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La circoscritta legittimazione ad agire a fronte della delibera viziata.

Il principio di stabilità e l’invalidità dei deliberati.

2. Il principio di stabilità e l’invalidità delle delibere nella società per azioni.

2.1. La circoscritta legittimazione ad agire a fronte della delibera viziata.

Il primo gruppo di norme che gioca in termini di rafforzamento della stabilità è quello che variamente circoscrive la legittimazione ad agire innanzi a una deliberazione dell’assemblea viziata. Nell’ambito dell’annullabilità il nuovo testo dell’articolo 2377 cod. civ. indica la qualità di socio come elemento necessario – e, tuttavia, non sufficiente – ai fini della legittimazione all’impugnativa. La disposizione guarda, in particolare, ai soci assenti o che abbiano manifestato il proprio dissenso in assemblea e, aggiunge, altresì, il riferimento ai soci che si siano astenuti. L’astensione rileva, dunque, come un comportamento che legittima il socio all’impugnazione e dimostra che il legislatore della Riforma ha inteso proseguire l’opinione interpretativa maggioritaria, quella secondo cui la scelta di non votare già è sufficiente e ad essere esclusa deve essere, semmai, solo la legittimazione a proporre l’azione di annullamento per chi abbia concorso, con il proprio voto, all’assunzione della delibera invalida in assemblea.

Oltre ai singoli soci sono, poi, legittimati a impugnare anche gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il collegio sindacale, per espressa previsione dell’articolo 2377, comma 2 cod. civ. E deve osservarsi che esistono taluni casi, tassativamente previsti, in tema di partecipazioni rilevanti, di sindacati di voto e di blocco e di bilancio delle società quotate in cui la legittimazione ad agire spetta anche alla Consob, alla Banca d’Italia e all’Ivass.

Il terzo comma specifica, tuttavia, che la facoltà di proporre l’azione di annullamento contro una delibera invalida è riservata solo agli “aventi diritto di voto con riferimento alla delibera”. Una simile precisazione, di carattere restrittivo, acquista rilievo alla luce della nuova formulazione degli articoli 2351 e 2352 cod. civ.287. Invero, restano,

senza dubbio, esclusi dal novero dei legittimati tutti gli azionisti che

287 Così osservano: Lener, 82 e, ugualmente, AA. VV. [2], 551; Stagno

siano titolari di azioni istituzionalmente prive del diritto di voto (articolo 2351 cod. civ.). Le ipotesi di pegno, usufrutto o sequestro delle azioni appaiono, invece, di più difficile soluzione: l’articolo 2352 cod. civ., ultimo comma stabilisce, infatti, che, “salvo che dal titolo o dal provvedimento del giudice risulti diversamente, i diritti amministrativi diversi da quelli previsti nel presente articolo spettano, nel caso di pegno o di usufrutto, sia al socio sia al creditore pignoratizio o all'usufruttuario; nel caso di sequestro sono esercitati dal custode”. Tra i diritti esercitabili, che tale disposizione disciplina, rientra il diritto di voto, ma non il diritto d’impugnativa delle delibere assembleari viziate; eppure la dottrina288 ha ritenuto che anche al

socio titolare di azioni che attribuiscono il diritto di voto, ma privo del relativo esercizio - giacché l’azione è gravata da un vincolo -, possa riconoscersi il diritto d’impugnare la delibera invalida, in virtù del combinato disposto degli articoli 2377 e 2352, comma 6 cod. civ. Il testo novellato dell’articolo 2377 cod. civ. ha, poi, modificato la natura del diritto di proporre l’azione di annullamento, trasformandolo in un diritto che spetta ad una minoranza qualificata e non più ad ogni singolo socio in quanto tale289; si assiste, cioè, ad una

“degradazione del diritto all’impugnativa della deliberazione assembleare da diritto dell’azionista a diritto di una minoranza qualificata”290.

