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Nel suo Comento sopra la Comedia 1 dantesca, Cristoforo Landino nomina in varie occasioni la

§1 Landino e gli altri umanisti di fronte a Didone

1. Nel suo Comento sopra la Comedia 1 dantesca, Cristoforo Landino nomina in varie occasioni la

principessa cartaginese, anche discutendo versi dove questa non è esplicitamente nominata. Già a proposito del colle illuminato dal sole, nel primo canto dell’Inferno, al verso 21

la notte ch’io passai con tanta pièta

volto ad indicare, secondo il commentatore, il dolore da parte di Dante d’aver perso la retta via, Landino descrive le due possibilità di vita, radicalmente contrapposte, a seconda che si sia scelta «una virtù decta temperantia, nella quale chi ha fatto abito in forma si contiene et abstiene da ogni piacere, et voluptà vitiosa et non honesta», oppure il «vitio della intemperantia», peccato in cui cade colui che «si dà tutto alla vita lasciva et voluptuosa et a ogni libidine». Questa visione dicotomica è legata a inconciliabili visioni etico-comportamentali: se infatti nel primo caso si parla di «virtù», nel secondo si scivola nel «vitio, imperò ché lo incontinente anchora lui non vorrebbe cader nel vitio, et chombatte chon la libidine chome combatteva el continente; ma non la vince chome il continente, ma lasciasi vincere». E come paradigmatico esempio di questa seconda esecranda tipologia Landino porta proprio il caso di Didone:

«Adunque, seguitando la fictione di Virgilio, Didone nel principio che vide Enea era temperata et volentieri et sanza faticha s’absteneva da ogni lascivia. Onde dice: «tum breviter Dido vultum demissa profatur». Dipoi dopo il convito cominciando già le fiamme, s’inclinava all’amore; ma pure, benché gli fussi difficile, niente dimeno s’abstenea dagli acti libidinosi. Il perché non era più temperata, ma era diventata continente et combatteva col vitio, ma pure vinceva. Il perché dice: «si mihi non animo fixum immotumque sederet. Ne cui me vinclo vellem sociare iugali […] Huic uni forsan potui succumbere culpe». È dunque combattuta dall’amore, ma pure lo vince. Onde conchiude volere essre prima fulminata da Iove che violare la castità. Ma non dopo molto tempo diventa incontinente, perché continuando l’amore di tormentalla, finalmente si lascia vincere benché malvolentieri, maxime per le persuasioni di sua sorella. Né cessò di ruvinare al fondo insino a tanto che diventò intemperante, perché facto già habito nella lascivia, volentieri a quella si dava. Il che el poeta dicendo: «nec iam furtivum Dido meditatur amorem». Vedi dunque che chosa è temperantia, continentia, incontinentia et intemperantia. Il perché tornando a proposito, Danthe era non intemperato, perché non havea facto habito del vitio, ma incontinente, perché benché combattessi col vitio, nientedimeno si lasciava vincere».

Nell’ottica rigidamente moraleggiante dell’umanista fiorentino, la fascinosa particolarità, e al contempo la grande complessità propria di Didone, capace di mutarsi da nobile regina amministratrice di un impero a vulnerabile donna pronta a mettere tutto in discussione per una rinnovata fiamma d’amore – e il verso di Eneide IV, 23, ben noto a Dante, viene interpretato proprio come dimostrazione non solo di una lacerazione interna, ma anche come deriva peccaminosa – subiscono la reductio da una condizione di merito ad una di condanna. L’ «astenersi

1 Per un adeguato inserimento nel contesto storico del Quattrocento e un’approfondita indagine circa la genesi del

Comento landiniano cfr. P. PROCACCIOLI, Filologia ed esegesi dantesca nel Quattrocento – L’«Inferno» nel «Comento sopra la Coemdia» di Cristoforo Landino (premessa di G. PETROCCHI), Firenze, Olschki, 1989.

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da ogni lascivia» è invece interpretato sulla base di una supposta propensione di Didone al breviloquio e alla morigeratezza, come dimostrato dal verso 23 del primo libro virgiliano. In questo caso, una possibile fonte di Landino potrebbe ravvisarsi in Petrarca, il quale, nella Collatio coram

Domino Iohanne, per descrivere le principali doti proprie di un regnante, cita proprio questo verso

dell’Eneide:

«Sane inter conditiones principum, de quibus multi multa dixerunt, gloriosissime regum, quantum michi ex quibusquam veterum scriptis in rege, breviloquium et verecondia in regina; et hec duo simul attigit ille nature conscius poeta ubi ait:

Tum breviter Dido vultum demissa»2.

