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Quanto sinora detto, specie in relazione alla duplice versione (di carattere mitologico e di ricostruzione storica) di Virgilio e Giustino, come anche le osservazioni fatte su Didone da parte de

§3 Didone in Dante

2. Quanto sinora detto, specie in relazione alla duplice versione (di carattere mitologico e di ricostruzione storica) di Virgilio e Giustino, come anche le osservazioni fatte su Didone da parte de

Padri della Chiesa, risultano di estrema importanza per la lettura che della regina cartaginese opera Boccaccio: questo in connessione prima di tutto a Virgilio e Ovidio, ma anche – in maggior vicinanza cronologica e seguendo una linea di sviluppo che sempre dai due autori latini ha inizio – a Dante e Petrarca. Al contrario di Dante, Boccaccio sembra molto più interessato alla riscoperta di tipo storico della vicenda di Didone109, seppur non ricusando in toto l’altra versione. L’autore del

Decameron, infatti, si limita a ricordare nella Teseida (VI, 45, 1-4), la mera esistenza del primo

vincolo matrimoniale:

E di Sidonia ancor Pigmaleone vi venne; e fuvvi con esso Siceo, che poi fu sposo dell'alta Didone, e a' Fenici nobili si feo

seguire a guisa di sommo barone

Mentre nel Ninfale d’Ameto si fanno più evidenti le suggestioni dei due poeti latini,, come dimostra il seguente passo:

«[…] e lei, di senno e d’età giovinetta, sanza compagno rimasa nel vedovo letto, nelle oscure notti triste dimoranze traeva piangendo, infino a tanto che agli occhi vaghi di lei l’aveniticcio giovane di venusta forma, non simile al rustico animo, apparve, ma non so dove; la quale non altrimenti, vedendolo, sentì di Cupido le fiamme che facesse Didone, veduto lo strano Enea. E come colei di Siccheo, così questa del primo marito la memoria in Leté tuffata, cominciò a seguire i nuovi amori, sperando le perdute letizie rintegrare col nuovo amante; le quali più tosto, avvegna che poche rimase, con dolorosa morte, per le operazioni di lui, s’apparecchiavano di terminare»

(Comedia delle ninfe fiorentine110, XXIII.30)

Ancor prima, nel Filocolo, il suicidio di Didone era preso a modello da Biancifiore per mettere in connessione l’elemento amoroso con quello tragico:

«se è vero che ogni amore acceso di virtù, com’è il mio verso di te, sempre accese la cosa amata, sol che la tua fiamma si manifesti, io avrei sconciamente nociuto alla mia vita, però che Cupido da piccolo spazio in qua m’ha più volte posta in mano quella spada, con la quale la misera Dido nella partita di Enea si passò il petto, acciò che io quello ufficio esercitassi in me»

(Filocolo, II.18). Come si vede, lo «Schwert-Motiv», di cui sono state messe già in luce le molteplici connessioni con vari motivi classici111, è ben presente già dalla prima apparizione di Didone nelle opere di Boccaccio. La passione della regina è comunque descritta in tutta la sua incontenibile forza:

109

Cfr. C. KALLENDORF, Boccaccio’s Dido and the Rhetorical Criticism of Virgil’s “Aeneid”, in «Studies in Philology», 82, n°4, (1985), pp. 401-415.

110 Nella stessa opera (XV) la regina cartaginese compare, come nel V canto dantesco, insieme a Semiramide: «E se ella

non è celestiale, io non so chi ella si sia mondana, però che elli ha poco che io apparai che il mondo portasse sì belle cose; e bene che io già abbia udito che con cotali ornamenti soleva Semiramis entrare nelle camere del figliuolo di Belo e la sidonia Dido andare alle cacce, certissimo delle morti di quelle, qui al presente non le debbo aspettare; ma chi che ella si sia, singulare bellezza possiede».

120

«Ma veggiamo che chi ama, la cosa amata in qualunque maniera puote di farsela benigna e subietta s’ingegna in diversi modi, acciocché quella possa a’ suoi piaceri recare, e con più ardita fronte il disio dimandare: e che questo sia come noi parliamo, assai la infiammata Dido con le sue opere ne ‘l palesa, la quale già dell’amore d’Enea ardendo, infinattanto che ad essa con onori e con doni non glie le parve aver preso, non ebbe ardire di tentare la dubbiosa via del dimandare»

(Filocolo, IV.20.4). Ma allo stesso modo, poco dopo, l’autore inserisce Didone in una frase che avvalora l’immagine della regina posta in rilievo dalla lettura dei Padri della Chiesa. L’osservazione mossa a Ferramonte, critico nei confronti delle vedove, suscita la risposta («primo seme di un discorso che germoglierà più ampio e storicamente documentato»112) di Fiammetta:

«E così nella vedova come nella pulcella il vedremo potere essere fermo e forte e costante: e in ciò Dido e Adriana ci porgono con le loro opere questo essere vero»

(Filocolo, IV.54.2). D’altronde già l’incipit dell’opera è incentrato sulla citazione della storia di Enea e Didone,

«Mancate già tanto le forze del valoroso popolo anticamente disceso del troiano Enea, che quasi al niente venute erano per lo meraviglioso valore di Giunone, la quale la morte della pattovita Didone cartaginese non aveva voluta inulta dimenticare e all’altre offese porre non debita mancanza […]»

(Filocolo, I.1.1) in cui, all’interno della classica citazione relativa all’origine troiana di Roma, la definizione di Didone quale «pattovita», cioè “alla quale erano state promesse nozze legittime”113, suona già come implicita condanna nei confronti del condottiero troiano fuggitivo. Un tono elegiaco-sentimentale114 sembra caratterizzare il personaggio di Didone nominato da Biancifiore, come dimostra ad esempio il passo:

«E se non fosse che io fermamente credo che alcuna parte di quella fiamma amorosa, la qual pare che per me ti consumi, t’accenda il cuore, se vero è che ogni amore acceso da virtù, com’è il mio verso di te, sempre accese la cosa amata, sol che la sua fiamma manifesti, io avrei sconciamente nociuto alla mia vita, però che Cupido da piccolo spazio in qua m’ha più volte posta in mano quella spada, con la quale la misera Dido nella partita di Enea si passò il petto, acciò che io quello uficio essercitassi in me»

(Filocolo, II.18.12) in cui il ricorrente utilizzo di una terminologia risalente alla sfera del fuoco indica la forza della passione amorosa, mentre un’altra citazione del suicidio di Didone mediante la spada avvalora la preferenza accordata da Boccaccio alla versione giustinianea rispetto a quella virgiliana. Ad

112 A. CERBO, Didone in Boccaccio, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Sezione Romanza», vol.

21, 1979, p. 178.

113 Cfr. G. BOCCACCIO, Filocolo, a cura di A. E. QUAGLIO, Milano, Mondadori, 1967, p. 621.

114 Se è sicuramente condivisibile la prima parte dell’osservazione di Quaglio («La figura di Didone, tra le più care a

Boccaccio per la forza della passione amorosa e la tragica elegia della morte, è sovente ricordata con accenti di commozione, con viva partecipazione lirica, sulla scia del celebre episodio virgiliano», G. BOCCACCIO, Filocolo, op. cit., p. 675), c’è da aggiungere che – come più volte dimostrato da molteplici citazioni contenute sia nelle opere volgari che in lavori latini – la versione tradita dall’Eneide fu da Boccaccio più volte messa in discussione, a vantaggio di quella fornita da Giustino.

121

ulteriore dimostrazione della fondamentale positività che Boccaccio riconosce alla regina cartaginese sin dal romanzo giovanile, valga il passo:

«E là dove questo non fosse, manifestare vi si puote, se mai di Elena, o della dolente Dido, o dello sventurato Leandro e d’altri molti avete udito parlare: i quali chi l’etterno onore con vituperevole infamia non curava d’occupare, chi di perdere la propia vita si metteva in avventura per venire al disiato fine»

(Filocolo, III.67.4). La tragica fine della pur «dolente» regina fenicia non cancella, come nel caso della sposa di Menelao, un idea di onore che nessuna «vituperevole infamia» può infangare.

Nella Amorosa visione Didone ha ruolo poeticamente autonomo, aldilà dei richiami eruditi, anche se il testo di Boccaccio non va molto oltre una ripresa della versione virgiliana115, né è estraneo all’uso di un tono «malinconico, dolce, incline ad una certa sensiblerie, ovidianamente languido e dolorante»116: è comunque interessante notare come, specie nella seconda versione dell’opera (1355-1360), l’autore voglia porre in risalto i tratti mascolini propri della regina di Cartagine, come emerge dal raffronto del medesimo passo nelle due versioni:

Pareva quivi apertamente quando Dido partissi in fuga dal fratello, e similmente come, edificando a più poter, Cartagine nel bello e utile sito faceva avanzare, e come a ‘ngegno l’abitava quello.