L’articolo 2377, comma 3 cod. civ. stabilisce, infatti, che sono legittimati a proporre la domanda di annullamento solo tanti soci che detengano - anche congiuntamente - un numero di azioni aventi diritto di voto, con riferimento alla deliberazione impugnata, almeno pari al cinque per cento del capitale sociale, se le società non fanno ricorso al capitale di rischio, ovvero all’uno per mille del capitale, nelle società che, al contrario, facciano ricorso al mercato del capitale di rischio. La dottrina osserva come tali pacchetti azionari siano, per la verità, “piuttosto consistenti, se la società non abbia dimensioni meramente

288 Lener, 82 e, ugualmente, AA. VV. [2], 551; Stagno D’Alcontres, 182-183. 289 In questo senso: Lener, 81; Pisani Massamormile, 58 s.s.; Stagno

D’Alcontres, 180.

«familiari» e, specie per quanto riguarda le società c.d. «aperte», tali da riferirsi sostanzialmente agli investitori istituzionali o comunque a minoranze organizzate”291. Del resto, la successiva previsione del

medesimo articolo 2377, comma 3 cod. civ., che dovrebbe temperare simili limiti al potere d’impugnativa, consentendo allo statuto di ridurre o, addirittura, escludere dette percentuali, appare, invece, priva di rilievo applicativo, giacché si rivela un’opzione di difficile realizzazione nella pratica292.

Si aggiunga, poi, la previsione di carattere processuale dell’articolo 2378, comma 2 cod. civ., secondo cui “il socio o i soci opponenti devono dimostrarsi possessori al tempo dell'impugnazione del numero delle azioni previsto dal terzo comma dell'articolo 2377”. Il legislatore precisa, quindi, che il possesso del pacchetto azionario minimo, necessario per promuovere l’annullamento, deve essere mantenuto per tutta la durata del processo, altrimenti il giudice può rigettare la domanda. Una tale previsione gioca, allora, - sia pure indirettamente - nei termini di una limitazione ancor più accentuata della legittimazione all’azione di annullamento. La dottrina293 osserva

che, ogni volta in cui il possesso del numero richiesto di azioni sia il frutto di accordi tra i piccoli azionisti, sarà arduo mantenerlo per lungo tempo, poiché le alleanze sono, in realtà, fragili e possono essere attaccate facilmente da chi intenda scardinarle. Ancora, si aggiunge294

che dalla lettera della norma si evince la possibilità di proporre l’eccezione di difetto di legittimazione attiva in ogni stato e grado del giudizio; il che genera altri e rilevanti impedimenti all’esperibilità dell’azione.

La scelta di rafforzare la stabilità delle delibere esigendo il requisito del possesso di una quota qualificata di capitale sociale per esercitare l’azione di annullamento si spiega guardandosi alla Relazione

291 Pisani Massamormile, 58.

292 In questo senso: Stagno D’Alcontres, 181; Sacchi [1], 138. 293 Pisani Massamormile, 58.

governativa al Decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6295. La

Relazione giustifica, infatti, una simile opzione individuando, in questa, un tentativo di “ovviare all’inconveniente, troppe volte manifestatosi nell’esperienza, di impugnative ispirate da intenti meramente ricattatori”.

Ma non è, poi, solo l’articolo 2377 cod. civ. a richiedere il possesso di una percentuale minima di azioni ai fini dell’impugnazione della delibera, giacché anche il nuovo testo dell’articolo 2434 bis cod. civ. si inquadra nella medesima prospettiva laddove, al secondo comma, accorda la legittimazione ad impugnare la deliberazione di approvazione del bilancio – sulla quale il soggetto incaricato della revisione legale abbia emesso un giudizio privo di rilievi - “a tanti soci che rappresentino almeno il cinque per cento del capitale sociale”. Vi è, però, una prima differenza tra la disposizione in commento e l’articolo 2377 cod. civ.: la prima esige, infatti, il possesso di una percentuale azionaria minima pari al cinque per cento del capitale sociale, la seconda, invece, precisa che il possesso del cinque per cento è limitato alle azioni che abbiano il diritto di voto con riferimento alla specifica deliberazione. Ebbene, autorevole dottrina296 ritiene di poter

spiegare una simile divergenza con la circostanza che, nel primo caso, i soggetti astrattamente legittimati all’impugnazione sono tutti i soci, inclusi quelli cui il diritto di voto, rispetto alla deliberazione che intendono impugnare, non sia stato riconosciuto. D’altra parte, la peculiarità dell’articolo 2434 bis cod. civ. è che la percentuale minima è richiesta anche per l’azione di nullità.

