§3 Didone in Torquato Tasso.
3. È ad ogni modo nel personaggio di Armida della Gerusalemme liberata che è possibile notare il calco più palese della vicenda di Didone ed Enea 79 : «il testo citante si presentava vistosamente
marcato dai segni del testo citato: tanto vistosamente da manifestarsi come atto consapevole di riscrittura e da dichiararsi come bisognoso di una lettura lucidamente attenta a quella presenza laterale, a quella filigrana visibile»80. Questo è evidente sia da un punto di vista strutturale che semantico: l’interazione, a livello di macrostrutture sintattiche e microstrutture lessicali, è da mettere comunque in relazione con le differenze che regolano il rapporto tra il testo virgiliano e quello tassiano81. Inoltre in Armida - che pur come Didone presenta lati austeramente mascolini secondo l’indiano Adrasto ([ …] Donna gentile, / ben hai tu cor magnanimo e virile, XVII, LI, 7-8) - sembrano compenetrarsi al meglio, rispetto alle altre donne abbandonate, le due nature della donna terribilmente ferita dalla passione amorosa e della sorcière ammaliatrice82:
79
Come già notato da S. MULTINEDDU, Le fonti della «Gerusalemme liberata», Torino, Clausen, 1895, pp. 178-182, V. VIVALDI, La «Gerusalemme liberata» nelle sue fonti, Volume II (Episodi), Trani, Vecchi e C., 1901, pp. 211-214, V. ZABUGHIN, Vergilio nel Rinascimento italiano da Dante a Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli, Volume II, 1923, pp. 293-306,e più recentemente da F. CHIAPPELLI, Studi sul linguaggio del Tasso epico, Firenze, Le Monnier, 1957, pp. 25-32, C. SCARPATI, Enea e Didone, Rinaldo e Armida, in «Studia classica Iohanni Tarditi oblata» (a cura di L. BELLONI, G. MILANESE e A. PORRO), Milano, Vita e Pensiero, 1995, Volume II, pp. 1327-1343 e Id., Tasso, gli antichi e i moderni, Pavoda, Antenore, 1995, pp. 48-61, G. COLESANTI, Armida e l’ingiustizia degli dèi – Per l’esegesi e i modelli classici in Gerusalemme liberata XVI 58, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», n° 57, 2006, pp. 137-181.
80 C. SCARPATI, Tasso, gli antichi e i moderni, op. cit., p. 51.
81 «Il libro IV dell’Eneide è l’esito dell’inserimento di un nucleo tragico nel tessuto epico. Sul piano del genere una
distanza sostanziale separa i due testi. Il Tasso si spinge nel XVI in prossimità del tragico, ma ha in mente un disegno che non comporta esiti letali; così il terreno che al tragico è previamente sottratto può essere coltivato a vantaggio del suo interesse prioritario, l’indagine intorno alla contraddittorietà del vissuto, la coesistenza di spinte opposte, l’intreccio della perfidia e di redimibilità, il carattere ambivalente dei movimenti umani», ivi, p. 58.
82
Ancora C. SCARPATI (Dire la verità al principe: ricerche sulla letteratura del Rinascimento, Milano, Vita e Pensiero, 1987, p. 149) scrive a tale proposito: «il grande personaggio di Armida, in particolare, era nata dall’intersezione tra Omero e Virgilio, al punto di congiunzione tra il mito di Circe e la storia di Didon, con un vigoroso spostamento laterale di quest’ultima, poiché Didone si uccide, ma Armida sarà raccolta quando, conseguita la meta ed effettuato l’acquisto di Gerusalemme, il codice cavalleresco sospeso potrà riprendere la sua efficacia […]»; «la maga Armida è l’ultima maga della poesia e la più interessante, nella chiarezza e verità della sua vita femminile. Vive oggi nel popolo, più che Alcina, Angelica, Olimpia e Didone, perché unisce tutti gli splendori della magia con tutta al realtà di un povero cuore di donna…ed è l’amore che uccide in lei la maga e la fa donna», B. CROCE, Storia della letteratura italiana, Bari, Laterza, 1964, Volume II, p. 169).
