§3 Catullo e il Seneca tragico: analogie con la Didone virgiliana
2. È allora dalla natura dei rapporti e dall’utilizzo di alcuni termini particolari, afferenti alla sfera politica della romanità 13 (con particolare attenzione all’età augustea), che è giusto partire per meglio
affrontare il testo virgiliano. L’organizzazione sociale era fondata non sui rapporti dialettici tra fazioni divise da differenti idee politiche, bensì piuttosto sulle relazioni tra vari gruppi di persone tra cui vi era un legame di tipo clientelare ad un determinato personaggio. In questo senso, grande importanza ha la parola amicitia, intesa in modo sensibilmente diverso dal senso odierno14. Solitamente usato tra persone di pari rango sociale, essa può includere anche rapporti di ospitalità con stranieri: all’amicitia è quindi connesso l’hospitium. Mediante uno scambio di servizi (officia) e favori (beneficia), si estrinseca la natura profondamente personalistica dell’idea romana di politica. Condizione indispensabile per l’amicitia è inoltre la fides, solo elemento in grado di garantire al legame stabilità e chiarezza, e l’importanza sacrale connessa alla fides15 è comprovata dall’utilizzo
del termine pietas per indicare l’osservanza a tali obblighi, esattamente come i foedera vengono sanciti sotto la protezione divina. Tali rapporti (e quindi la sfera semantica a questi connessi) sono i medesimi che regolano la relazione che Didone intraprende con Enea ed il suo popolo. È esattamente nel versi 520-558 del primo libro dell’Eneide che l’autore narra i primi sviluppi e l’instaurarsi dei primi rapporti tra Troiani e Cartaginesi. Tutto inizia dalle richieste di Ilioneo, il quale mira sia in primo luogo ad ottenere da quella che considera subito il reggente del popolo cartaginese salvezza per sé e i suoi compagni sia a dimostrare la piena dignità dei profughi troiani. Grande importanza rivestono nelle parole di Ilioneo alcuni moduli comportamentali. In primo luogo viene affrontata la cruciale differenza tra costumi barbari e mondo ‘civilizzato’: in realtà la durezza delle parole di Ilioneo è tale che «Didone avrebbe potuto avrebbe potuto irritarsi di questo giudizio sul suo popolo, ed è proprio un segno della sua humanitas il fatto ch’essa risponda con tanta cordialità e con tanto zelo ospitale alle dure parole del portavoce dei troiani»16. La natura ‘barbara’ dovrebbe emergere dall’ignorare gli appelli d’aiuto mediante la proibizione imposta ai naufraghi di
10 «Dextra data fidem futurae amicitiae sanxisse [Latinum], inde foedus ictum inter duces, inter exercitus salutationem
factam, aeneam apud Latinum fuisse in hospitio; ibi Latinum apud penates deos domesticum publico adiunxisse foedus filia Aenae in matrimonium data» (I.1.8-9).
11
Esempio su tutti siano le parole rivolte da Cicerone al proprio cliente Flacco: «O mea dextera illa, mea fides, mea promissa, cum te, si rempublicam conservaremus, omnium honorum praesidio quoad viveres, non modo munitum, sed etiam ornatum fore pollicebatur», Pro Flacco, XLI, 103.
12 Se infatti – come detto in apertura – in alcune sedi si è troppo calcato l’accento sul lato amoroso della storia di
Didone, non si deve neanche cadere nell’eccesso opposto, considerando l’infausta fine della storia tra la regina e il condottiero troiano come fallimento di una progettualità politica, come sembra fare appunto Monti (op. cit., p. 8): «She is not criticizing Aeneas for breaking a promise of foreswearing an oath; rather she is blaming him for shirking his responsabilities towards her. She took him in and even gave him a place in her kingdom; he thereby contracted certain obligations towards her which he now refuses to accept and which he moreover has the temerity to say the gods – who protect the observation of such obligations – order him to neglect».
13 Cfr. J. HELLEGOUARC’H, Le Vocabulaire latin des relations et partis politiques sous la République, Paris, Les
Belles Lettres, 1963 e J. BLEICKEN, Die Nobilität der römischen Republik, in «Gymnasium» n° 88, 1981, 236–253. Cfr. (anche se ormai datato) M. GELZER, Die Nobilität der römischen Republik, Leipzig, Teubner, 1912.
14 «a term which has little to do with the sentimental notion of friendship», RICHARD C. MONTI, op. cit., p. 9.
15 «Mit “fides” deckt sich vielfach die bedeutung von “officium”, die man mit "gegenseitigen Naheverhältniss"
wiedergeben kann», M. GELZER, op. cit., pp. 52-53.
