§3 Catullo e il Seneca tragico: analogie con la Didone virgiliana
2. A sostegno poi dei rapporti tra la figura di Didone e vari personaggi femminili del Seneca tragico, è possibile partire dalla fama poetica di Virgilio: se questa infatti era già affermata al tempo del filosofo
di Cordoba, innegabile era la predilezione di quest’ultimo per l’Eneide204. Ovviamente, un presupposto ad un accostamento di questo tipo risiede ancora nella natura fondamentalmente tragica dell’episodio della Didone virgiliana, di cui un’ulteriore conferma è fornita anche da Austin205: in base a questo assunto, si può, anche sulla scorta di quanto evidenziato da Fantham, ipotizzare che il personaggio greco di Fedra sia stato oggetto di una reinterpretazione senechiana proprio in esatto rapporto alla Didone dell’Eneide. Ancora una volta è infatti possibile mettere in luce diversi punti in comune tra i due casi, come lo sbocciare di un amore contrario ad una certa idea di moralità (passione verso il figliastro / tradimento della memoria del defunto Sicheo), la comprensione / accettazione di questo nuovo sentimento dopo il confronto con una persona fidata (la nutrice nel caso di Fedra, Anna nel caso di Didone) che, seguendo una climax agogica, comporta un’intensificazione dello struggimento206. Lo snodo focale e comune risiede nel confronto tra le donne innamorate e l’oggetto della loro passione che oppone – in un secondo momento, nel caso di Enea – un rifiuto. Una sostanziale differenza sta però nel fatto che mentre Didone incontra prima personalmente il condottiero troiano, per poi affidarsi vanamente alle intermediazioni della sorella, nel caso di Seneca l’intervento della nutrice precede la dichiarazione di Fedra ad Ippolito.
Un aspetto presente in entrambi i casi − «absent from other surviving sources for the Phaedra myth»207 − non è tanto il fallimento dell’incontro tra le regine e l’uomo amato, bensì quello dell’esito dell’incontro con Anna e la nutrice. Se infatti, dopo aver riferito dell’inutilità delle preghiere della prima, Virgilio descrive la resistenza di Enea mediante una forte similitudine:
Ac velut annoso validam cum robore quercum alpini boreae nunc hinc nunc flatibus illinc eruere inter se certant; it stridor et altae costernunt terram concusso stipite frondes; ipsa haeret scopulis et quantum vertice ad auras
aetherias, tantum radice in Tartara tendit: (Eneide, IV, 441-446)
la nutrice similmente commenta a proposito di Ippolito:
203 R. GREW GRIFFITH, op. cit., p. 51 n. 10. 204
Cfr. tra gli altri W. S. MAGUINNESS, Seneca and the Poets, in «Hermathena», LXXXVIII, 1956, p. 93 e E. FANTHAM, Virgil’s Dido and Senaca’s tragic Heroines, in «Greece&Rome», second series, vol. 22, n°1, April 1975, p. 2 e passim.
205
«if Vergil had written nothing else […] it would have established his right to stand beside the greatest of the Greek tragedians», op. cit., pp. IX e X.
206 Sebbene con differenti sfumature: «for Phaedra this is in conflict with her former surrender to passion, and led to
suggestions of a change of dramatic model by Seneca; for Dido the torment is delayed until after the brief period of happy mutual love, and comes with the news of Aeneas’ departure», E. FANTHAM, op. cit., p. 2.
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Ut dura cautes undique intractabilis resistit undis et lacessentes aquas
longe remittit, verba sic spermit mea - (Fedra, 480-482).
In entrambi i casi, tenuti ben presenti le differenze tra i testi di carattere epico – seppur con fortissime valenze drammatiche – e dichiaratamente tragico, la descrizione serve ad approfondire la psicologia dei personaggi, facendone risaltare luci, ombre, abissi ed incertezze.