185 Così (chi ‘l crederia?) sopiti ardori
D’occhi nascosi distempràr quel gelo Che s’indurava al cor più che diamante,
e di nemica ella divenne amante. (Gerusalemme liberata, XIV, LXVII, 5-8). L’attenzione è stata giustamente puntata sulle invettive delle due donne rivolte rispettivamente ad Enea e Rinaldo, dove la prima (Eneide, IV, 362-392) funge senza dubbio da modello, pur «con gli opportuni e indispensabili adattamenti»83, alla seconda (Gerusalemme liberata, XVI, LVI, 5-LX, 8). Già gli incipit mostrano infatti una chiara somiglianza84:
Talia dicentem iamdudum aversa tuetur, Huc illuc volvens oculos totumque pererrat Luminibus tacitis et sic accensa profatur
Ella, mentre il guerrier così le dice, non trova loco, torbida, inquieta; già buona pezza in dispettosa fronte torva riguarda, al fin prorompe a l’onte
Eneide, IV, 362-364 Gerusalemme liberata, XVI, LVI, 5-8
Et così ripondente Enea con doglia, con torva faccia andava rimirando Didon, tremula più ch’al vento una foglia. E lui, dal capo al piede per errando, con taciti occhi aversi e spirto exangue, irata, accesa, disse lachrymando.
Unici ex quarto Aeneidos
Tentuto conto dell’importanza che lo sguardo riveste per Tasso nella descrizione di fenomeni amorosi (nelle Conclusioni amorose si legge infatti «XXVIII: gli occhi esser quelli che più godono e quelli di che più si gode nell’amore. XXIX: Gli occhi esseer principio e fine d’amore»85), tanto nell’esametro virgiliano quanto nell’endecasillabo tassiano l’aggettivo caratterizzante lo sguardo ferito e carico d’odio (aversa/torbida) è in penultima sede, ed in entrambi i casi viene ribadito e variato in climax (volvens oculos/torva riguarda) mentre una forte analogia lega i verbi fatici (profatur/prorompe), uniti da medesimo prefisso e in ambedue i casi posti alla fine del costrutto fraseologico con chiara funzione di amplificare l’imminente sfogo; infine, un’eco del Luminibus
tacitis virgiliano si può cogliere nell’incipit dell’ottava LXI Chiudesti i lumi, Armida;. E se per i
primi versi dell’ottava seguente ( ‒ Né te Sofia produsse e non sei nato / de l’azio sangue tu; te
l’onda insana / del mar produsse e ‘l Caucaso gelato, / e le mamme allattàr di tigre ircana) si è già
avuto modo di segnalare le connessioni con un particolare passaggio del IV libro dell’Eneide86,
83 G. COLESANTI, op. cit., p. 150. Cfr. anche F. CHIAPPELLI, op. cit., pp. 25-32 e G. PETROCCHI, Introduzione
alla lettura di Tasso, in I fantasmi di Tancredi, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1972, p. 34.
84
Ivi, p. 151. Analogamente alla scelta fatta per il II capitolo, per un quadro diacronico più completo dell’evoluzione e dell’eredità del IV libro dell’Eneide, si forniscono, laddove ritenuto necessario, i passi del rifacimento dell’episodio eneadico in questione contenuti nel Codice Vaticano Rossiano 680 presi in esame da Stefania Signorini (cfr. nota 32).
85
L’occhio è «il simbolo che, sin dal Medioevo, in concorrenza semantica con lo specchio, aveva rappresentato il veicolo del processo fantasmagorico della creazione poetica e dell’innamoramento, e che nel secondo Cinquecento conosce uno straordinario arricchimento di suggestioni, cui può essere posto come emblema il gioco illusionistico del giardino di Armida», S. PRANDI, Il «Cortigiano» ferrarese, Firenze, Olschki, 1990, p. 137.
186
tuttavia l’archetipo di questo tipo di costrutto – come peraltro già notato da Giulio Guastavini87 ‒ si può trovare nei versi omerici di rimprovero ad Achille da parte di Patroclo:
νηλεές, οὐκ ἄρα σοί γε πατὴρ ἦν ἱππότα Πηλεύς, οὐδὲ Θέτις µήτηρ: γλαυκὴ δέ σε τίκτε θάλασσα
πέτραι τ᾽ ἠλίβατοι, ὅτι τοι νόος ἐστὶν ἀπηνής (Iliade, XVI, 33-35)
e proprio il collegamento tra l’onda insana / del mar e il testo iliadico autorizza a parlare, in questo caso, in «contaminazione del modello principale virgiliano con una fonte secondaria»88 . Analogamente, lo stesso schema retorico dell’incalzare di quesiti nei confronti del fuggitivo informa i due testi89:
Nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo? Num fletu ingemuit nostro? Num lumina flexit?