Pareva quivi apertamente quando si partì Dido dal fratello

verso l’Africa, tollendo da lui bando; aggiunta dove poi, con saper bello Cartagine faceva edificare

con maschile e non feminil cervello

Amorosa visione (A: 1342-1343), XXVIII, 4-9 Amorosa visione (B: 1355-1360), XXVIII, 4-9

Dove, com’è logico aspettarsi, Didone acquista maggiore importanza è nell’Elegia di Madonna

Fiammetta117, nell’ ottavo e conclusivo capitolo dell’opera (Nel quale madonna Fiammetta le pene

sue con quelle di molte antiche donne commensurando, le sue maggiori che altre essere dimostra, e poi finalmente a’ suoi lamenti conchiude) la regina fenicia viene descritta, in un soliloquio che si

prefigura come «exemplum di prosa volgare modellata sugli schemi della retorica tardo-medievale e duecentesca»118, cui non sono estranee varie suggestioni proprie del Seneca tragico119, in tutto il suo regale splendore:

«Vienmi poi innanzi, con molta più forza che alcuno altro, il dolore dell’abandonata Dido, però che più al mio somigliante il conosco quasi che altro alcuno. Io imagino lei edificante Cartagine, e con somma pompa dare leggi nel tempio di Giunone a’ suoi popoli, e quivi benignamente ricever il forestiere Enea naufrago, ed essere presa della sua forma, e sé e le sue cose rimettere nell’arbitrio del troiano duca; il quale, avendo le reali delizie usate al suo piacere, e lei di giorno in giorno più accesa del suo amore, abandonatala si diparte. Oh quanto senza comparazione mi si mostra miserevole, mirando lei riguardante il mare pieno di legni del fuggente amante! Ma ultimamente, più paziente che dolorosa la tengo, considerando alla sua morte. E certo io nel primo

115 Cfr. Appendice X.

116 A. CERBO, op. cit., p. 179.

117 Cfr. il capitolo “Love: Dido and the Pietas in the Early Renaissance”, in J. D. GARRISON, Pietas from Vergil to

Dryden, Wayne State University Press, 1987, pp. 127-160.

118 F. ERBANI, Introduzione a G. BOCCACCIO, Elegia di madonna Fiammetta – Corbaccio, Milano, Garzanti, 1988,

p. XXIII.

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partire di Panfilo sentii per mio avviso quel medesimo dolore, che nella partita di Enea; così avessero allora gl’adii voluto che io poco sofferente mi fossi subitamente uccisa! Almeno, sì come lei, sarei stata fuori delle mie pene, le quali poi continuamente sono diventate maggiori».

Nell’identificazione compiuta in base alla duplice analogia Fiammetta/Didone120 – Panfilo/Enea, vengono definiti alcuni tratti fondamentali e allo stesso tempo antinomici dei due personaggi virgiliani: la grandiosa dignità della prima e la disonorevole slealtà del secondo121, che sarà un tema ricorrente in varie opere di Christine de Pizan, la quale non a caso inserisce il condottiero troiano nella serie dei faulz amans, desloiaulz122; e come Boccaccio opti per questa versione, piuttosto che per quella basata sull’equivalenza Dido-libido, è d’altronde icasticamente dichiarato dallo stesso autore in una delle chiose all’Elegia di madonna Fiammetta:

«la verità della storia fu altramente, come pone Iustino»123.

Sempre rispetto a quanto detto in precedenza circa l’origine e la doppia etimologia del nome di Didone/Elissa124, è proprio in una chiosa che Boccaccio esprime il suo parere, fornendo addirittura una triplice soluzione, secondo cui Didone «ebbe tre nomi, cioè Elissa, Fenissa e Dido»125, mentre nel XLII capitolo del De claris mulieribus, per spiegare la natura regale della regina, l’autore spiega, su probabile ispirazione serviana126, come Didone sia il corrispondente del fenicio virago127. Ma l’identificazione tra Fiammetta e la regina cartaginese era già stata compiuta, per voce della stessa protagonista dell’opera, nel capitolo VI (Nel quale madonna Fiammetta, avendo sentito

Panfilo non aver moglie presa, ma d’altra donna essere innamorato, e però non tornare, dimostra come ad ultima disperazione, volendosi uccidere, ne venisse), dove alla fierezza che caratterizza

Didone sin dalla prima descrizione virgiliana sembra unirsi una malinconica tinta ovidiana:

«Ecco, quella cagione che la sidonia Elissa ebbe d'abandonare il mondo, quella medesima m'ha Panfilo donata, e molto piggiore. A lui piace che io, abandonate queste, nuove regioni cerchi; e io, poiché suggetta gli sono, farò quello gli piace, e al mio amore e al commesso male e all'offeso marito ad un'ora satisfarò degnamente; e se agli spiriti sciolti dalla corporal carcere e al nuovo mondo e alcuna libertà, senza alcuna indugio con lui mi ricongiugnerò, a dove il corpo mio esser non puote, l'anima vi starà in quella vece [...]. E poi che io ultimamente fui in questo promonimento

120 «Like Dido, she berates herself for loving a foreigner è […], begs him not to leave until the weather is better […],

and scorns his other obligations, which she neither believes nor countenances», M. A. CALABRESE, Feminism and the Packaging of Boccaccio's Fiammetta, in «Italica», vol. 74, n°1 (Spring 1997), p. 25.