Inoltre, alla luce di una preferenza del termine intractabilis accordata da Seneca in contesto prosastico, insieme all’utilizzo di termini simili come immitis e ferus208, e considerando anche i versi usati da Virgilio per introdurre il paragone con la quercia209, è forse possibile desumere, sulla base appunto del discrimine lessicale tractabilis / intractabilis, che è proprio partendo dal ripudio di Didone che deriva la precisa scelta semantica senechiana, volta a rappresentare una particolare affinità di Ippolito con creature ostiche e selvagge, specie in relazione alla sua pervicace resistenza ad ogni tentazione femminile.
Fondamentale, nel primo delinearsi della storia della Didone virgiliana, è la metafora relativa alla passione che consuma come una fiamma e, a questo collegata, l’idea della ferita d’amore. L’incipit del IV libro recita infatti:
At regina gravi iamdudum saucia cura
vultus alit venis et caeco carpitur igni. (Eneide, IV, 1-2).
Il concetto viene ripreso, nonché semanticamente variato /approfondito, in seguito: […] est mollis flamma medullas
Interea et tacitum vivt sub pectore volnus. Uritur infelix Dido, totaque vagatur
Urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta (Eneide, IV, 66-69)
Interessante è, a questo proposito, il confronto con alcuni versi senechiani del monologo d’ingresso di Fedra:
[…] alitur et crescit malum
Et ardet intus qualis Aetneo vapor
Exundat antro. […] (Fedra, 101-103)
che presentano infatti un’indubbia analogia con quelli virgiliani.
208 immitis annos caelibi vitae dicat, / conubia vitat: genus Amazonium scias (230-231) e Amore didicimus vinci feros (240):
a parlare sono la nutrice nel primo caso e la protagonista nel secondo. È sempre la nutrice, riferendosi a Ippolito, a dire: quis huius animum flectet intractabilem? (220).
209 […] sed nullis ille movetur / fletibus, aut voces ullas tractabilis audit; / fata obstant placidasque viri deus obstruit aures
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Catullo viene inoltre a porsi come riferimento comune sia per Virgilio che per lo stesso Seneca: se infatti si può concordare con Fantham210 circa un’influenza catulliana (quam penitus maestas exedit
cura medullas, LXVI, 23) per quel che riguarda il verso 66 del Mantovano, anche la similitudine con il
vapore dell’Etna presente nella tragedia ha un’eco in un passo del poeta veronese (cum tantum arderem
quantum Trinacria rupes, LVIIIb, 53). Ma il dato più importante resta comunque quello incentrato –
anche alla luce dei versi senechiani relativi alla passione amorosa qui blandiendo dulce nutrivit malum / sero recusat ferre, quod subiit iugum (Phaedra, 134-135) – sull’idea secondo cui «passion grows and is nourished by the sufferer»211 viene esplicitata da Virgilio e ritorna nelle parole del coro della
Phaedra senechiana non habet latam data plaga frontem / sed vorat tectas penitus medullas: passo che
suona quale paradigmatica espressione del potere distruttivo dell’amore. Questo, nella sua incubazione, comporta una serie di sintomi che, tanto in Didone, quanto in Fedra, appaiono simili: indecisione, inquietudine, insonnia e dimenticanze attagliano gli animi di entrambe le donne. Su tutto, è possibile notare una particolare vicinanza tra i versi:
[…] Agnosco veteris vestigia flammae (Eneide, IV, 23) e
fatale miserae matris agnosco malum (Fedra, 113).
