§2 La tragedia di Didone
3. Quello che si può definire ‘terzo atto’ inizia ancora una volta con la preposizione incontrata in apertura di libro
AC
96 «L’assenza di comites nell’incubo di Didone traduce il timore di aver smarrito il ruolo dominante e l’aura carismatica
di monarca, che si riverberano, a livello gestuale, nella prerogative di farsi seguire da una corte ampia e sfarzosa», M. RIVOLTELLA, op. cit., p. 78.
97 Cfr. D. WEST, Multi-correspondence Similes in the Aeneid, in «Journal of Roman Studies» vol. 59 n°1/2, 1969, pp.
40-49.
98
Cfr. A. PERUTELLI, Il sogno di Medea da Apollonio Rodio a Valerio Flacco, in in «Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici», n°33, 1994, pp. 40-41. Con diretto riferimento agli incubi di Didone è interessante vedere lo stretto collegamento tra questo passo e quanto osservato da Goethe in Über epische und dramatische Dichtung, a proposito della dimensione ‘interna’ dell’uomo nella tragedia e della forte interazione tra vari livelli, toni e piani narrativi (interno/esterno, tragico/drammatico) realizzata da Virgilio (cfr. M. FERNANDELLI, op. cit., p. 31).
99
In relazione alla rievocazione, da parte di Didone, dei momenti felici irrimediabilmente passati, Pascoli richiama altri versi dalla medesima composizione di Catullo (Regia, quam suavis expirans castus odores / Lectulus in molli complexu matris alebat, / Quales Eurotae progignunt flumina myrtus / Aurave distinctos educit verna colores (vv. 86-90), poi commentando: «Ma che dico io? Questi sono pensamenti, sentimenti, fantasticamenti de’ soli moderni! Gli antichi (tu, Virgilio!) non avevano gli occhi del corpo per la natura, né quelli dell’anima per la psiche!», op. cit., p. 177.
100
Una linea interpretativa (il cui riferimento moderno è R. PICHON, La magie dans le IVᵉ livre de l’Enéide, in «Revue de Philologie de Littérature et et d’Histoire ancienne», XXIII, 1909, p. 247 e passim) vede in quest’episodio una derivazione dalla Didone neviana (discussa nel primo capitolo) «in cui andrebbe scrota un’ipostasi della Circe omerica, mirante a tener l’eroe lontano dalla meta, come Circe aveva tentato di fare con Odisseo», E. PARATORE, op. cit., p. 228.
101 Ivi, p. 178. 102 IV, 507-532.
66
At regina, pyra penetrali in sede sub auras Erecta ingenti, taedis atque ilice secta, Intenditque locum serti se fronde coronat Funerea: super exuvias ensemque relictum Effigiemque toro locat, haud ignara futuri.
[…] Fatta la pira,
e d’ilici e di tede aride e scisse altamente composta, la regina d’atre ghirlande e di funeste frondi ornar la fece intorno: indi le spoglie e la spada e l’effigie de l’amante sopra a giacer vi pose, ben secura di ciò che n’avverebbe. […]
VA RCO
Nei penetrali della reggia, all’aure Sorta è di tede e d’infiammabili elci L’accatastata pira: intorno intorno La inghirlanda Didone; e al sovrapposto Talamo, in cui già stanno e il brando e tutte D’Enea le spoglie, e la sua effigie, appende (Dotta dell’avvenir) funeree frondi.
Ma la regina, enorme il rogo nel cuor della casa alzato all’aria, legno di pino, tronchi di leccio, orna con serti il cortile e lo corona di fronda
funerea là sopra le spoglie sul letto pone, sapendo il futuro.