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mettersi in salvo. Eloquenti sono i versi 539-543 del I libro (ed in particolare la repetitio usata da Caro, volta a mettere in risalto proprio questo aspetto):
Quod genus hoc hominum?Quaeve hunc tam barbara morem Permittit patria? Hospitio prohibemur harenae;
Bella cient primaque vetant consistere terra. Si genus humanum et mortalia temnitis arma,
At sperate deos memores fandi atque infandi.
AC
Ma qual sì cruda gente, qual sì fera e barbara città quest’uso approva, che ne sia proibita ancora l’arena? Che guerra ne si muova, e ne si vieti di star ne l’orlo de la terra a pena?
VA RCO
Ma, qual mai gente inospita, qual terra Barbara è questa? Incontro a noi s’inalza Grido di guerra, e siam respinti, e il porto Negato vienci […]
Ma che popolo è questo? Che barbara patria
permette una simile usanza? L’asilo della sabbia ci negano, ci fan guerra, ci vietano di porre piede sul lido!
Subito dopo segue la presentazione del condottiero Enea17, in cui, con un’indiretta reminiscenza dell’incipit del poema (Arma virumque cano) particolare attenzione viene data alle sue qualità principali consistenti nella iustitia, nella pietas e nell’officium18. Queste precise virtù sono quelle che per Cicerone sembrano costituire l’essenza del termine humanitas. L’ultima andrebbe ad indicare quindi un comportamento civile, e prova ne sia l’utilizzo antifrastico dell’aggettivo
barbarus rispetto a humanitas e sinonimico rispetto a inhumanus19.
La missione di Roma è quella di apportare civiltà, giustizia e stabilità, e l’humanitas si diffonde anche mediante la guerra:
tu regere imperio populos, Romane, memento (hae tibi erunt artes), pacique imponere morem,
parcere subiectis et debellare superbos (Eneide, VI, 851-853)
e in questo senso il recondito e più sottile messaggio inviato a Didone consiste nell’ipotetico scambio tra un trattamento barbaro che la flotta troiana potrebbe ricevere e un prezioso bagaglio di conoscenze e civili comportamenti che questa può trasmettere: «the declaration places the onus on Dido to act in acccordance with the norms it proclaims»20.
17 Rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter / nec pietate fuit, nec bello maior et armis. / Quem si fata virum servant, si
vestitura aura / aetheria neque adhuc credelibus occubat umbris, / non metus, officio nec te certasse priorem / paeniteat. Sunt et Siculis regioni bus urbes / armaque Troianoque a sanguine clarus Acestes. (I, 544-550). Nel VII libro ancora Ilioneosi presena – in questo caso a Latino – come ambasciatore del popolo troiano, presentando Enea con parole che mostrano forti analogie con quanto detto a Didone: non erimus regno indecores, nec vestra feretur / fama levis tantique abolescit gratia facti, / nec Troiam Ausonios gremio excepisse pigebit; / fata per Aeneae iuro dextramque potentem / sive fide seu quis bello est expertus et armis
18 Cicerone (De Natura Deorum, I, 116), connettendo appunto iustitia e pietas, chiosa: «est enim pietas iustitia
adversum deos», mentre nel De Officiis (I.7.23) scrive: «fundamentum est autem iustitae fides».
19
«Pius, dont le sens premier est vraisemblablement (au coeur) pur […] caractérise l’état de celui qui s’est purifié pas l’accomplissement des devoirs qui lui incombaient. Ainsi la pietas appartient au domaine de l’officium; le pius est ò’homme qui s’est acquitté de la dette qu’il a contractée en raison de bienfaits reçus» J. HELLEGOUARC’H, op. cit., p. 276. Cfr. anche RICHARD C. MONTI, op. cit., p. 11 e F. KLIGNER, Römische Geisteswelt, München, Ellermann, 1965, pp. 724 e 743.
20 RICHARD C. MONTI, op. cit., p. 16. Questa facoltà, da parte dei Troiani, di liberare il popolo cartaginese della
propria indole barbara in parte potrebbe risultare in contraddizione con l’ accusa (neanche troppo latente), che attraversa l’intero poema, che vede i Troiani, e quindi in particolar modo Enea, come ladri e predoni, come testimoniano le parole di Iarba e Amata: et nunc ille Paris cum semivio comitatu, / Maeonia mentem mitra crinemque madentem / Subnexus, rapto potitur (IV, 215-217) e o genitor, nec miseret nataeque tuique? Nec matris miseret, quam primo Aquilone relinquet / perfidus alta petens abducta virgine praedo? (VII, 360-362).
