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L’arretramento della tutela reale a vantaggio di quella obbligatoria.

333 Relazione governativa al D lgs 17 gennaio 2003, n 6, testo disponibile su

2.5. L’arretramento della tutela reale a vantaggio di quella obbligatoria.

L’esigenza di stabilità della società e dei suoi atti – che è “uno dei Leitmotive della Riforma”365 - si traduce, infine, in un drastico

ridimensionamento della tutela reale a vantaggio di quella obbligatoria o risarcitoria. Una tale tendenza ha trovato la sua espressione più evidente a proposito dell’invalidità delle deliberazioni dell’assemblea, benché, per la verità, sia trasversale: trova, infatti, conferma anche fuori da quest’ambito, a proposito delle operazioni straordinarie, con l’estensione alla trasformazione (articolo 2500 bis cod. civ.) del regime d’invalidità già previsto per la fusione e per la scissione, e a proposito della nullità della società, per mezzo della restrizione delle cause di nullità (articolo 2332 cod. civ.)366.

D’altra parte, “l’eventuale adozione di strumenti di tutela diversi dall’invalidità” trova un’autorevole conferma già in seno alla legge delega 3 ottobre 2001, n. 366, giacché l’articolo 4, comma 7, lett. b la contempla espressamente.

Con riguardo all’annullabilità delle delibere, la Riforma innova il testo dell’articolo 2377 cod. civ. e al terzo comma introduce soglie quantitative minime ai fini dell’esercizio dell’azione di annullamento per i soci assenti, dissenzienti o astenuti: l'uno per mille del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il cinque per cento nelle altre. I pacchetti azionari minimi devono essere, peraltro, mantenuti per tutta la durata del processo, altrimenti il giudice può rigettare la domanda, e ciò – come già si è osservato – costituisce una remora forte e ulteriore all’impugnativa. Si aggiunga, poi, che, benché il codice consenta all’autonomia statutaria di ridurre o, addirittura, escludere simili percentuali, questa possibilità appare di

365 D’Alessandro, 708. In questo senso anche: Nigro, 881 s.s.; Sacchi [1], 135

s.s.

scarsa e difficile realizzazione nella prassi, il che acuisce il ridimensionamento della tutela reale o demolitoria. Dunque, le disposizioni dedicate a circoscrivere l’ambito dei soggetti legittimati ad agire non solo giocano in termini di rafforzamento della stabilità delle delibere, ma proprio a tal fine realizzano anche la riduzione dei margini operativi della protezione invalidatoria a vantaggio degli strumenti di tutela obbligatoria. Qual è, infatti, il contrappeso a siffatte limitazioni della possibilità d’impugnare? Ebbene, l’articolo 2377, comma 4 cod. civ. stabilisce che i soci che non raggiungono le soglie minime richieste - come i soci che, in quanto privi di voto, non sono legittimati a proporre l'impugnativa - hanno diritto a promuovere l’azione di risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto. Il contrappeso è, quindi, la sanzione obbligatoria.

L’arretramento della tutela reale non riguarda, poi, solo l’annullamento ma anche la nuova disciplina della nullità delle delibere. Qui, però, mantenendosi la legittimazione ad agire in capo a chiunque vi abbia interesse, a realizzare il ridimensionamento delle impugnative non è la limitazione dei legittimati, ma la rilevante riduzione dei termini per impugnare. Di là dell’eccezione delle deliberazioni che modificano l'oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili - che restano impugnabili senza limiti di tempo -, l’articolo 2379 cod. civ. prevede, infatti, diversi sbarramenti temporali alla proposizione dell’azione di nullità. Se manca la convocazione dell'assemblea, o a essere mancante è il verbale e, ancora, nell’ipotesi d’impossibilità o illiceità dell'oggetto, l’impugnativa può essere proposta entro tre anni, variamente decorrenti: quindi, dall’iscrizione o dal deposito della delibera nel registro delle imprese, se questa vi è soggetta, o dalla trascrizione nel libro delle adunanze dell'assemblea, se, al contrario, non è soggetta né a iscrizione né a deposito.

Lo sbarramento temporale è ancor più significativo nelle ipotesi contemplate in seno all’articolo 2379 ter, comma 1 cod. civ.: le delibere di aumento e di riduzione reale del capitale o di emissione di obbligazioni, infatti, non possono essere impugnate una volta che

siano decorsi centottanta giorni dall'iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese o, nel caso di mancata convocazione, novanta giorni dall'approvazione del bilancio dell'esercizio nel corso del quale la deliberazione è stata anche parzialmente eseguita. Ma è il secondo comma a prevedere, poi, una soluzione diversa e sempre più restrittiva della tutela invalidatoria a proposito delle società aperte, giocando come un meccanismo di “sanatoria «propria»”367. Invero,

l'invalidità della deliberazione di aumento del capitale non può essere pronunciata dopo che l'attestazione dell’esecuzione, anche parziale, dell’aumento sia stata iscritta nel registro delle imprese e la nullità della delibera di riduzione del capitale o di emissione delle obbligazioni è preclusa una volta che le deliberazioni siano state eseguite, anche parzialmente. Anche qui, a fronte di una limitazione così forte dell’impugnativa, il contrappeso – espressamente previsto dalla disposizione – è, per i soci e per i terzi, l’azione di risarcimento del danno, quindi una tutela che migra su un piano diverso da quello reale; quello obbligatorio.