Num lacrimas victus dedit, aut miseratus amantem est? Quae quibus anteferam? […]
Che dissimulo io più? L’uomo spietato Pur un segno non diè di mente umana Forse cambiò color? Forse al mio duolo Bagnò almen gli occhi o sparse un sospir solo? Quali cose tralascio o quai ridico?
S’offre per mio, mi fugge e m’abbandona; quasi buon vincitor, di reo nemico
oblia le offese, i falli aspri perdona. Odi come consiglia! Odi il pudico Senocrate d’amor come ragiona! O cielo, o dèi, perché soffrir questi empi Fulminar poi le torri e i vostri tèmpi?
Eneide, IV, 368-371 Gerusalemme liberata, XVI, LVII, 5-LVIII, 1-8
dove i riferimenti più palesi, per evidenti somiglianze lessicali, possono così riassumersi:
quid dissimulo90 (368) che dissimulo io (LVII, 5)
Num lacrimas victus dedit, (370) bagnò almen gli occhi (LVII, 8)
Quae quibus anteferam? (371) Quali cose tralascio […]? (LVIII, 1)
87 Cfr. La Gierusalemme liberata di Torquato Tasso con le figure di Bernardo Castello, e le Annotazioni di Scipio
Gentili e Giulio Guastavini, Genova, Girolamo Bartoli, 1590, edizione moderna a cura di G. PIERSANTELLI, Roma, stabilimento tipografico Julia, pp. 32 e passim.
88
G. COLESANTI, op. cit., p. 151.
89 Cfr. W. MORETTI, Tre maestri della tecnica epica tassiana, in «Annali della Scuola normale superiore di Pisa:
Lettere, storia e filosofia», 1961, p. 22.
90 Il verbo dissimulo, ora rivolto a sé stessa, era stato in precendeza usato nella prima invettiva nei confronti del pavido
Enea:
Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum Posse nefas? Tacitusque mea decedere terra? Nec te noster amor nec te data dextera quondam Nec moritura tenet crudeli funere Dido?
Perfido, Ænea, come sperasti mai Posser dissimulare tanto delicto, del tacito fugir che pensi e fai?
Né ti tien l’amor nostro e ‘l regno afflicto, el pianto, e preghi, el coniugio sincero, e ‘l morir mio, ne’ languenti occhi scripto? Eneide, IV, 305-308 Unici ex quarto Aeneidos
187
Il particolare riferimento a Senocrate condurrebbe invece ad una altra fonte latina, Valerio Massimo91:
«Aeque abstinentis senectae Xenocratem fuisse accepimus. cuius opinionis non parua fides erit narratio, quae sequitur. In pervigilio Phryne nobile Athenis scortum iuxta eum vino gravem accubuit pignore cum quibusdam iuvenibus posito, an temperantiam eius corrumpere posset. quam nec tactu nec sermone aspernatus, quoad voluerat in sinu suo moratam, propositi inritam dimisit. factum sapientia inbuti animi abstinens, sed meretriculae quoque dictum perquam facetum: deridentibus enim se adulescentibus, quod tam formosa tamque elegans poti senis animum inlecebris pellicere non potuisset, pactumque victoriae pretium flagitantibus de homine se cum iis, non de statua pignus posuisse respondit. Potestne haec Xenocratis continentia a quoquam magis vere magisque proprie demonstrari quam ab ipsa meretricula expressa est?»
(Facta et dicta memorabilia libri, IV.3.3),
Questo episodio fu certamente un topos letterario che godette di una certa fortuna, dal momento che si trova citato non solo nel Chronicon di Benzo di Alessandria92, bensì anche da Petrarca, Boccaccio, Castiglione e Marino93, né fu ignoto ad Ariosto, che nell’Orlando furioso (XI, III, 1-2), parlando di Ruggiero, seduttore mancato di Angelica,scrive:
con la quale [Angelica] non saria stato quel crudo Zenocrate più continente.
