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Aruna Ramchandra Shanbaug v Union of India (2011) 4 SCC 454,

4. La giurisprudenza

4.4. Aruna Ramchandra Shanbaug v Union of India (2011) 4 SCC 454,

La Costituzione indiana garantisce il diritto alla vita di tutti i cittadini indiani. Nella fattispecie, la Corte suprema dell’India era stata adita in base all’art. 32 della Costituzione affinché permettesse la morte di Aruna Ramchandra Shanbaug, la quale, nel 1973, era stata stuprata da un collega; questi, durante l’atto, la aveva immobilizzata stringendole una catena intorno al collo, interrompendo così il flusso di sangue al cervello e provocando danni gravissimi ed irreparabili, soprattutto perché la donna era stata ritrovata priva di sensi solamente il giorno dopo. Da quel momento, la donna versava in uno stato vegetativo permanente ed era rimasta nelle cure dell’ospedale per cui lavorava sin da quel momento. La Shanbaug poteva consumare solamente cibi macinati e non era in grado di muovere gli arti; i medici concordavano nell’affermare che non vi era alcuna possibilità di miglioramento e che la paziente era del tutto dipendente dal personale dell’ospedale.

La signora Pinki Virani, attivista a favore dell’eutanasia, aveva intentato il ricorso giudiziario in base al meccanismo del c.d. next friend11, chiedendo che si

ingiungesse all’ospedale di interrompere l’alimentazione della Shanbaug e di permetterle di morire in pace. Per contro, l’ospedale e la Bombay Municipal Corporation avevano presentato un controricorso.

Nella propria giurisprudenza, la massima corte aveva espressamente negato che l’art. 21 della Costituzione ricomprendesse anche il diritto a morire, di talché non sembrava esservi, nella fattispecie, alcuna violazione di un diritto fondamentale che permettesse alla ricorrente di agire in giudizio ai sensi del suddetto articolo. Ciononostante, la Corte suprema ha riconosciuto la gravità della vicenda ed il pubblico interesse a che vi fosse una decisione circa la legalità dell’eutanasia nell’ordinamento indiano; pertanto, ha accettato di trattare il ricorso.

L’équipe medica convocata dalla Corte per risolvere le discrepanze tra i pareri degli esperti presentati dalle due parti aveva stabilito che la Shanbaug non era deceduta a livello cerebrale. Era evidente, a loro avviso, che esprimeva preferenze per determinate tipologie di musica ed alimenti, nonché disagio qualora ad esempio la sua stanza fosse molto affollata. Il personale medico addetto alle sue cure eseguiva bene i compiti necessari. Non era possibile stabilire, dalle modalità di comunicazione di cui disponeva la paziente, che aveva alcuna intenzione di porre fine alla sua vita. Inoltre, il personale medico era più che disposto a proseguire nelle cure. Pertanto, ad avviso dell’équipe di medici, l’eutanasia, nella specie, non era necessaria.

La Corte suprema indiana ha respinto la richiesta della Virani, stabilendo però delle linee guida da seguire nei casi di eutanasia passiva, effettuabile in talune circostanze.

La Corte ha stabilito che la questione, nel caso di specie, era se il diritto di vivere includesse il diritto di morire; e, in particolare, se fosse giuridicamente ammissibile accelerare il decorso della morte, senza sofferenza, nei casi di malattie o condizioni terminali e, se del caso, in quale momento e fino a che punto ciò fosse accettabile.

Essa ha dapprima sottolineato la difformità della giurisprudenza indiana12 al

riguardo (v. supra, parr. 4.2 e 4.3.), secondo cui nei casi in cui erano coinvolti

11 Trattasi di un istituto in base al quale un adulto dotato della necessaria capacità mentale agisce nel miglior interesse di un’altra persona che rappresenta, solitamente un individuo disabile, un minore o comunque un soggetto incapace di sostenere in proprio un procedimento giudiziario. Il next friend non deve necessariamente essere un familiare dell’individuo rappresentato.