A differenza delle letture allegorizzanti dell’ Eneide, in cui Didone era bollata tout court come emblema di vizio e libidine, in Landino la vicenda di Didone è quindi considerata nel suo tragico svolgimento, in un’ottica bipolare che riconosce gli indubbi meriti civili della sovrana ma ne condanna l’incipiente deriva passionale.

Simbolo proprio dell’incontinenza è la lonza che, dice Dante, non mi si partiva dinanzi al volto (Inferno, I, 34)3: la spiegazione landiniana ad locum è:

«perché sempre sta fixo nella mente la forma della cosa amata. Questo dimostra Virgilio in Didone, la quale vedea et udiva Enea benché absente. Questa molto impedisce el camino, perché nessuna chosa è ce tanto ci ritragha della speculazione quanto el lascivo amore, in forma che etiam gli alti ingegni et meravigliosi huomini spesso torce dal vero camino».

In questo secondo caso in cui è menzionata Didone pur non essendo questa stata ancora nominata da Dante, il commentatore sembra avvicinarsi all’equazione Dido/libido propria della Expositio

Virgilianae continentiae di Fulgenzio4. Un altro riferimento a Virgilio via Petrarca è invece possibile quando Landino, per le prime due terzine del secondo canto dell’Inferno

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno toglieva li animai che sono in terra da le fatiche loro; e io sol uno

m’apparecchiava a sostener la guerra sì del cammino e sì de la pietate,

che ritrarrà la mente che non erra. (Inferno, 1-6).

Tenuto presente quanto detto nel capitolo precedente a proposito del Sonetto CLXIV Or che ‘l ciel

et la terra e ‘l vento tace (ma anche della Canzone L Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina)5, Landino afferma esplicitamente circa il testo dantesco:

«Questo luogho è tracto del quarto libro di Virgilio, dove induce Didone veghiare pel dolore et pegli affanni in quella hora nella quale tutti gli animali si posano»6.

2 Per le suggestioni e i richiami legati a questo verso virgiliano cfr. Capitolo I p. 15 e Capitolo 2 p. 45.

3

Cfr. N. SAPEGNO, op. cit., p. 8 (Inferno).

4 Cfr. Capitolo II p. 80.

5 Cfr. Capitolo III, pp. 137-138.

6 Landino prosegue poco oltre, citando i versi 10-13 del sonetto VII La gola e ‘l sonno et l’otïose piume del Canzoniere

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Se Petrarca7 è chiamato ancora direttamente in causa commentando i versi

Ora incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto

là dove molto pianto mi percuote. (Inferno,V, 25-

27)

poco prima, riferendosi ai deleteri effetti della «luxuria», Landino parla idi «cecità di mente et inconsideratione», continuando:

«Queste due cecità, una della ragione superiore , et l’altra della inferiore, exprexe optimamente Virgilio. La prima in Enea, el quale per Didone lasciava l’Italia, cioè la inquisitione et contemplatione delle chose celesti. La seconda in Didone, la quale impedita dall’amore, ogni altra chosa in tralasciava, unde «non cepte insurgunt turres». Item induce la lux uria incostante».

La citazione del passo del IV libro dell’Eneide8, in cui si descrive il degrado e l’involuzione che affliggono la città e la gente di Cartagine a causa della amorosa distrazione della regina vuole appunto sottolineare le catastrofiche conseguenze di tale passione. Al verso dantesco in cui per la prima volta viene nominata la regina fenicia, Landino appone una breve storia di questa9:

«Chostei [Didone] fu figliuola di Belo re di Phenycia, et moglie di Sicheo, el quale perché haveva di molto thesoro, da Pygmaleone fratello di Didone fu ucciso sperando possedere le sue riccheze. Ma Didone con quelle si fuggì in Affrica, dove edificò Cartagine, et vixe in gran castità, né mai ruppe fede al già morto marito. Et finalmente vedendosi constringere a Iarba re di Mauritania, el quale la volea sposare, chon le proprie mani s’uccise per non rompere la fede a Sicheo. Ma Virgilio per ornare el suo poema finge che arrivando per tempesta Enea a’ liti cartaginesi, et visitandola, lei s’innamorò di lui, et fuggendo nella caccia la piova un una speloncha dove s’accozorono, lo conobbe. Dipoi andatosene Enea in Italia, Didone vincta dal troppo amore s’uccise. Adunque Dante seguitando Virgilio nell’altre chose, lo seguita anchora in questa storia».