Opera, poi, come meccanismo di “sanatoria” - non dissimile dall’articolo 2379 ter, comma 2 cod. civ. - anche il nuovo articolo 2434 bis, comma 1 cod. civ., che preclude in radice la possibilità di proporre le azioni previste dagli articoli 2377 e 2379 cod. civ. per le deliberazioni di approvazione del bilancio viziate, quando sia ormai avvenuta l'approvazione del bilancio dell'esercizio successivo. E, anche in questo caso, residua una tutela solo risarcitoria.

La costante di tutte le ipotesi sopra citate e, in generale, di tutti gli ambiti dell’ordinamento che sono interessati dalla tendenza trasversale al ridimensionamento della tutela reale è che a ciò fa da contraltare la migrazione della protezione su un piano diverso, quello obbligatorio. Ebbene, della tutela “sostitutiva” obbligatoria dovranno, allora, indagarsi l’ampiezza, i vantaggi e, infine, i costi, ripercorrendo, peraltro, le considerazioni che su tali punti hanno riguardato anche le operazioni straordinarie.

367 Beltrami [3], 697.

In primo luogo, la tutela obbligatoria, diversamente da quella reale o demolitoria – come preferisce definirla illuminata dottrina368 -, opera

solo alla presenza di un danno. Ma quale tipo di danno? In ragione della nozione di danno che s’intenda adottare, infatti, l’ampiezza operativa della tutela obbligatoria si modifica. Eppure, come gli articoli 2504 quater e 2500 bis cod. civ., anche le disposizioni sull’invalidità delle decisioni dell’assemblea presentano un tenore generico e non offrono indicazioni ulteriori circa l’azione di risarcimento. Ciò ha animato il dibattito tra i commentatori, ma l’opinione diffusa, per la verità, è che “nell’oscurità del dettato normativo, non sembra vi sia ragione per escludere la risarcibilità tanto del danno diretto, quanto di quello indiretto”369. D’altra parte, a

simili conclusioni non osta neppure la considerazione che nella versione finale dell’articolo 2377 cod. civ. l’iniziale riferimento all’inciso “diretto” sia, poi, scomparso 370 , giacché appaiono

sconsigliabili sia un’analisi lessicale, sia il tentativo di ricostruzioni nomogenetiche371.

V’è, poi, un’altra questione che influenza l’ampiezza della tutela obbligatoria anche nell’ambito delle delibere assembleari invalide: la sua qualificazione in termini di protezione risarcitoria o indennitaria. Attribuire alla tutela obbligatoria il carattere di protezione indennitaria la avvicina, infatti, alla tutela di tipo reale e ciò soddisferebbe, allora, la preoccupazione di costruire un rimedio che, poiché sostitutivo, sia per quanto possibile equivalente al rimedio demolitorio, ormai ridimensionato o escluso372.

Quanto ai costi e ai benefici della tutela obbligatoria in luogo di quella reale, sono proprio i tentativi ermeneutici diretti ad accentuarne l’ampiezza ad aprire una prima riflessione. Invero, se accogliere anche la nozione di danno indiretto o riflesso alla base dell’azione risarcitoria e configurare la tutela nei termini di una tutela indennitaria hanno il

368 Nigro, 881. 369 Lener, 85. Su questa linea di pensiero anche: Sacchi [1], 151 s.s. 370 In questo senso: Lener, 85; Nigro, 893; Sacchi [1], 153. 371 Così osserva: Lener, 85. 372 In questo senso: Nigro, 892; Sacchi [1], 155; Pinto [2], 859.