Se in tutto il passo è forte il presentimento di morte, come dimostra la versione di Caro («atre ghirlande e funeste frondi») l’effigie, collegata al rito magico («solent magi effigies eorum facere propter quos carmen instituunt», commenta a questo proposito Danielino) potrebbe indicare una residua speranza d’amore che ancora anima la disperata Didone103. In efficace climax, sopravviene la notte, portatrice a tutti di sonno ristoratore (Nox erat et placidum carpebant fessa soporem /
Corpora per terras silvaeque et saeva quierant / Aequora. […], vv. 522-524), ma non alla regina
fenicia104. L’inquietudine (curae) non le dà tregua, colpendola con rinnovata (ingeminant) violenza, mentre la passione per Enea non arriva a spegnersi (resurgens), quasi tornando sui suoi passi (rursus) e aggiungendo dolore al dolore (saevit): chiaro è l’esempio di Apollonio Rodio. Di fronte alla sempre più prossima soluzione della morte, Didone dimostra una volta ancora, in primo luogo a sé stessa, tutta la sua regale dignità, bandendo timori e paure, come efficacemente dimostra la litote posta a conclusione del verso 508 (haud dubia futuri), variamente sciolta e resa nelle versioni di Caro, Alfieri e di Calzecchi Onesti. Benché in Omero vi siano vari passi che descrivono la calma notturna, l’archetipo del testo virgiliano potrebbe esser individuato nel fr. 159 di Alcmane105:
εὕδουσι δʼ ὀρέων κορυφαί τε καὶ φάραγγες πρώονές τε καὶ χαράδραι φῦλά τʼ ἑρπέτ' ὅσα τρέφει µέλαινα γαῖα θῆρές τʼ ὀρεσκώιοι καὶ γένος µελισσᾶν καὶ κνώδαλʼ ἐν βένθεσσι πορφυρέας ἁλός· εὕδουσι δʼ οἰωνῶν φῦλα τανυπτερύγων.
Allo stesso tempo, la descrizione della quiete notturna funge da modello per Tasso, quando descrive il cammino di Argante:
103 Come già notato nel primo capitolo, questo è il punto di più forte analogia – oltre che con l’ottava ecloga – con il
secondo idillio teocriteo, come già dimostrato anche da E. CESAREO in Studi virgiliani 1. Spunti teocritei in Virgilio epico, in «Athenaeum», VII, 1929, p. 173 e passim.
104 «La notte scende a portare pace e silenzio a tutti; non a Didone. È la sua ultima, quella notte. Ella esamina, nel suo
amore sempre ardente e disperato, i varii partiti a cui potrebbe forse anco appigliarsi. Cercare ora i maritaggi già rifiutati nei Nomadi dell’Africa? Seguire Enea e i Troiani, come una schiava? Essa, loro benefattrice? E poi la accoglierebbero? Sono così spergiuri! E se invece di seguirli essa da sola…si gettasse su loro coi suoi Tyrii? Non la seguirebbero, attaccati come sono alla loro terra. Oh! Non c’è che morire. E ripensa le prime circostanze dell’amore che si conclude con la morte: fu un suo fallo, certo; ma senza la sorella….che pure l’amava ed era ragionevole nel suo consiglio e cedeva alle sue lacrime….oh! ma era destino, e la fede giurata al cener di Sycheo non fu tenuta! », G. PASCOLI, op. cit., p. 180.
105 Fr. 89 in D.L. PAGE, Poetae melici Graeci, Oxford 1962 e tramandato da Apollonio Sofista, grammatico della
67 Era la notte, allor ch’alto riposo
Han l’onde e i venti, e parea muto il mondo. Gli animai lassi, e quei che ‘l mare ondoso, E de’ liquidi laghi alberga il fondo,
E chi si giace in tana o in mandra ascoso, E i pinti augelli, nell’obblio profondo, Sotto ‘l silenzio de’ secreti orrori,
Sopian gli affanni, e raddolciano i cuori. (Gerusalemme liberata, II, 96, 1-8).
Ad Enea, mentre dorme sulla nave, appare Mercurio che lo esorta a partire in fretta, onde evitare la vendetta della regina:
Aeneas celsa in puppi, iam certus eundi, Carpebat somnos, rebus iam rite paratis. Huic se forma dei vultu redeuntis eodem Obtulit in somnis rursusque ita visa monere est, Omnia Mercurio similis, vocemque coloremque Et crinis flavos et membra decora iuventa: «Nate dea, potes hoc sub casu ducere somnos, Nec quae circum stent deinde pericula cernis, Demens, nec zephyros audis spirare secundos? Illa dolos dirumque nefas in pectore versat, Certa mori, variosque irarum concitat aestus. Non fugis hinc praeceps dum precipitare potestas?