Ancora, il verso virgiliano I, sequere Italiam ventis, pete regna per undas (Eneide, IV, 381) funge da riferimento per i tassiani Vattene, pur, crudel, con quella pace / che lasci a me; vattene, iniquo
omai94, mentre gli i seguenti versi eneadici sono la base di partenza per tre passaggi fondamentali delle ottave LX e LXI:
91
L. BORSETTO, Microspie tassiane, in «Studi tassiani», 34, 1986, pp. 23-35.
92 Cfr. Cfr. M. PETOLETTI, Il «Chronicon» di Benzo d’Alessandria e i classici latini all’inizio del XIV secolo –
Edizione critica del libro XXIV: «de morbus et vita philosophorum», p. 341.
93
Nel Triumphus Fame (III, 75) del primo si legge e Senocrate più saldo ch’un sasso / che nulla forza valse ad atto vile;, mentre nel Filocolo (IV, 32) del secondo c’è il seguente passaggio: «Il secondo [volere] è da fuggire, cioè il libidinoso congiungnimento, secondo la sentenza di Sofoldeo e di Senocrate, dicenti che così è la lussuria da fuggire come furioso signore»; se nel Cortegiano (III, 39) Castiglione scrive: «Potrei dirvi di Senocrate, il quale fu tanto contingente, che una bellissima donna, essendosegli colcata accanto ignuda e facendogli tutte le carezze ed usando tutti i modi che sapea, delle quai cose era bonissima maestra, non ebbe forza mai di far che mostrasse pur un minimo segno d’impudicizia, avvenga che ella in questo dispensasse tutta una notte», nell’Adone (XIII, LVI, 3-6) si legge: Che se fusse qual crede e qual desia / nonché le voglie infervorar d’Adone, / far vaneggiar Senocrate poria / e d’illecite fiamme arder Catone. Il passo di Petrarca, inoltre, è citato (in maniera inesatta) dallo stesso Tasso: in Il Costante overo de la Clemenza l’autore scrive infatti: «ma si dee biasimar questa durezza fra’ giudici o ne’ tribunali, benché sia laudevole ne le morbide piume degli amplissimi letti, dove la dimostrò uno di questi filosofi a Frine cortigiana; e di lui disse il Petrarca: E Senocrate via più duro ch’un sasso»; e anche nel già citato Porzio overo de le virtù è possibile infine trovare un ulteriore riferimento al filosofo greco: «Da l’altra parte il difetto ne’ piaceri è celebrato alcuna volta ocn grandissime lodi e quasi con maraviglia, come fu in Zenocrate, il quale a guisa d’immobile statua si giacque con Frine meretrice». Per il rapporto tra queste citazioni e Tasso cfr. G. COLESANTI, op. cit., p. 160.
94
Alla giusta osservazione di G. COLESANTI (op. cit., p. 153), secondo cui «Tasso utilizza solo il primo dei tre verbi, ma lo raddoppia («vattene…vattene»), si potrebbe aggiungere che Rosa Calzecchi Onesti, nella sua traduzione del passo virgiliano, opta per un costrutto anaforico (Vattene, non ti trattengo, le tue parole non confuto: / vattene, cerca nel vento l’Italia, cercati il regno sul mare) identico alla soluzione poetica adottata nella Gerusalemme liberata modellata sui versi virgiliani.
188
Supplicia hausurum scopulis et nomine Dido Saepe vocaturum. […]
Per nome Armida chiamerai sovente Ne gli ultimi singulti: udir ciò spero. -
Eneide, IV, 383-384 Gerusalemme liberata, LX, 3-4 Et, cum frigida mors anima seduxerit artus,
Omnibus umbr locis adero. […]
Me tosto ignudo spirto, ombra seguace Indivisibilmente a tergo avrai
Eneide, IV, 385-386 Gerusalemme liberata, LIX, 3-4
[…] Dabis, improbe, poenas. mi pagherai le pene, empio guerriero.
Eneide, IV, 386 Gerusalemme liberata, LX, 2
La forte somiglianza tra i due testi continua se si raffrontano le due invettive di Didone95 – in particolare la seconda – e di Armida:
[…] Si tangere portus Infandum caput ac terris adnare necesse est Et sic fata Iovis poscunt, hic terminus haeret: At bello audacis populi vexatus et armis, Finibus extorris, complexu avolsus Iuli, Auxilium imploret videatque indigna suorum Funera; nec, cum se sub leges pacis iniquae Tradiderit, regno aut optata luce fruatur;
Sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena
E se è destin ch’esca del mar, che schivi gli scogli e l’onde e che a la pugna arrivi, là tra ‘l sangue e le morti egro giacente mi pagherai le pene, empio guerriero.