121 Uno specifico riferimento al tema della partenza di Enea, con tutto il dolore che ciò comporta, Boccaccio lo compie

anche nella lettera del 1341 a Niccolò Acciajoli, dove si legge: «Niccola, se a' miseri alcuna fede si dee, io vi giuro per la dolente anima mia che non altrimenti alla cartaginese Didone la partita del troiano Enea fu grave, che fosse a me la vostra».

122 Cfr. P. CARAFFI, op. cit., p. 19. Per questo motivo nella Epistre au dieu d’Amours cfr. Appendice XI. Per il

rapporto Christine de Pizan/Didone cfr. anche i molteplici riferimenti contenuti in M. W. FERGUSON, Dido’s daughters: literacy, gender and empire in early modern England and France, University of Chicago Press, 2003.

123 G. BOCCACCIO, L’elegia di madonna Fiammetta con le chiose inedite, a cura di V. PERNICONE, Bari, Laterza,

1939, pp. 153-154.

124 Cfr. capitolo I pp. 3-4. 125

Ivi, p. 204.

126 Cfr. capitolo I p. 4.

127 Una eco di questo passo di Boccaccio è ben visibile in Christin de Pizan, che nel Des cleres femmes, parlando di

Didone, dice: «et ne parliot on se d’elle non, tellement pour la grant vertu qui fu veue en elle, tant pour la hardiesce et belle entreptise que fait avoit comme son tres prudent gouvernement, luy transmuerent son nom et l’appellerent Dido: qui valut autant a dire comme virago en latin, qui est a dire celle qui a vertu et force de homme» (I.120), cfr. M. DESMOND, op. cit., p. 220 e P. CARAFFI, Boccaccio, Christine de Pizan e il mito di Didone, in ‘Boccaccio e le letterature romanze tra Medioevo e Rinascimento’ (a cura di S. MAZZONI PERUZZI), Firenze, Alinea, 2006, pp. 7-21.

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deliberata, fra me cominciai a cercare quale dovesse de' mille modi esser l'uno che mi togliesse di vita: e prima m'occorsero ne' pensieri li ferri, a molti di quella stati cagione, tornan-domi a mente la già detta Elissa partita di vita per quelli».

La stessa duplicità di accenti si coglie anche in un altro passo, contenuto nel capitolo precedente, in cui la nobile autorevolezza di tutta una serie – chiusa in climax proprio da Didone – di famosi personaggi femminili della classicità si coniuga al fattore della sofferenza amorosa:

«quella, per alterezza, dicendo Semiramìs somigliare; quell’altra, considerata la sua vaghezza, sarebbe creduta Elena; e alcuna, gli atti suoi bene mirando, in niente si direbbe dissomigliare a Didone. Perché andrò io simigliandole tutte? Ciascuna per se medesima pare una cosa piena di divina maestà, non che d’umana. E io misera, prima che il mio Panfilo perdessi, più volte udii tra li giovini questionare, a quale io fossi più da essere assomigliata, o alla vergine Pulissena, o alla Ciprigna Venere, dicenti alcuni di loro essere troppo assomigliarmi a dèa, e altri rispondenti in contrario essere poco il simigliarmi a femina umana».

Esattamente come la Didone virgiliana, Fiammetta percepisce in se stessa una tragica metamorfosi mediante cui la sua originaria «alterezza» che quasi l’innalzava in una sovrumana sfera trascolora – a causa della passione amorosa – in umana debolezza e dolorosa vulnerabilità.

A questo dolore Fiammetta sa, comunque, che – proprio come nel caso della regina fenicia – può associarsi una fama che travalica i limiti temporali, ed è quanto vogliono dimostrare le parole rivolte ai «giovini amanti» sempre nel V capitolo:

«- Oh felici voi a’ quali come a me non è stata tolta la vista di voi stessi! Ohimé! Che così come voi fate, soleva io per addietro fare. Lunga sia la vostra felicità, acciò che io sola di miseria possa essemplo rimanere a’ mondani. Almeno, se Amore, faccendoni mal contenta della cosa amata da me, sarà cagione che li miei giorni si raccorcino, me ne seguirà che io, come Dido, con dolorosa fama diventerò etterna».

3.

Delle sette giovani donne componenti la «laudevol compagnia» protagonista della macrostoria in

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