L’immagine della rabbia, che prende Didone allorquando viene messa al corrente della partenza di Enea, viene espressa da Virgilio con il termine aestus:
[…] ingeminant curae, rursusque resurgens
saevit amor, magnoque ira rum fluctuat aestu212. (Eneide, IV, 531-532)
direttamente riferito alla regina cartaginese, e
illa dolos dirumque nefas in pectore versat,
certa mori, variosque iraum concitat aestus. (Eneide, IV, 563-564)
in variatio stilistica, cioè indirettamente riferito a Didone all’interno del discorso di Mercurio al condottiero troiano. Il termine aestus viene raccolto, e differentemente sviluppato, da Ovidio e da Seneca. In particolare, il secondo ne amplifica i significati di tempesta marina, con uno spostamento verso la sfera semantica fluctus / fluctuare. Questo appare chiaramente anche in altre due tragedie, non solo nell’esordio di Clitennestra dell’Agamennone, dove inoltre la valenza del quesito verso se stessa è rafforzata dall’anafora:
210E. FANTHAM, op. cit. p. 5. 211 Ibidem.
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Quid, segnis anime, tuta consilia
Quid fluctuaris? (Agamennone, 108-109)
ma anche in un passo cruciale della Medea213, dove ritorna il lemma aestus:
quid, anime, titubas? Ora quid lacrimae rigant variamque nunc huc ira, nunc illuc amor diducit? Anceps aestus incertam rapit: ut saeva rapidi bella cum venti gerunt utrimque fluctus maria discordes agunt
dubiumque fervet pelagus, haud aliter meum
cor fluctuatur […] (Medea, 937-943).
§4 Le altre testimonianze pre-virgiliane e l’ipotesi del frammento
n° 7 B (23 Mo) del Bellum Poenicum di Nevio
214Grazie agli indizi presenti in Marco Terenzio Varrone e Ateio Filologo è possibile riscontrare che la leggenda dell’amore infelice tra Didone ed Enea fosse già nota prima di Virgilio. Il primo215 avrebbe infatti visto in Anna, e non nella regina d’origine fenicia, la donna innamorata di Enea tanto da porre fine alla sua passione con il suicidio: questo è chiaramente testimoniato sia da Servio216 che da Servio Danielino217 ai versi 4 e 682 rispettivamente del V e del IV libro dell’Eneide. Un’opera del secondo (An amaverit Didun Aeneas)218, citata da un grammatico del I secolo a. C., era presumibilmente volta a chiarire i termini e l’entità della storia d’amore.
Ma una trattazione della vicenda di Didone precedente la consacrazione ricevuta dal poema virgiliano non può prescindere dalle ipotesi che si sono succedute riguardo il possibile soggetto del frammento neviano tramandato nel IV libro (‘De varia significatione sermonum’) del trattato De compendiosa
doctrina di Nonio Marcello:
blande et docte percontat Aenea quo pacto Troiam urbem liquori
la cui traduzione è: “in modo invitante ed attento domanda come Enea abbia abbandonato la città di Troia”. Marino Barchiesi219, ricostruendo tutta la discussione filologica relativa al passo di Nevio,
213 «in the corresponding self-analysis […] at her time of decision», E. FANTHAM, op. cit., p. 9. 214 Ci si riferisce all’edizione dei frammenti di Barchiesi e Morel.
215
Con molta probabilità nel perduto De Familiis Troianis, cfr. P. BONO-M.V. TESSITORE, cit., pp. 23-24.
216 «sane sciendum Varronem dicere, Aeneam ad Anna amatum».
217 «Varro ait non Didonem sed Annam amore Aenea impulsam se supra rogum imtermisse».