AC
Quando già di partir fermo e parato Enea, per riposar pria che sciogliesse, s’era a dormir sopra la poppa agiato. Ed ecco un’altra volta, in sogno, avanti Del medesmo celeste messaggiero Gli appar l’imago, con quel volto stesso, con quel color, con quella chioma d’oro con che lo vide più giovane e bello; e da la stessa voce udir gli parve:
«Tu corri, Enea, sì gran fortuna, e dormi? Non senti qual ti spira aura seconda? Dido cose nefande ordisce ed osa Certa già di morire, e d’ira accesa A dire imprese è vòlta; e tu non fuggi, mentre fuggir ti lece? […]
VA RCO
Enea frattanto in su l’eccelsa poppa Certo omai del partirsi, e in punto il tutto Mezzo un riposo ei pur prendea: quand’ecco Se gli rappresenta in visíone un Dio; Qual mostrato a lui dianzi appunto s’era Di Maja il figlio; uno splendore istesso, Un giovenil purpureo fiore, i crini Aurei stessi, e la voce, e gli alti avvisi, Tutto qual s’era: Oh ! Dormi tu, dell’alma Venere figlio, (ei gridagli) tu dormi? In tal frangente? A tai perigli in grembo, senza scorgerli, insano? E spira intanto Favonio fausto; e tu nol senti? In fera Tempesta ondeggia l’adirata Dido, Che certa omai del morir suo, feroci Inganni e rio delitto in cor rivolge: E tu, mentre il fuggirtene t’è dato, A vol non fuggi? […]
Enea, sull’alta poppa, ben deciso a partire, godeva il sonno, ché ormai tutto era in ordine. E a lui il fantasma del dio, con l’aspetto medesimo Tornante nel sogno s’offerse, e parve spronarlo, simile in tutto a Mercurio, e voce e colore capelli biondi e giovane corpo bellissimo:
«Figlio di Venere, dormi? Dormi in questo momento? Non vedi quali pericoli ti stanno ancora d’intorno, non senti, pazzo, lo zefiro, che spira secondo? Lei medita inganni, ha in cuore orrendo delitto, decisa a morire, tempeste d’ira la scuotono.
Non fuggi di qui a precipizio, finché fuggire è possibile?
In sensibile variatio semantica, al verso 560 il vocativo Nate dea non ha nei confronti di Enea alcun tono celebrativo, bensì «obiurgatio cessantis est», come nota il Danielino106, e la sentenza di morte, prolettica rispetto all’esito tragico del IV libro, è tutta nelle parole di Mercurio certa mori. Il dio esorta il condottiero troiano ad affrettarsi, dal momento che Didone, in quanto donna, è
106 «quasi a rimproverargli l’accidia nel profittare della protezione largitagli dagli dei come figlio di Venere», E.
68
sinonimo di imprevedibilità e inaffidabilità, come sembra adombrare la frase (vv. 569-570) Varium
et mutabile semper / Femina107.
Enea, allora, spaventato «dalla apparizione in un subito venuta e dileguata» 108 si desta precipitosamente e sprona i compagni alla partenza (v. 571-579):
Tum vero Aeneas, subitis exterritus umbris, Corripit e somno corpus sociosque fatigat: Praecipites vigilate, viri, et considite trans tris: Solvite vela citi. Deus, aethere missus ad alto, Festinare fugam tortosque incidere funis,
Ecce iterum stimulat. Sequimur te, sancte deorum, Quisquis es, imperioque iterum paremus
ovantes;Adsis o placidusque iuves et sidera cielo Dextra feras. […]
AC
Enea, preso da súbito spavento, destossi, e fe’ destar la gente tutta:
«Via, compagni, - dicendo – a i banchi, a i remi; ch’or d’altro uopo ne fa che di riposo.