pregio di dilatare la portata della protezione obbligatoria, avvicinandola, in un certo senso, alla protezione reale, non può, tuttavia, negarsi che simili sforzi producano altresì un costo. La dottrina lo individua in quella che, efficacemente, definisce “una discriminazione tra [le] minoranze forti e organizzate e [le] minoranze deboli e non organizzate”373. La pronuncia d’invalidità di una delibera,

se accolta, produce i suoi effetti nei confronti di tutti i soci, sia che si siano attivati, sia che, invece, siano rimasti inerti; perciò si dice che ha “un effetto soggettivamente più ampio e più rilevante dell’accoglimento della domanda risarcitoria” 374. La protezione

obbligatoria, infatti, produce i suoi effetti solo nei confronti di chi agisce ed è a carico della società. Ma se la nozione di danno si estende anche al danno indiretto o riflesso, questa scelta fa sì che il soddisfacimento della minoranza organizzata che agisce non si produca solo a spese della maggioranza che ha approvato quella delibera – il che appare giustificato -, bensì anche a scapito di quella minoranza che non si è organizzata ed è rimasta inerte. Peraltro, intendere la tutela obbligatoria come tutela indennitaria incrementa tale costo, infatti, “la tutela indennitaria, a differenza di quella risarcitoria, opera anche in assenza di dolo o colpa, per cui aumenta la probabilità che la società – nonché, pro-quota, le minoranze rimaste passive – subisca la diminuzione patrimoniale conseguente alla riparazione pecuniaria accordata a chi ha attivato la tutela obbligatoria”375. In più, l’assenza del dolo e della colpa non consente di

spostare gli esborsi, cui la società è costretta, in capo ai soggetti che siano effettivamente responsabili; il che ha il rischio di promuovere, anziché scoraggiare, condotte patologiche376.

Un altro costo della protezione obbligatoria si ravvisa, poi, in un abbassamento del livello di protezione. Parte della dottrina377ritiene,

infatti, che non ci sia equivalenza tra la tutela demolitoria e quella

373 Sacchi [1], 158. 374 Pisani Massamormile, 67. 375 Sacchi [1], 159. 376 In questo senso: Sacchi [1], 159. 377 Nigro, 885; Sacchi [1], 147 s.s. e 159.

risarcitoria. Tra le giustificazioni di un tale assunto si annovera quella secondo cui “la tutela risarcitoria «compensativa» […] è destinata a rimanere, in molti casi (per non dire nella stragrande maggioranza di essi), puramente teorica”378, giacché le deliberazioni assembleari sono

atti organizzativi e non sono idonei “a produrre ex se e immediatamente effetti pregiudizievoli di natura patrimoniale”379.

Altra dottrina380 spiega la mancata equivalenza ritenendo che, poiché

alla base dell’azione risarcitoria poggia il requisito del danno, tale tutela – diversamente da quella reale - non può comunque operare se il danno non è dimostrabile o quantificabile.

Circa i vantaggi della protezione obbligatoria, questi si traducono, secondo la dottrina381, nella sua maggior efficienza e in una più intensa

selettività rispetto alla tutela reale. Invero, ripercorrendo le osservazioni già sollevate a proposito dell’arretramento della tutela reale nell’ambito delle operazioni straordinarie invalide, se quest’ultima tende comunque a bloccare la realizzazione di un certo risultato, la tutela obbligatoria ha, invece, il pregio di offrire protezione ai soggetti lesi dalla delibera invalida, ma, al contempo, non compromette gli interessi della maggioranza – quindi della società -, che, quanto a dimensione, appaiono sproporzionati rispetto all’entità (certamente minore) della lesione. 3. L’invalidità delle delibere consiliari. Giova ricordare che la Riforma del diritto societario affronta e risolve – pur lasciando talune zone d’ombra – anche il tema dell’invalidità delle delibere del consiglio di amministrazione, la cui disciplina può essere inserita tra le norme che circoscrivono la legittimazione a impugnare la delibera invalida e, quindi, gioca in termini di rafforzamento della stabilità degli atti societari382.

378 Nigro, 886. 379 Nigro, 885. 380 Sacchi [1], 152 e 159. 381 D’Alessandro, 710; Sacchi [1] 147 s.s.; in ambito internazionale: Calabresi - Melamed, 1089 s.s. 382 Rivolta, 566.

Il nuovo articolo 2388, comma 4 cod. civ. prevede che “le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate solo dal collegio sindacale e dagli amministratori assenti o dissenzienti entro novanta giorni dalla data della deliberazione” e – sia pure con il limite della compatibilità – stabilisce che è, altresì, applicabile l’articolo 2378 cod. civ. La dottrina383 osserva

come l’utilizzo dell’avverbio “solo”, per circoscrivere il novero dei legittimati unicamente ai soggetti sopra indicati, si spieghi con il timore che l’impugnabilità delle decisioni viziate del consiglio di amministrazione si traduca, in realtà, in un sistema volto a destabilizzare “la prontezza, la rapidità e la tempestività dell’azione dell’organo amministrativo, divenendo uno strumento di disturbo, di ostruzionismo o addirittura di ricatto nei confronti dei gestori dell’impresa”384. Il legislatore impiega, poi, il termine “collegio

sindacale” e non quello di “sindaci”, con ciò intendendo assegnare al solo collegio e non anche ai suoi singoli componenti la facoltà di impugnare le delibere consiliari annullabili385. Diversamente dal

riformulato articolo 2377 cod. civ. - che contempla la legittimazione anche dei soci astenuti - l’articolo 2388 cod. civ. menziona unicamente gli amministratori assenti o dissenzienti. Si dovrebbe, tuttavia, trattare di un difetto di coordinamento, di modo che gli amministratori astenuti possano essere equiparati agli assenti e, quindi, possano essere ricompresi nel novero dei legittimati.