12 State of Maharashtra v. Maruty Shripati Dubal, (1986) 88 BOMLR 589, del 25 settembre

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malati terminali o persone in stato vegetativo permanente, il diritto alla morte è da ritenersi un’accelerazione del processo di morte, già in corso. La Corte suprema indiana ha fatto riferimento a diversi ordinamenti stranieri, tra cui quelli britannico, statunitense, neerlandese e svizzero. Infine, ha deliberato che la Shanbaug non era morta cerebralmente, in base alla relazione dei periti nominati ed alla definizione di morte cerebrale vigente nell’ordinamento indiano: la donna era in grado di respirare senza alcun macchinario, provava emozioni e reagiva a sufficienza. Sebbene versasse in uno stato vegetativo permanente, la sua condizione era stabile. Porre fine alla sua vita era pertanto ingiustificabile.

Il diritto di decidere per conto della Shanbaug spettava all’ospedale che la aveva in cura e non alla signora Virani, alla luce del fatto che proprio l’ospedale la aveva trattata per oltre 30 anni; era pertanto l’ospedale il next friend della donna, e non la Virani. Nella specie, peraltro, il trattamento salvavita era la somministrazione di cibi macinati, di talché l’interruzione della cura a sostegno della vita avrebbe significato privarla del cibo, circostanza che non ritrovava alcun supporto nell’ordinamento indiano. Per i giudici, non era possibile equiparare l’interruzione dell’alimentazione allo spegnimento di un respiratore meccanico. Permettere l’eutanasia della donna avrebbe significato annullare tutti gli sforzi compiuti dal personale sanitario dell’ospedale negli ultimi 36 anni.

Inoltre, in osservanza del principio di parens patriae, la Corte, per evitare qualsiasi manipolazione, ha conferito alla Bombay High Court il potere di stabilire quando porre fine alla vita delle persone. In altri termini, la Corte suprema ha aperto alla possibilità di eseguire l’eutanasia passiva a determinate condizioni e comunque con l’avallo della High Court, ai sensi di una procedura ben precisa, che la massima corte ha proceduto a dettagliare.

Ogniqualvolta si esegua una richiesta di eutanasia passiva, il Chief Justice della

High Court deve costituire un collegio di almeno due giudici, i quali saranno stati

incaricati della decisione. Prima di giungere alla decisione, però, i giudici devono consultare una commissione di tre medici nominati dallo stesso collegio. Contestualmente alla nomina, il collegio deve notificarla allo Stato ed ai parenti prossimi del paziente o, in assenza di alcuna figura del genere, al next friend, fornendo una copia della relazione redatta dalla commissione medica non appena disponibile. Dopo aver svolto un’udienza con i parenti prossimi o con il next

friend, la High Court può procedere alla decisione.

La Corte suprema ha stabilito che questa procedura debba essere seguita in tutto il paese, in attesa dell’eventuale legiferazione sull’argomento da parte del Parlamento.

Con precipuo riferimento al caso di specie, non è stato concesso il permesso di porre fine alla vita della Shanbaug; qualora, però, in futuro, il personale dell’ospedale ritenesse che vi fosse il bisogno di una nuova considerazione del caso, avrebbe potuto inviare un’apposita richiesta alla High Court secondo le modalità sopraindicate.

La Corte ha dichiarato che, anche se la section 309 dell’Indian Penal Code è stata dichiarata costituzionale nel caso Gian Kaur (v. supra, par. 4.3.), il Parlamento dovrebbe intervenire per abrogarlo, in quanto ormai anacronistico: un individuo che si suicida soffre di depressione e necessita di aiuto, non di sanzione. L’eutanasia attiva è rimasta invece illecita, costituendo omicidio ai sensi delle

sections 302 e 304 dell’Indian Penal Code; lo stesso vale per il suicidio assistito,

ai sensi della section 306 del Code, la norma che criminalizza il favoreggiamento del suicidio.