Fate vela, sciogliete: ché di nuovo Precetto ne si fa dal ciel e fretta. Ecco, qual tu ti sia, messo celeste, che ‘l tuo detto seguiamo; e tu benigno n’aíta e ‘l cielo e’l mar ne rendi amico»
VA RCO
Dalla tremenda visíon percosso,
Già in piè balzato Enea, suoi Teucri stringe Su via, compagni; ai remi, su; le vele Sciogliamo ratti: un Dio dal ciel mi viene Affrettator del fuggir nostro: un Dio Or, per mia man le funi tronca. O Nume, Qual che sii del sacro Olimpo, agli alti Imperj or lieti obbediam noi; seguiamti; Deh, fausto arridi; e di propizie stelle Scorta concedi al corso nostro. […]
Enea allora, atterrito dal fantasma fuggevole,
strappa il corpo dal sonno e non dà tregua ai compagni: «Destatevi subito, uomini, sedete agli scalmi,
sciogliete le vele, presto: un dio, dal cielo alto disceso, a prendere in fretta la fuga, a tagliar la ritorte
ancora ci stimola. Noi ti seguiamo, o dio santo, chiunque tu sia, ancora al comando obbediamo festanti. Oh, sii benigno, soccorrici, buone nel cielo
Dacci le stelle!» […]
La forte analogia tra i primi emistichi dei versi 450 e 571 (Tum vero infelix [Dido] / Tum vero
Aeneas), con medesima struttura spondaica ed elisione nella stessa sede, sembra suggellare l’intima
benché infelice unione di Didone ed Enea. La regina, vedendo dall’alto la flotta prendere il largo, s’abbandona a rabbiose invettive109:
Et iam prima novo spargebat lumine terras Tithoni croceum linquens Aurora cubile. Regina e speculis ut primum albescere lucem Vidit et aequatis classem procedere velis, Litoraque et vacuos sensit sine remige portus, Terque quaterque manu pectus percussa decorum Flaventisque abscissa comas, Pro Iuppiter! Ibit Hic, sit, et nostris inluserit advena regnis?
AC
[…] Era vermiglio e rancio
Fatto già de la notte il bruno ammanto, lasciando di Titon l’Aurora il letto, quando d’un’alta loggia la regina tutto scoprendo, poi ch’a piene vele vide le frige navi irne a dilungo, e vòti i liti, e senza ciurma il porto; contra sé fatta ingiurïosa e fera, il delicato petto e l’auree chiome si percoté, si lacerò più volte; e ‘ncontra al ciel rivolta: «Ah, Giove, – disse –
Dunque pur se n’andrà? Dunque son io Fatta d’un forestier ludibrio e scherno
107
Frase riecheggiata poi anche da Calpurnio Siculo (Mobilior ventis o! Femina, Ecloghe, III, 10). In realtà, quanto detto da Mercurio intende anche distogliere Enea dalle parole di morte ascritte a Didone. Parole che, vista la reciprocità del sentimento d’amore, potrebbero costituire un ulteriore freno per il dux troiano.
108 G. PASCOLI, op. cit., p. 182. 109
«Al primo chiarore dell’alba, Didone era sull’alto dell’arce, e vide la flotta che veleggiava lontano, in linea, e il lido vuoto e silenzioso. Ella fa sentire grida selvaggie d’ira impotente: “Portate fuoco, lanciate aarmi, forza sui remi! Oh! Non è più tempo, ora. Quel pio! Che porta i suoi Penati, che si addossò il vecchio genitore…averlo potuto buttare in mare, uccidergli i compagni, il figlio e darglielo a pezzi in cibo! Potevo non vincere; morire: che importa? Avrei bruciato tutto, avrei ucciso padre e figlio e tutti e me stessa per giunta!», ivi, p. 183.