Ancora una volta, quindi, viene accolta la versione secondo cui, innamorandosi di Enea e tradendo il giuramento di fedeltà nei confronti di Sicheo, Didone avrebbe infangato e perso il suo status regale. Ma Landino – in linea con quanto già osservato circa le riflessioni di Boccaccio e Petrarca –

et pochissimi, onde el Petrarcha «povera et nuda vai philosophia, Dice la turba al vile guadagno attesa. Pochi compagni harai per la tua via» […]».

7 «chi vuole apuncto intendere la incostantia de gli amanti, et la ruina de’ loro consigli da un extremo a un altro, legga il

trionpho che scrive Francesco Petrarcha dell’amore, chosa molto utile considerando o bene a chi cercha di liberarsi da sì crudele servitù».

8

Non coeptae adsurgunt turres, non arma iuventus / Exercet portusve aut propugnacula bello / Tuta parant: pendent opera interrupta minaeque / Murorum ingentes aequataque machina caelo, Eneide, IV, 86-89.

9 Similmente il commento ad locum delle Chiose Palatine: «L’altr’è colei che s’ancise amorosa et cetera. Questa è

Dido, moglie che fue di Siceo re di Tiria e suora di Pignaleone e figliola di Belo; preso e morto Siceo dal cognato, questa donna con certi di Tiria, reca<n>done seco la cenere del suo marito, venne in Affrica e quivi edificò Cartagine dove arrivoe Enea con li sui, fuggiti di Troia, del quale Dido innamorò e venne a carna’ uso, dal quale poi abbandonata sé medesima uccise, sé come scrive Virgilio nel quarto libro de l’Eneida, sìche prima ruppe fede a la cenere del suo marito, poi innamorata se uccise, e questo dice il testo».

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ammette essere questa un’invenzione virgiliana, come d’altronde riconosce anche Leonardo Bruni nel De studiis et litteris ad dominam Baptistam de Malatestis:

«Equidem, si quando Didonis Eneeque amores apud Virgilium lego, ingenium poete admirari soleo, rem autem ipsam, quia fictam esse scio, nequaquam attendere».

In accezione sicuramente positiva è da leggersi il parere di Bruni relativo alla regina cartaginese, contenuto nel secondo libro dei Dialogi ad Petrum Paulum Histrum (1401):

«Cur Virgilius castissimam mulierem, quae pro pudicitia conservando mori sustinuit, ita libidinosam fingit, ut amoris gratia seipsam interimat?»10.

Il fascino e il valore dell’inventio poetica devono quindi essere ben distinti dalla realtà ‘storica’ del personaggio, e questo concetto sembra essere confermato dal commento ad locum non solo delle Chiose Filippine:

«L’altra, id est Dido relicta quondam Sichei, que concubuit cum Enea et propter amorem et recessum occidit se ipsam. Che s’ancise amorosa, idest que se occidit propter amorem. Nota quod autor sequitur hic Virgilium in quarto et eciam primo Eneidos, de Didone, filia Beli regis Tiri et Sidonis, in provincia Fenici set Palestine, que fuir uxor Sichei regis Barith, que in veritate fuit castissima»11 .

ma anche, più chiaramente, di Matteo Chiromono:

«[L’altra è collei che s’ancise amorosa] Revera Dido pudicissima foemina fuit quae, ut inquit Iustinus xviii libro, ne Hiarbe, Maurorum regi, matrimonio iungeretur, se gradio transixit; quae a Virgilio narrata sunt de ipsa, fabulosa sunt. Nec etiam retio temporum convenit: nam Eneas venit in Italia, per ecce annos ante Didonis tempora [amorosa] plena amoris».

L’importanza che il IV libro virgiliano riveste per il commento landiniano emerge anche a proposito di altri luoghi della Commedia, come dimostra ad esempio la terzina

«Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s’ausi un poco in prima il senso

al tristo fiato; e poi no i fia riguardo (Inferno, XI, 10-12).

Dopo la sosta presso la tomba di papa Anastasio II, alla percezione dell’orribile soperchio / […]

puzzo (Inferno, XI, 4-5), i versi danteschi – in cui è chiara un’eco virgiliana (fauces grave olentis Averni) – vengono così chiosati da Landino:

10 Cfr. L. BRUNI, Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, a cura di U. BALDASSARRI, Firenze, Olschki, 1994, p. 136.

Cfr. S. H. JED, Chaste thinking: the rape of Lucretia and the birth of Humanism, Bloomington, Indiana University Press, 1989, p. 35.

11 Analogamente, il commento delle Chiose Filippine al verso 85 (cotali uscir de la schiera ov’è Dido) è: «Acies

Didonis est acies filocaptorum», mentre Matteo Chiromono chiosa: «[ov’è Dido] ubi est Dido, quae se amore Aeneae interemit».