Per nome Armida chiamerai sovente Ne gli ultimi singulti; udir ciò spero. – Or qui mancò lo spirto alla dolente, né quest’ultimo suono espresse intero; e cadde tramortita e si diffuse
di gelato sudore, e i lumi chiuse.
Eneide, IV, 612-620 Gerusalemme liberata, XVI, LIX, 7-LX, 1-8
In questo caso Tasso contamina le due maledizioni di Didone, come dimostrano il riferimento – con elementi invertiti rispetto all’ipotesto virgiliano – al mare e agli scogli (undas/scopulis, Eneide, IV, 381 e 383 > gli scogli e l’onde, Gerusalemme liberata, LIX, 7) e soprattutto lo svenimento (conlapsaque membra, Eneide, IV, 391 > e cadde tramortita, Gerusalemme liberata, LX, 7), cui non è estraneo un richiamo alla lezione dantesca (e caddi come corpo morto cade, Inferno, V, 142). Ma è il concetto di ‘empietà’ – in tutta la sua pregnanza etimologica di mancanza di pietas – a risaltare, tanto in Enea quanto in Rinaldo. Se sul primo aspetto si è già detto nel II capitolo, nel caso di Tasso è la chiusa dell’ottava LVIII a ribadire, anche grazie alla rima baciata, il concetto:
O cielo, o dèi, perché soffrir questi empi
Fulminar poi le torri e vostri tèmpi? (Gerusalemme liberata, XVI, LVIII, 7-8) cui fungeva da probabile modello, oltre che la traduzione del locus virgiliano ad esso direttamente collegato da parte di Bernardo Tasso96, anche il seguente passo dell’Amadigi (XXXV, LX, 1-3)
relativo all’invettiva di Corisanda a Floristano97:
189 Crudel, se quella inviolabil fede,
che ‘n presenza d’Amor mi promettesti, non ti ritien in questa lieta sede
in cui grande importanza ha il nesso inviolabil fede ripreso da Torquato Tasso nella chiusura del discorso di Armida ad Adrasto
Così ne faccio qui stabil promessa,
così ne giuro inviolabil fede. (Gerusalemme liberata, XVII, XLVIII, 5-6), ma il costrutto era già stato utilizzato da Ariosto a proposito di Ruggiero
Perché, Ruggier, come di te non vive cavallier di più ardir, di più bellezza, né che a gran pezzo al tuo valore arrive, né a’ tuoi costumi, né a tua gentilezza; perché non fai che fra tue illustri e dive virtù, si dica ancor ch’abbi fermezza? si dica ch’abbi inviolabil fede?
a chi ogn’altra virtù s’inchina e cede. (Orlando furioso, XXXII, XXXVIII) Mentre la Didone accoltiana si lascia andare al seguente sfogo:
Misera chi si fida. In parte addussi te del mio regno; tue navi languenti salvai da morte; a vita e tuoi redussi; a tanti regi et amator potenti
te proposi, et apersi a’ membri indegni el letto mio e le mie braccia ardenti.
Et hora, hor sempre, hor fati, hor d’alti regni Dei scesi accusi, con cagione estinta.
Come curasse el ciel nostri disegni! Meraviglia non è s’arsa et extincta Fu vostra stirpe e Troya in cener tolta, ch’ogni pietà da vostre colpe è vinta. Contra a l’argive genti esser racolta Doveva l’ira tua. Che t’ho facto io,
donna innocente, incauta, accesa e stolta?
96 Cfr. Capitolo II p. 64.
97
il lamento della prima, in seguito alla partenza del secondo, in compagnia del fratello Galaor, è il caso più vistoso
d’imitazione dell’episodio virgiliano relativo a Didone presente nel poema di Bernardo Tasso, che comunque tenne presente il IV libro dell’Eneide, contaminandolo con motivi ovidiani, anche per quel che riguarda i lamenti di Licasta (LVIII, 3-7) e Lucilla (LXVII, 3-9). Cfr. M. MASTROTOTARO, Per l’orme impresse dall’Ariosto: tecniche compositive e tipologie narrative nell’Amadigi di Bernardo Tasso, prefazione di G. DISTASO, Roma, Aracne, 2006, pp. 166-169. Per la citazione completa del lamento di Corisanda cfr. Appendice XIV.