Il secondo periodo del quarto comma fa, poi, riferimento a una seconda ipotesi d’invalidità delle decisioni consiliari: il caso in cui la deliberazione sia lesiva di un diritto del socio che, pertanto, è legittimato a proporne l’impugnazione. La Novella ha preferito affiancare alla prima previsione – quella dell’annullabilità – non l’intero sistema dell’invalidità delle delibere dell’assemblea, ma solo l’ipotesi delle delibere consiliari lesive di diritti. La volontà legislativa sembra, in questo senso, quella di evitare azioni “avventate oppure

383 Irrera, 1134. 384 Irrera, 1134.

capziose”386. La legittimazione ad agire pare, poi, essere circoscritta ai

soli soci, ma dottrina autorevole387 ha avuto cura di osservare che una

siffatta lettura della disposizione appare, per la verità, ingiustificata: le delibere del consiglio, infatti, potrebbero ledere anche i diritti degli amministratori e, in questo caso, la loro esclusione dal novero dei legittimati non appare congrua. Del resto, la stessa lettera della disposizione sembra aprire a un’interpretazione estensiva, prevedendo che le delibere consiliari “possono essere altresì impugnate dai soci”.

Alle delibere consiliari lesive dei diritti l’articolo 2388 cod. civ. rende espressamente applicabili – sia pure, di nuovo, con il limite della compatibilità – le disposizioni contenute negli articoli 2377 e 2378 cod. civ. Ne segue, quindi, l’estensione all’invalidità delle delibere del consiglio del termine di novanta giorni per impugnare, anche se si ritiene che questo decorra dal momento in cui il danno si è verificato e non dal momento in cui la delibera è stata assunta, sempre che il danno non sia immediatamente conseguente all’adozione stessa della delibera. Anche in questo campo si registra, allora, ciò che la dottrina definisce “il rischio di comportare un arretramento della tutela reale”388; se, infatti, si guarda al termine contratto di novanta giorni,

applicabile “anche all’impugnazione da parte dei soci delle deliberazioni consiliari lesive dei loro diritti, [si nota che di tali deliberazioni], prima della riforma, la giurisprudenza ammetteva l’impugnazione senza limiti di tempo”389. Trova estensione anche la

nuova regola sul possesso di un quorum minimo di azioni ai fini dell’annullamento della delibera assembleare. Si è, tuttavia, osservato390 che sarebbe, in realtà, incongruo applicare alle decisioni

del consiglio di amministrazione, lesive del diritto dei soci, un simile segmento di disciplina, data la gravità del vizio.

386 Irrera, 1136. 387 Irrera, 1136. 388 Sacchi [1], 141. 389 Sacchi [1], 141. 390 Irrera, 1136.

Benché, poi, il legislatore sia rimasto silente rispetto alle conseguenze delle delibere consiliari nulle, non si può ritenere che ciò esprima la volontà di escluderne la sindacabilità391; tanto più se si considera che

il legislatore consente di annullare tali delibere, dunque, non appare plausibile che ne vieti l’impugnativa a fronte di un vizio di gravità superiore, quale è la nullità392. In effetti, l’articolo 2388 cod. civ.

sembra esaurire tutte le ipotesi di vizi delle delibere consiliari, perciò tutti i vizi, sia di annullabilità che di nullità, sarebbero riconducibili a tale disciplina, limitativa sia sul piano della legittimazione che del termine. Anche questo dimostra la volontà del legislatore di assicurare la stabilità dei deliberati del consiglio di amministrazione; tale organo, infatti, gestisce la società e la sua attività ha, dunque, riflessi all’esterno nei rapporti negoziali con i terzi.

In conclusione, quindi, l’articolo 2388, comma 4 cod. civ. può essere annoverato tra i gruppi di norme che giocano in termini di rafforzamento della stabilità della società e dei suoi atti, sia perché circoscrive la legittimazione ad agire in capo a soggetti individuati e, con il limite della compatibilità, contempla altresì l’applicabilità delle norme relative all’annullamento, sia, ancora, perché opera una riduzione, pari a novanta giorni – la stessa di cui all’articolo 2377 cod. civ. -, dei termini concessi ai fini dell’impugnazione.

4. L’invalidità dei deliberati nella società a responsabilità

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