69
Nel regno mio? […]
VA RCO
Ma nuova luce omai recava in terra, L’Aurora, il suo Titone entro all’aurato Letto lasciando; ed ecco, dalle eccelse Torri sue la Regina, a gonfie vele In sul primo albeggiar la Teucra armata Vedea volante, e vuoto il porto e i lidi. Tre volte, quindi, e quattro, oltraggio al bianco Petto fea con le mani, e all’aureo crine, esclamando: O gran Giove! E fia pur vero, Che costui fugga illeso? Che a schernirmi Abbia nel regno mio, straniero errante?
E già irrorava la terra di luce nuova la prima Aurora, dal croceo letto di Titone levandosi: appena dalle finestre vide albeggiare la luce, e vide, Didone, procedere a vele spiegate la flotta, tre e quattro volte colpendo con la mano il bel petto, strappandosi i biondi capelli: «Ah Giove, gridò, se n’andrà lo straniero, e avrà deriso il mio regno?
Aldilà dell’ipallage messa in luce da Servio in riferimento all’infinito albescere110, è stata notata un’incoerenza temporale tra la partenza notturna di Enea e il fatto che Didone, all’aurora, non avrebbe potuto vedere le navi allontanarsi111. L’infelice regina si lascia andare ad un’ultima serie d’imprecazioni verso il traditore, il cui nome – come dimostra l’infandum del verso 613 – non viene più pronunciato.
Sol, qui terrarum flambi opera omnia lustras, Tuque harum interpres curarum et conscia Iuno Nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes, Et Dirae ultricesset di morientis Elissae,
Accipite haec meritumque malis advertite numen Et nostras audite preces. Si tangere portus Infandum caput ac terris adnare necesse est Et sic fata Iovis poscunt, hic terminus haeret: At bello audacis populi vexatus et armis, Finibus extorris, complexu avolsus Iuli, Auxilium imploret videatque indigna suorum Funera; nec, cum se sub leges pacis iniquae Tradiderit, regno aut optata luce fruatur;
Sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena.
AC
Sole, a cui de’ mortali ogn’opra è conta; Ècate, che ne’ trivi orribilmente Sei di notte invocata; ultrici Furie, spiriti inferni, e dii de l’infelice
Dido ch’a morte è giunta, il mio non degno caso riconoscete, e insieme udite
queste dolenti mie parole estreme. Se forza, se destino, se decreto è di Giove e del cielo, e fisso e saldo è pur che questo iniquo in porto arrivi e terra acquisti; almen da fiera gente sia combattuto, e, de’suoi fini in bando, da suo figlio divelto implri aiuto, e perir veggia i suoi di morte indegna. Né leggi che riceva, o pace iniqua Che accetti, anco gli giovi; né del regno, né de la vita lungamente goda:
ma caggia anzi al suo giorno, e ne l’arena giaccia insepolto. […]
VA RCO
Sole, o tu ch’ogni cosa in terra allumi; E tu, delle mie infauste nozze, o Giuno, Conscia e prónuba; e tu, triforme Diva, Fra le negr’ombre della notte ad alta Voce invocata; e voi, d’Averno ultrici Dire; e voi, Dei della morente Elísa, (Se alcun glien resta) or le mie preci udite: E, il rio destin, qual essi il mertan, cada Per vostra man su i rei. S’egli è pur forza D’alto Fato, ch’Enea malvagio afferri Gli Ausonii porti, in ciò si appaghi il Fato: Ma di armigera gente ai feri assalti
Sole, che con le tue fiamme tutte l’opere illumini
della terra, e tu artefice e complice di queste pene, Giunone, Ecate, che per trivii e città notturno l’ululo evoca,
Dire vendicatrici, dèi d’Elissa che muore, accogliete voi questo, voi col pio nume perseguitate i colpevoli e udite le nostre preghiere: se pur deve giungere al porto quel maledetto, se deve toccare terra, così vuole il fato di Giove, fisso è questo termine, oppresso però dalla guerra dun popolo audace, ramingo dalla città, strappato all’abbraccio di Iulo, mendichi aiuto, veda strazio orrendo dei suoi. E quando anche di pace umiliante ai patti si pieghi,
110 «luce enim albescunt omnia, non lux albescit». 111Cfr. E. PARATORE, op. cit., p. 285.
