il senso durativo della funesta dilatazione del formarsi del sentimento :

Infelix Dido longumque bibebat amorem, « e mentre frappava romanzescamente, la meschina, la poveretta, la sempliciotta se lo beeva con gli sguardi»

Eneide, I, 749

Se il verbo è usato, benché in accezione differente, in entrambi i casi in senso traslato/sinestetico, Aretino opera però, ancora una volta, un brusco cambio di registro sviluppando il cruciale aggettivo posto in principio d’esametro Infelix con un costrutto anaforico basato su una climax discendente di termini volutamente non solo anti-epici, ma anche afferenti al gergo popolare. La polemica dello scrittore toscano sembra cristallizzarsi anche nella descrizione dell’offerta dei doni in occasione del banchetto – con un altro voluto scarto che dalla magnificenza epica del contesto virgiliano cade nel caricaturale – in cui la caustica attenzione descrittiva si sofferma sulle suppellettili papali15, non più regali:

Munera praeterea Iliacis erepta ruinis Ferre iubet, pallam signis auroque rigentem Et circumtextum croceo velamen acantho, Ornatus Argivae Helenae, quos illa Mycenis, Pergama cum peteret inconcessosque hymenaeos, Extulerat, matris Ledae mirabile donum;

Praeterea sceptrum, Ilione quod gesserat olim, Maxima natarum Priami, colloque monile Bacatum, et duplicem gemmis auroque coronam.

«Una mitrea di brocciatello che Sua Santità portava a capo il dì de la Cenere; un paio di scarpe con lavori di nastro d’oro, le quali teneva in piedi quando Gian Matteo gliene basciuccava; il pastorale di papa Stoppa, volsi dir Lino; la palla de la guglia, una chiave strappata di mano al sampietro guardiano de le sue scale; una santa santo rum, le quali la sua prosopopea, secondo lo sbaiaffar tovaglia del tinello secreto di Palazzo e non so quante reliquie di suo, aveva scampate di mano dei nimici. In questo compare un valente ribichista: e accordato lo stromento cantò di strane chiacchiere»

204 Eneide, I, 647-655

Un altro confronto tra i versi virgiliani di chiusa del I libro dell’Eneide, relativi alla performance di Iopa, e la parte in cui viene descritto il contenuto dei canti del suonatore di ribeca16 può esser utile

per capire in quale direzione operi lo stravolgimento di stile e carattere operato dall’Aretino:

Hic canit errantem lunam solisque labores,

Unde hominum genus et pecudes, unde imber et ignes, Arcturum pluviasque Hyadas geminosque Triones, Quid tantum Oceano properent se tingere soles Hiberni, uel quae tardis mora noctibus obstet;

«De la nimicizia che ha il caldo col freddo e il freddo col caldo; cantò perché la state ha i dì lunghi e il verno corti; cantò il parentado che ha la saetta col tuono e il tuono col baleno, il baleno col nuvolo e il nuvolo col sereno; e cantò dove sta la pioggia quando è il buon tempo e il buon tempo quando è la pioggia; e cantò de la gragnuola, de la brina, de la neve, de la nebbia; cantò, secondo me, de la camera locanda che tiene il riso quando si piagne, e di quella ch<e> tiene il pianto quando si ride; e in ultimo cantò ch fuoco è quello che arde il culo de la lucciola, e se la cicala stride col corpo o con la bocca»

Eneide, I, 742-746

Se il registro dell’ipotesto non perde mai il riferimento mitico-cosmogonico, quello del travestimento cinquecentesco assume infatti sfumature cangianti: mediante una serrata e incalzante struttura paratattica, volutamente ripetitiva, si parte da una tematica ‘alta’ (metereologia) per terminare nella facezia scurrile.

Per un’analisi diacronica dell’evoluzione e degli sviluppi che Didone subisce nel corso del progredire delle stagioni letterarie, è importante notare come, nel caso del Dialogo dell’Aretino, si assista ad un nuovo tipo di riabilitazione della regina cartaginese, che per certi versi si riallaccia a quella operata dai Padri della Chiesa e successivamente approfondita da Boccaccio e poi – in velata polemica antidantesca – da Petrarca17. Anche in relazione con quanto detto nei capitoli precedenti circa il tradimento della fides18è inoltre importante riportare il passo in cui la Nanna sembra tradurre fedelmente lo sfogo di Didone:

Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum «Credesti, disleale, trafurarti di qui senza mia saputa, ah? E ti basta la vista, che l’amor nostro, la fede

16 Strumento cordofono di origine araba e medievale, dal timbro acuto, che insieme alla viella e al liuto serviva ad

accompagnare solitamente le performances di menestrelli e cantori.

17

«Lavorando su un palinsesto che ben si prestava a una reinterpretazione moderna della vicenda narrata nell’Eneide, lo scrittore fiorentino ha voluto restituire alla regina cartaginese quella dignità eroica che i padri della Chiesa e, sulla loro scorta, il Petrarca dei Trionfi e il Boccaccio del De mulieribus claris avevano ribadito con forza, insistendo sulla castità e sulla fedeltà alla memoria del marito scomparso: la storia d’amore con il principe esule non viene cancellata, ma anzi fornisce il pretesto per sottolineare l’importanza di un gesto suicida che avvicina Didone agli eroi del passato e che la riscatta agli occhi del suo popolo. Esprimendo una decisa condanna della furia emotiva che ha guidato le sue azioni, la sovrana cartaginese acquisisce una straordinaria coscienza di sé: il Pazzi riesce così a creare un personaggio drammatico dal forte spessore psicologico, da cui altri partiranno per dare vita alle figure femminili che animeranno la scena cortigiana del secondo Rinascimento», P. COSENTINO, Tragiche eroine. Virtú femminili fra poesia drammatica e trattati sul comportamento, in «Italique», IX, 2006, p. 76.

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Posse nefas tacitusque mea decedere terra? Nec te noster amor nec te data dextera quondam Nec moritura tenet crudeli funere Dido?

Quin etiam hiberno moliri sidere classem Et mediis properas Aquilonibus ire per altum, Crudelis? Quid, si non arva aliena domosque Ignotas peteres, et Troia antiqua maneret, Troia per undosum peteretur classibus aequor? Mene fugis? Per ego has lacrimas dextramque tuam te (Quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui), Per conubia nostra, per inceptos hymenaeos, Si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam Dulce meum, miserere domus labentis et istam, Oro, si quis adhuc precibus locus, exve mentem.

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