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Le parole di Enea nei confronti di Acate (Solve metus; feret haec aliquam tibi fama salutem, I, 463) fungono sostanzialmente da prolessi della risposta di Didone, demissa vultu21, a Ilioneo (I, 562- 566):
«Solvite corde metum, Teucri, secludite curas. Res dura et regni novitas me talia cogunt Moliri et late finis custode tueri.
Quis genus Aeneadum, quis Troiae nesciat urbem Virtutesque virosque aut tanti incendia belli? […]»
AC
[…] «o miei Troiani,
toglietevi dal cuore ogni timore, ogni sospetto. Gli accenti atroci, la novità di questo regno a forza mi fan sì rigorosa, e sì guardinga de’ miei confini. E chi di Troia il nome, chi de’ Troiani i valorosi gesti,
e l’incendio non sa di tanta guerra? […]»
VA RCO
[…] «Ogni sospetto,
Dardani in bando; ed ogni affanno or esca Dai petti vostri. Io son da scabri casi Astretta, e in un, da signoria favella, A vegliar sempre, e custodir severa Tutti i confini miei. Ma gente al mondo Havvi lontana dal cammin del Sole Tanto, o noi Tirj siamo barbari tanto, Da non saper dell’alta Troia i fatti? Sue forti pugne, i chiari gesti, i prodi Eroi, d’Enea la stirpe? […]»
«Sciogliete l’ansia dal cuore, Teucri, lasciate l’angoscia.
Dura vita e nuovo regno a questo mi forzano, guardar tutt’intorno con l’armi i confini Ma degli Eneadi chi il sangue, chi ignora Troia e gli uomini e i fatti e tanto incendio di guerra?
[…]»
Il primo verso presenta una struttura geometrica, con il vocativo plurale a separazione di un’analoga esortazione ripetuta (al cui proposito Servio commenta «iteratio est ad augmentum benevolentiae»)22, mentre la Res dura è sempre stata intesa come allusione alla tragedie passate («domus calamitatem», chiosa il Danielino) di Didone. All’interno della narrazione, ad opera di Venere, della storia di Didone grande peso sembra avere l’aspetto politico dell’impresa di quest’ultima: la regina fenicia viene infatti a porsi come dux23 di un fuggitivo gruppo di dissidenti.
Se per l’importanza accordata da Virgilio al termine - basti pensare a quanto scritto in riferimento a Pollione nella IV Ecloga24, ma rimarchevole è anche l’uso fatto nella quarta Georgica per indicare gli elementi di comando delle api sotto la cui leadership è adombrata l’ideale tipo di società
21 Valeria Ricottilli («Tum breviter Dido vultum demissa profatur» (Aen. I, 561): individuazione di un «cogitantis
gestus» e delle sue funzioni e modalità di rappresentazione nell’Eneide, in «Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici», n° 28, 1992, pp. 179-227, opera un’accurata analisi delle varie problematiche interpretative connesse a quest’espressione di Didone: se la prima e forse più scontata lettura del” tener basso lo sguardo” è stata quella legata all’espressione di un pudore tutto femminile, consono alla situazione (Danielino: «dicendo autem “vultu demissa” aliud genus officii adiecit», p. 181, e condivisa da de la Cerda, op. cit., p. 104 «vultum demissa, quia oratorem, praesertim vero foeminam, pudor decet), viste anche le associazioni operate da Apollonio Rodio al pudore e alla modestia femminile per quel che concerne Medea e Issipile (p. 182 e passim), un’altra possibile interpretazione potrebbe essere quella connessa alla vergogna provata dalla regina cartaginese, come sembra ipotizzare Claudio Donato: «vultum demissa potest sic accipi, ut non solum propter feminam verecundiam vultum deiecerit verum etiam propter obiecta» (p. 185). L’espressione di Didone può essere messa in relazione, inoltre, sia con un più specifico senso di ritrosa timidezza (messo in rilievo dalla versione del 1890 di Walpole “casting down her eyes”, p. 179) sia con un atteggiamento pensoso, come testimoniato da un passo del V canto (vv. 109-111) dell’Inferno dantesco (quand’io intesi quell’anime offense, / china’ il viso, e tanto il tenni basso, / fin che ‘l poeta mi disse: “Che pense?”, p. 192).
22«molto più elegante che non excludite, eicite, deponite», P. VIRGILIO MARONE, Libro I, commento di A.
SALVATORE, Napoli, Loffredo, 1971, p. 62.
23 «dux et auctor […] peuvent tous les deux, soit à tour de role, soit associés, designer un home politique de premier
plan», J. HELLEGOUARC’H, op. cit., pp. 325-326.