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Colà soggiaccia; or da’ confini suoi Per guerre espulso; or, dagli amplessi amati Del suo Ascanio disgiunto, ajuto implori Quà [sic] e là vagante; e de’ suoi Teucri ei vegga Perire il fior, di sanguinosa morte:
E quando a lui gravose leggi imposto Avrà la pace, allor né il regno ei goda, Né la luce del sol; reciso ei cada Anzi il suo dì, né onore abbia di tomba
non goda del regno, non dell’amabile luce,
ma cada avanti il suo giorno, su nuda terra, insepolto.
Nella sua invocazione112, ricca di parole in cui suoni chiari si contrappongono a vocali scure (terrarum, lustras, harum, curarum, ululata) si possono cogliere alcuni elementi anticipatori della descrizione della inops et inhumata turba (VI, 325) vagante intorno allo Stige, come anche della preghiera di Niso:
Sit qui me raptum pugna pretiove redemptum Mandet humo solita, aut si qua id Fortuna vetabit,
Absenti ferat inferias decoretque sepulcro (IX, 231-216)
ma il modello di riferimento principale – aldilà di vari passi dell’Iliade e dell’Aiace sofocleo – è con ogni probabilità latino. Questo è infatti da individuare nei tetrametri trocaici catalettici 321-323 (fr. CX Joc.):
Iuppiter, tuque adeo summe Sol, qui omnis res inspicis, Qui mare terram caelum contines cum limine,
Inspice hoc facinus prius quam fit. Prohibessis scelus
della Medea enniana.
Dopo aver allontanato Barce, l’affezionata nutrice di Sicheo113 il cui nome ricorda quello della famiglia di Annibale e Amilcare, mandandola a chiamare Anna, Didone si dirige nel cortile interno, monta sulla pira e, dopo aver snudato la spada di Enea114, guarda per l’ultima volta le amate spoglie e il caro letto nuziale. Poi si trafigge.
At trepida et coeptis immanibus effera Dido, Sanguineam volvens aciem maculisque trementis Interfusa genas et pallida morte futura,
Interiora domus inrumpit limina et altos Conscendit furibunda rogos ensemque recludit Dardanium, non hos quaesitum munus in usus. Hic, postquam iliacas vestes notumque cubile Conspexit paulum lacrimis et mente morata, Incubuitque toro dixitque novissima verba:
AC
Dido nel suo pensiero immane e fiero Fieramente ostinata, in atto prima Di paventosa, poi di sangue infetta Le torve luci, di pallore il volto, e tutta di color di morte aspersa, se n’entrò furïosa ove secreto era il suo rogo a l’aura apparecchiato. Sopra vi salse; e la dardania spada, ch’ebbe da lui non a tal uso in dono,
112 «il sole che si leva, fa levare, si direbbe, gli occhi a lei che torvamente guarda le vele in riga, lontane…la sua voce si
fa solenne: essa vede il futuro si stragi e d’incendio: “Sole, che tutto vedi, tu Giunone, Hecate, Furie, Dei tutti di questa infelice che muore, uditemi: se quell’uomo è fato che tocchi la terra italica, che sia costretto a demandar aiuto, profugo, lontano dal figlio, e veda morire i suoi migliori; se è destino che vinca, subisca iniqua la pace e non goda del regno: muoia anzi tempo, resti insepolto», G. PASCOLI, op. cit., p. 184.
113 «la vecchierella si allontana, e Didone, con su il volto della morte future, ascende la pira, e snuda la spada di
Enea…al momento di ferirsi, contempla le spoglie del tanto amato, le saluta con voce di disperato affetto, e ripercorre col pensiero la sua vita così forte, così gloriosa, felice, sì, anche felice, se quelle navi non avessero toccato il suo lido. Bacia il letto; e (anima supremamente gentile) si accontenta per vendetta, che Enea veda di lontano le fiamme del suo