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«Imperoché ogni dura cosa si sopporta meglio poi che l’huomo vi s’è hausato, che nel principio. Onde et Didone apresso di Virgilio: «tempus inane peto requiem spatiumque furori Dum mea me victam doceant [doceat] fortuna dolere». Et allegoricamente intenderemo che non dobbiamo scendere alla meditazione di simili vitii con subito empito d’animo, ma maturamente et chon ragione, perché altrimenti da quegli potremmo esser presi» .

Ma anche il tema del suicidio – colto nel suo ultimo esito (Eneide, IV, 697) – della regina cartaginese è presente nel commento dell’umanista fiorentino: nel pozzo dei giganti, al canto XXXI, la terzina

Ancor ti può nel mondo render fama, ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta

se ‘nnanzi tempo Grazia a sé nol chiama (Inferno, XXXI, 127-129)

posto a chiusura del discorso di Virgilio a Dante sulla fama, sul positivo ricordo da lasciare tra i vivi, è così commentata:

«se per grazia divina lui non è chiamato alla celeste vita innanzi al corso naturale della humana vita. Imperoché chi muore inanzi al natural corso muore inanzi al tempo. Onde Virgilio di Didone: «sed misera ante diem subitoque accensa furore»».

Altri accenni alla vicenda di Didone e Enea tornano anche in altre occasioni: a proposito del canto IX del Purgatorio (vv. 22-24), ad esempio, quando Dante, addormentatosi sul prato fiorito immagina in sogno d’esser prelevato da un’aquila che lo innalza sino alla sfera di fuoco, viene citata la storia di Ganimede12 sull’onda di indubbie suggestioni classiche, e infatti a tale proposito Landino scrive:

«Et è cosa mirabile con quanto acume d’ingegno et di giudicio, et quanto copertamente lui [Dante] imita Virgilio. Il che mi parabordo exprimere in questo luogho. Volle dunque l’uno e l’altro di questi poeti dimostrare, che questo interviene, che gl’huomini, e quali si danno alla contemplazione, o stracchi dalla fatica, o perterrefacti, et sbigoctiti, dalla difficoltà, mutano proposito, et ritornano alla vita civile […]. Questo significa Virgilio in Enea, el qual afflicto per la temepsta concitata da Iunone et da Eolo, abbandona la ‘mpresa d’andare in Italia, la quale chome dimostrai nelle nostre allegorie, sempre pone per la vita contemplativa. Et prende partito andare in Cartagine, i. alla vita activa. Et quivi facto marito di Didone, si sarebbe posato, se Iove non havessi mandato Mercurio ad excitarlo, et admonirlo, che non abbandonassi la prima impresa, i. se Idio non havessi dimostrogli per vera doctrina, quanto sia da preporre Maria a Marta».

Analogamente, quando nel XX del Purgatorio, parlando di Ugo Capeto, viene menzionato Pigmalione:

Noi repetiam Pigmalion allotta, cui traditore e ladro e parricida

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fece voglia sua l’oro de l’avaro Mida (Purgatorio, XX, 103-105)13 Landino puntualizza:

«fu figliolo di Belo, uccise a tradimento Sicheo sacerdote d’Hercole, et mentre che sacrificava, el quale era suo zio et marito di Didon sua sirocchia. Né l’uccise provocato da alchuna ingiuria, ma per usurpare le sue richeze, le quali nientedimeno non poté havere, perché Didone con quelle fuggì in Africa, et edificò Cartagine».

Entrambe le versioni del mito di Didone sono ben presenti a Landino, sia quella di matrice virgiliano-dantesca da cui deriva la condanna del tradimento alla memoria del defunto Sicheo, sia quella indipendente da Enea – e derivata da Giustino – volta a mettere in risalto i meriti e la castità della regina. La prima accezione negativa emerge nel commento degli ultimi quattro versi del XXV canto del Purgatorio, dove si descrive il girone dei lussuriosi

E questo modo credo che lor basti Per tutto il tempo che ‘l foco li abbrucia: con tal cura conviene e con tai pasti

che la piaga da sezzo si ricucia (Purgatorio, XXV, 136-139)

il cui commento, volto ancora una volta a biasimare il peccato della libidine, è:

«Imperoché chome el corpo rimane squarciato per lo colpo datogli, chosì l’anima riceve piagha, quando el vitio lo percuote. Et non che in questo, ma in molte altre chose per translatione diamo all’anima quello, che è del corpo. Onde Vir.: «at regina gravi iamdudum saucia cura Vulnus alit veni set ceco rapitur igni», dove pone l’anima di Didone esser ferita et ardere, le quali chose sono del corpo et non dell’anima, ma piglionsi per similitudini» È certo la luxuria ultima nell’ordine de’ capitali peccati. Ma diventa molto abominevole, perché rimuove l’huomo, che in quella si submerge, da ogni virile generosità, et fallo simile a’ bruti».

mentre la seconda accezione, positiva, è alla base del commento dei versi in cui viene citato Folquet de Marselha, e viene fornita una spiegazione alla duplice etimologia che caratterizza la regina fenicia:

Che più non arse la figlia di Belo,

noiando a Sicheo et ad Creusa (Paradiso, IX, 97-98)14 «la figlia di Belo: el nome di costei fu Elissa, ma per l’animo suo virile fu nominata Didone.

Castissima al tucto femina secondo le historie, ma Virgilio finge che essa s’innammorassi d’Enea, et per amore partendosi da llei s’uccisessi, et questo seguita il poeta; noiando ad

13 Matteo Chiromono scrive ad locum: «[repetiam Pigmalion] Primo tangit avarizia Pygmalionis, fratris Didonis, qui

caeca auri cupidi tate Sicheum, sororium suum, interfecit; ob quod Dido Tyro, urbe phoeniciae, discedens, in Lybiam profecta est ibique Carthaginem condidit, ut Virgilius in primo et iiij Aeneidos attestatur».

14 A questo passo si riferisce Matteo Chiromono quando, commentando la citazione di Iarba nel XXXI del Purgatorio

(Con men di resistenza si disbarba / robusto cerro, o vero al nostral vento / o vero a quel de la terra di Iarba, / ch’io levai al suo comando il mento, 70-74, cfr Capitolo III pp. 111-112), scrive: «[Iarba] Hiarbas rex Mauritaniae fuit, qui Didonem uxorem habere voluit, de quo in Paradisi 9o capitulo fit mentio».

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Sicheo et a Creusa: perché in queste coniunctione Enea non observò la fede a Creusa sua moglie, né Didone ad Sicheo suo marito: ma tal favola già più volte narrata».

2.

Le osservazioni relative a Didone esposte nel commento alla Commedia dantesca sono da mettere in connessione con altri loci landiniani, in primo luogo delle Disputationes Camaldulenses. Per fare questo però, come è stato anche di recente notato15, non ci si può esimere dal contestualizzare le speculazioni dell’umanista attivo al Collegium Florentinum all’interno dell’attività dell’Accademia Platonica16; questo è ancor più importante se si considera l’idea allegorizzante applicata ai primi sei libri del poema virgiliano nel III e IV libro delle

Disputationes17, in cui l’evoluzione della figura di Enea è analizzata alla luce del passaggio dalle seduzioni (Troia) alla vita contemplativa (Italia) attraverso la vita attiva (Cartagine). Tenendo inoltre presente che il pensiero filosofico landiniano è stato praticamente oscurato da quello ficiniano 18 , è necessario distinguere con quale veste (grammatico-retorica o filosofico- allegorizzante) Landino approccia i vari testi della classicità19. Assunto basilare per l’esegesi di Landino, contenuto nel terzo libro delle Disputationes, la cui fonte è l’ Oratio ad adolescentes (IV, 42) di Basilio, è la frase:

«totam Homeri poesim laudem virtutis continere»20

Espressione di un concetto che ritorna nei proemi sia dei commenti virgiliani pubblicati nel 1488 sia del commento al poema dantesco:

Qua obsecro ille acrimonia, quo verbo rum fulmine metum, ignaviam, luxuriam, incontinentiam, impietatem, perfidiam, ac omnia iniustitiae genera reliquaque vitia insectatur vexatque? Quibus contra

Con quanto ardore, con quanta acrimonia la ingiustizia, la perfidia, la incontinenza, la crudeltà, la pusillanimità, la insolenza e tutti gl’altri vizi fulmina e vitupera! Con quanta lode, con quanti premi c’invita alle virtù, e ci

15 C. KALLENDORF, op. cit., pp. 130-131. 16

Cfr. P. O. KRISTELLER, The Platonic Academy of Florence, in Renaissance Thought II: papers on humanism and the arts, New York, Harper and Rowe, 1965, pp. 89-101.

17 Per un inquadramento generale dell’allegoria nell’opera landiniana con particolare attenzione a Viriglio, cfr. D. C.

ALLEN, Mysteriously Meant: The Rediscovery of Pagan Symbolism and Allegorical Interpretation in the Renaissance,

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