24 Teque adeo decus hoc aevi, te consule, inibit, / Pollio, et incipient magni procedere menses; / te duce, si qua manent,
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rettamente letto da leggi25 ˗ più complicato è capire quanto il poeta mantovano possa aver desunto dalle sue fonti in relazione all’uso politico del termine dux in questo caso riferito a Didone: a questo proposito Timeo e Giustino non sembrano dare indicazioni significative26. È comunque chiaro che le battute tra Didone e Ilioneo sono funzionali a dimostrare l’humanitas (romanamente intesa) della regina cartaginese che, con le sue parole (vv. 565-566) ribatte in maniera arguta e educata alle accuse di barbarismo, dimostrando – conoscendo già l’eco delle gesta di Enea e dei fatti di Troia – di non vivere fuori dal mondo civile. Il supporto (hospitium)27 offerto da Didone è garantito sia che i profughi decidano di raggiungere le coste siciliane sia che scelgano di restare in territorio cartaginese: «it is significant that only when Dido has proved her humanitas in this way that the magical cloud enshrouding Aeneas evaporates to allow him to speak with her»28. L’osservanza di queste regole che informano i rapporti tra i due popoli condiziona la replica di ringraziamento da parte di Enea (I, 597-610), che viene anche a porsi quale «risposta complessiva ai due discorsi di Ilioneo e Didone»29
«O sola infandos Troiae miserata labores, Quae nos relinquas Danaum, terraeque marisque Omnibus esausto iam casibus, omnium egeo, Urbe domo socias, grates per solvere dignas Non opis est nostrae, Dido, nec quid quid ubique est Gentis Dardaniae, magum quae sparsa per orbem. Di tibi, si qua pios respectant numina, si quid Usquam iustitia est et mens sibi conscia recti, Praemia digna ferant. Quae te tam laeta tulerunt In freta dum fluvii current, dum montibus umbrae Lustrabunt convexa, polus dum sidera pascet, Semper honos nomenque tuum laudesque manebunt, Quae me cumque vocant terrae. […]»
AC
«[…] A te ricorro,
vera regina, a te sola pietosa de le nostre ineffabili fatiche.
Tu noi, rimasi al ferro, al fuoco, a l’onde d’ogni strazio bersaglio, d’ogni cosa bisognosi e mendici, nel tuo regno e nel tuo albergo umanamente accogli. A renderti di ciò merito uguale bastante non son io, né fôran quanti de la gente di Dardano discesi Vanno per l’universo oggi dispersi. Ma gli dèi (s’alcun dio de’ buoni ha cura, se nel mondo è giustizia, se si truova chi d’altamente adoperar s’appaghe) te ne dian guiderdone. Età felice! Avventurosi genitori e grandi
Che ti diedero al mondo! Infin che i fiumi Si rivolgono al mare, infin ch’a’ monti Si giran l’ombre, infin c’ha stelle il cielo, i tuoi pregi, il tuo nome e le tue lodi mi saran sempre, ovunque io sia, davanti»
VA RCO
«[…] regina, o tu che dei Trojani affanni Sola prendi pietade; o tu, che degni Del tuo impero novel compagni accorro Noi, degli Achivi avanzo, in terra in mare Noi stancatori d’avversa sorte,
D’ogni ajuto mendichi; or, quando mai, Come, potremo rimeritar noi tanti Favori mai? Ciò non fia dato unquanco, Non che a noi, né a quanti altri erran pel mondo Della Dardania stirpe. A te sol ponno
«[…] O Sola che provi pietà dell’indicibile angoscia di Troia, e noi, l’avanzo dei Dànai, per terra e per mare sfiniti da tutti i pericoli, di tutto in bisogno,
t’associ di patria, di tetto, offrirti degno ricambio
non è, Didone, in nostro potere, e non di quanti, dovunque sono di seme troiano, che per l’immensa terra è disperso. Gli dèi, se le Potenze guardano i buoni, se vale qualcosa mai la giustizia, la buona coscienza dell’animo,
degni premi ti diano. Quale età fortunata ti ha dato a noi? Chi furono i genitori gloriosi
25
Admiranda tibi levium spectacula rerum / magnanimosque duces totiusque ordine gentis / mores et studia et populos et proela dicam, Georgiche, IV, 3-5.
26
Se il primo si limita a scrivere di Didone che «ἐνθεµένη τὰ χρήµατα µετά τινων πολιτῶν, ἔφευγε», il secondo, con maggior dettalio, spiega che «fugam […] molitur adsumptis quibusquam principibus in societatem, quibus par odium in regem esse eandemque fugiendi cupiditatem arbitraretur» (XVIII.4.9).