Il confronto con l’articolo 2377 cod. civ. pone, poi, un interrogativo: ci si chiede se – pur nel silenzio dell’articolo 2434 bis cod. civ. - la soglia minima richiesta ai fini dell’impugnazione possa essere ridotta o, addirittura, esclusa per opera dell’autonomia statutaria, applicandosi analogicamente la disciplina dell’annullamento della delibera assembleare. Per la verità, il tenore letterale dell’articolo 2434 bis cod.

295 Relazione governativa al D. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, testo disponibile su

https://www.tuttocamere.it/files/dirsoc/RDS_RELAZIONE_Cod_Civ.pdf.

civ. – che, appunto, nulla prevede a tal proposito – sembra escluderlo297. La dottrina298 giustifica la difformità tra le due

disposizioni ritenendo che l’intento legislativo sia stato quello di evitare che, nell’ambito dell’invalidità delle delibere che approvano il bilancio, l’autonomia privata potesse ampliare la propria legittimazione ad agire, giacché una simile tendenza avrebbe, senza dubbio, effetti più destabilizzanti di quelli che genera un’azione di annullamento per vizi procedurali. Ma, soprattutto, l’inderogabilità della soglia azionaria che integra la legittimazione a impugnare, di cui all’articolo 2434 bis cod. civ., si spiega guardandosi ad un’ulteriore differenza con il contenuto dell’articolo 2377 cod. civ.: la prima disposizione, prima ancora di richiedere il possesso azionario minimo ai fini dell’impugnativa, esige che sulla delibera di approvazione del bilancio il soggetto incaricato della revisione legale abbia emesso un giudizio privo di rilievi, che riduce sensibilmente la probabilità dell’esistenza di vizi del bilancio; un tale requisito è, invece, assente all’interno dell’articolo 2377, comma 2 cod. civ., che si limita a richiedere il solo integrarsi della soglia minima azionaria. Il possesso di una quota qualificata per esercitare l’azione di annullamento è, quindi, diretto a ridurre le impugnative per tutelare il generale interesse alla stabilità delle deliberazioni dell’assemblea e, per questa ragione, l’autonomia statutaria può eliminare una tale restrizione, dettata in funzione di una scelta di politica legislativa; non può, però, fare altrettanto quando esiste un presupposto – il rilascio di un giudizio di conformità alla legge del contenuto del bilancio -, che riduce le eventualità in cui la delibera possa dirsi invalida299.

Nell’ambito della nullità - come già si è avuto modo di osservare - la legittimazione ad agire resta in capo a chiunque vi abbia interesse, ai sensi dell’articolo 2379 cod. civ., che, quindi, mantiene un elemento

297 Contra Genovese [2], 244, che osserva come “per le altre società” - quindi

per quelle non quotate - la quota di capitale di cui all’articolo 2434 bis cod. civ. si dovrebbe, in ogni caso, ritenere riducibile da parte dello statuto sociale, secondo quanto previsto dall’articolo 2377, comma 2 cod. civ.

298 Colombo, 952; Strampelli, 2426. 299 In questo senso: Strampelli, 2426.

proprio della nullità contrattuale. Tuttavia, chi agisce per far valere la nullità della delibera assembleare deve dimostrare la sussistenza del proprio interesse ad impugnare, giacché la sola qualità di socio – svincolata da un interesse concreto – non è di per sé sufficiente300.

A sopravvivere e a porsi in linea di continuità con la prospettiva negoziale è anche la rilevabilità officiosa del vizio. Tuttavia, questo potere – ripercorrendo i rilievi sopra esposti – soffre notevoli limitazioni301, non solo di carattere temporale, ma relative anche al

principio processuale della domanda e della disponibilità delle prove. A tal proposito, si è, infatti, osservato che “il giudice è tenuto a rilevare d’ufficio la nullità soltanto nel caso in cui dalla validità dell’atto dipenda l’accoglimento o la reiezione della domanda proposta, mentre non potrebbe rilevare una causa diversa da quella dedotta dalle parti, qualora si controverta in ordine alla validità dell’atto, né rilevare d’ufficio la nullità, se questa non emerga dai fatti dedotti in giudizio dalle parti”302.

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