190
L’empietà di Rinaldo98 era d’altronde già stata messa in risalto in precedenza nel discorso diretto di Armida:
[…] Che temi, empio, se resti?
Potrai negar, poi che fuggir potesti.- (XVI, XL, 7-8) e il concetto ritorna in seguito, sempre negli insulti della donna abbandonata
mi pagherai le pene, empio guerriero (XVI, LX, 2)
e poco oltre
[…] Ahi! Seguirò pur l’empio,
né l’abisso per lui riposta parte,
né il ciel sarà per lui securo tempio. (XVI, LXIV, 2-4). Tanto Ubaldo quanto Mercurio usano lo stesso verbo per riportare gli eroi al senso del dovere, in cui tuttavia Tasso inserisce una sfumatura ironica assente nel testo di riferimento:
Si te nulla movet tantarum gloria rerum te sol de l’universo il moto nulla move, egregio campion d’una fanciulla
Eneide, IV, 272 Gerusalemme liberata, XVI, XXXII, 7-8 Il verbo-cardine (movet/move) viene impiegato inoltre da Virgilio dopo la coppia di quesiti che incalzano l’eroe, mentre da Tasso prima:
Quid struis? Aut qua spe libycis teris otia terris? Qual sonno o qual letargo ha sì sopita la tua virtute? O qual viltà l’alletta?
Eneide, IV, 271 Gerusalemme liberata, XVI, XXXIII, 1-2 A queste parole sia Enea che Rinaldo restano sconcertati:
At vero Aeneas aspect obmutuit amens,
Arrectaque horror comae et vox faucibus haesit. Ardet abire fuga monitu imperioque deorum
Tacque, e ‘l nobil garzon restò per poco Spazio confuso e senza moto e voce. Ma poi che diè vergogna a sdegno loco, sdegno guerrier de la ragion feroce, e ch’al rossor del volto un nuovo foco successe, che più avampa e più coce […]
Eneide, IV, 279-281 Gerusalemme liberata, XVI, XXXIII, 1-6 Virgilio «reduplica la designazione del mutismo impaurito»99, e la seconda espressione sembra riecheggiare – con una completo stravolgimento di significato ‒ l’Incipit effari mediaque in voce
resistit (IV, 76) con cui Virgilio si esprimeva l’affiorare della prima emozione d’amore della regina
98 Cfr. G. BARBERI SQUAROTTI, Le cortesie e le audaci imprese: moda, maghe e magie nei poemi cavallereschi,
Lecce, Manni, 2006, pp. 149 e passim.
191
fenicia nei confronti di Enea. Ma anche la soluzione di Tasso rappresenta una variazione, in questo caso chiastica, di quanto detto, nel combattimento di Tancredi e Clorinda, a proposito della morte di quest’ultima (La vide e la conobbe e restò senza / e voce e moto. Ahi vista! Ahi conoscenza!, XII,
LXVII, 7-8). Lo sconcerto – evidenziato da Virgilio fonicamente con il perfetto di obmutesco carico di suoni cupi (o/u/u) e da Tasso prosodicamente con la posizione del passato remoto in apertura di verso – genera sdegno e vergnogna: l’ardet di Enea è reso infatti perifrasticamente con un costrutto ricco di termini afferenti alla sfera del fuoco (rossor, foco, avampa, coce). Tale sentimento risalta ancor più nel dubbio (esemplificato dai due angosciosi quesiti che Enea e Rinaldo pongono a loro stessi in apertura di verso) che assale entrambi i protagonisti delle vicende, com dimostra il raffronto dei passi:
Heu quid agat? Quo nunc reginam ambire furentem Aurea adfatu? Quae prima exordia sumat?
Atque animum nunc huc celerem, nunc dividit illuc In partisque rapit varias perque omnia versat.
Or che farà? Dée su l’ignuda arena Costei lasciar così tra viva e morta? Cortesia lo ritien, pietà l’affrena, dura necessità seco ne ‘l porta parte, e di lievi zefiri è ripiena la chioma di colei che gli fa scorta. Vola per l’alto mar l’aurata vela: ei guarda il lido, e ‘l lido ecco si cela
Eneide, IV, 283-286 Gerusalemme liberata, XVI, LXII Che più dirò? Con più parole aspre e nove
perch’io mi parta, pien d’ira e terrore, suo figlio m’ha mandato el Sommo Giove. Fraudar per te potrei mio genitore? Fraudar l’unico mio figliol dilecto?