27 Ed è esattamente con questo termine che Venere chiama la relazione che si sta instaurando tra i due popoli: Nunc
phoenissa tenet Dido blandisque moratur / Vocibus et vereor quo se iunonia vertant / Hospitia […] (I, 670-672).
28RICHARD C. MONTI, op. cit., p. 24.
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Dar pari al merto il guiderdone, i Numi: Se Numi v’ha, che ai píetosi ai giusti Rendan lor dritto: e guiderdon tu stessa Conscia di tua virtude. Età beata, che te produsse! Almi parenti, ond’era Procreata tal donna! Ah, pria tributo Negheran di lor onde al mare i fiumi L’ombre alle valli pria manco verranno, Le stelle al ciel, pria ch’onoranza e laude Alla tua fama io non tributi, ovunque Me chiamerà la sorte mia […]»
che tale t’han fatta? Al mare fin che i fiumi corrano e l’ombre nel cavo dei monti s’addensino, e pasca il cielo le stelle, sempre per me il tuo onore e il nome e la gloria vivranno, qualunque terra mi chiami» […]»
Se al verso 597 l’autore impiega un aggettivo (infandos) tra i più eloquenti per descrivere la portata della tragedia vissuta dal popolo troiano, con il senso della frase che anticipa proletticamente quanto detto in seguito (Et breviter Troiae supremum audire laborem, II, 11), da un punto di vista poetico è molto interessante il calco lucreziano del verso 608, in cui il polus dum sidera pascet mostra evidenti analogie con l’espressione unde aether sidera pascit (De rerum natura, I, 231)30. Il senso della gloria e del rispetto nei confronti di Didone da parte di Enea risulta inoltre dall’ampiezza del verso 609, identico a Bucolica V, 78.
Alle parole di quest’ultimo segue lo stupore («quod iam futuri amoris est signum» secondo Servio) di Didone (I, 613-614)31, nel cui animo l’ammirazione per la fisicità d’Enea inizia a compenetrarsi alla pietà per le sventure patite:
Obstipuit primo aspectu Sidonia Dido Casu deinde viri tanto et sic ore locuta est:
AC
[…] Stupì Didone
nel primo aspetto d’un sì nuovo caso, e d’un uom tale; indi riprese a dire:
VA RCO
Da pria l’aspetto, e le vicende quindi D’eroe cotanto, addoppian lo stupore Della Regina, che al fin pur gli dice:
Stupefatta rimase Didone Sidonia, anzitutto a vederlo, poi della sorte mirabile dell’eroe,e così disse:
La sola ricompensa che Enea si sente in grado di garantire sembra limitarsi alla manifestazione verbale di gratitudine (v. 609). Honos si riferisce alla sfera religiosa, con principale significato di omaggio agli dei, spesso usato in connessione in formule di sacrificio: «transferred to the political sphere, honos is used to designate the payment of the debt that results from receiving an officium or a beneficium, and again belongs to the domain of fides and pietas»32. Anche il termine laus, desunto dall’originale sfera religiosa, più genericamente può indicare parole di ringraziamento e celebrazione nei confronti di chi, in guerra o in contesto civile, si sia distinto per azioni particolarmente meritevoli: tra i due termini vi è quindi una sicura connessione. Sebbene utilizzati
30 A questo proposito, Salvatore (P. VIRGILIO MARONE, Libro I, op. cit., p. 66) cita il passaggio del De natura
deorum (II.46.118): «Sunt autem stellae natura flammae: quo circa terrae, maris, aquarum vaporibus aluntur iis, qui a sole ex agris excitantur».
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«Questo della sorpresa che desta un personaggio col suo apparire è un motivo importante di tutto il poema (ivi, p. 67)», di cui altri esempi nel corso del poema sono costituiti dalla sorpresa di Andromaca (Arma amens vidit, magnis exterrita mostri, / Deriguit visu in medio, calor ossa relinquit, III, 307-308), di Aceste (At procul excelso miratus vertice montis / Adventum sociasque rates occurrit Acestes, V, 35-36) e di Evandro (Terrentur visu subito cunctisque relictis / Consurgunt mensis […], VIII, 109-110). Il verbo obstipuit in apertura d’esametro «in funzione formulare […] ritorna (sempre nella medesima posizione del verso) in II 378, V 90, VIII 121, IX 197, XII 665», E. PARATORE, Commento al libro I dell’Eneide, cit., p. 217.
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non esclusivamente in accezione politica, nelle parole di Enea a Didone i due termini hanno questo preciso significato33.