218 Cfr. C. BARWICK, Flavii Sosipari Charisii Artis grammaticae libri V, Lipsiae, in aedibus B. G. Teubneri, 1964, p. 162. 219 M. BARCHIESI, Nevio Epico. Storia, interpretazione, edizione critica dei frammenti del primo epos latino, Padova,
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identifica in Giusto Lipsio e in Ernst Spangenberg gli antesignani dei due gruppi di studiosi fautori e detrattori dell’ipotesi secondo cui Didone sarebbe potuta essere il soggetto mancante della frase. In alternativa a Didone, questo potrebbe essere infatti un hospes italico di Enea (Evandro o Latino). Antonio Mazzarino220, anche sulla scorta di un passo del grammatico Lucio Anneo Cornuto riportato da Carisio, sembra basarsi su una «somiglianza di situazione»221 tra il frammento neviano e la vicenda della Didone virgiliana per identificare in questa il soggetto della frase: si verrebbe così a creare, già in un contesto epico fortemente legato all’Odissea, una situazione d’avventura anticipatrice di quella creata poi da Virgilio. L’altro filone, invece, il cui più autorevole sostenitore è stato Scevola Mariotti222, ha escluso la possibilità che sia Didone a proporre il quesito, motivando tale posizione sulla base dei frammenti 17 e 21 Morel, in cui si dà già per avvenuto l’arrivo di Enea in terra italica. D’altronde, «l’esistenza nel poema del personaggio di Didone non è legata necessariamente all’identità dell’interrogante»223: in altre parole, è possibile congetturare un incontro tra Enea e la regina cartaginese pur tenendo salda l’identità ‘italica’ dello sconosciuto che formula la domanda224.
Questo assunto sembra ricevere ulteriori conferme anche alla luce degli accostamenti operati da Serrao225 con passi delle Divinae Institutiones di Lattanzio e dell’Origo gentis Romanae. La coincidenza o meno del soggetto della domanda con Didone è d’altronde legata alla più ampia questione relativa alla spiegazione fornita da Nevio della origo belli Punici e all’entità di un’ipotetica
origo Carthaginis – non provata neanche in Ennio – da contrapporre alla origo Romae.
L’unico dato che però, allo stato attuale, sembra indiscutibile è che, tanto per il frammento neviano, quanto anche per l’unica attestazione enniana del nome di Didone:
Poenos Didone oriundos (Annali, VIII, 179)226
si è oggettivamente in possesso di troppi pochi dati per poter elaborare congetture d’ampio respiro circa la tradizione pre-virgiliana della regina punica.
220 Il racconto di Enea: per un’interpretazione dell’Iliuperside virgiliana, Torino, Loescher, 1955, pp. 53-59. Di avviso
simile anche si era già mostrato Władysław Strzelecki (De Neviano Belli Punici carmine quaestiones selectae, Nakladem Polskiej Akademij Umejetnosci, Kraków, 1935, e Cnaei Naevii Belli Punici carminis quae supersunt, Leipzig, 1964, p. 69).
221 G. SERRAO, Nevio, ‘Bellum Punicum’, fr. 23 Mo., in «Helikon», V, 1965, p. 515. L’intera quaestio relativa a questo
problema è riassunta in R. LAMACCHIA, op. cit., p. 441 n.21.
222
S. MARIOTTI, Il ‘Bellum Punicum’ e l’arte di Nevio, Roma, Signorelli, 1955, p. 27 e passim. Del medesimo parere anche J. PERRET, Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, Les belles letttres, 1942, pp. 95-99.
223 M. BARCHIESI, op. cit., p. 478. 224
Secondo l’esempio odissiaco di Alcinoo che chiede notizie riguardo le peregrinazioni dell’eroe, E. SPANGERBERG (Quinti Ennii Annalium Libri 18 fragmenta. Post Pauli Merulae curas iterumrecensita, auctiora, reconcinnata, et illustrata. Accedunt Cnaei Naevii librorum De Bello Punico fragmenta collecta, composita et illustrata, Lipsiae, sumptibus Librariae hahnianae, 1825, p. 193) propone il nome di Latino, mentre Rudolph Heinich Klausen (op. cit., p. 193), seguito da N. TERZAGHI (Studi sull’antica poesia latina: il principio del ‘Bellum Punicum’, in «L’Arcadia», 12, 1928, p. 37) propendono per Evandro.
225 G. SERRAO, op. cit., pp. 516-518.
226 Si adotta la catalogazione di Antonio Traglia (cfr. «POETI LATINI ARCAICI», a cura di Antonio Traglia, Torino,
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Capitolo II
LA DIDONE VIRGILIANA
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