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2. La sentenza della Corte suprema n 2015 CSC

2.2. Il processo a quo

Nel 2009, Gloria Taylor aveva scoperto di essere affetta di SLA. Un mese dopo avere ricevuto la diagnosi, le era stato comunicato che sarebbe stata paralizzata entro sei mesi e che le rimaneva, al massimo, un anno di vita. Nel 2012, la Taylor e l’Associazione per le libertà civili della Columbia-Britannica avevano deciso di contestare la costituzionalità delle disposizioni che, in maniera diretta o indiretta, vietavano l’aiuto al suicidio. Si trattava degli artt. 21, 22 e 222 del Codice criminale, che disciplinavano il concorso nel reato e il reato di omicidio, e, soprattutto, del paragrafo 241b) e dell’art. 14. Altri tre ricorrenti si erano uniti alla Taylor: il dott. William Schoichet, un medico disposto a dare un aiuto al suicidio nei casi appropriati, qualora la legge venisse ad essere modificata, Lee Carter e Hollis Johnson, rispettivamente la figlia ed il genero di Kay Carter, una donna affetta da una stenosi del canale rachideo lombare, malattia in grado di portare ad una perdita di mobilità ed a dolori crescenti senza toccare le funzioni cognitive. Quando Kay Carter aveva ritenuto che la sua situazione fosse diventata insopportabile, aveva chiesto a sua figlia ed al genero di aiutarla a recarsi in Svizzera per poter beneficiare di un aiuto al suicidio. Consapevoli del rischio di essere perseguiti, Lee Carter e Hollis Johnson avevano accettato di accompagnarla.

Rispetto al caso Rodriguez, dove la ricorrente asseriva che il divieto di aiuto al suicidio fosse contrario alla Charte, e dove l’espressione “aiuto al suicidio” era stata utilizzata durante tutto il processo, nel caso Carter i ricorrenti sostenevano che le disposizioni contestate violassero i diritti garantiti dalla Charte per il fatto di vietare il “ricorso all’aiuto del medico per morire”. A parere dei ricorrenti, il “ricorso all’aiuto del medico per morire” comprendeva sia “il suicidio commesso con l’aiuto del medico” che “il ricorso consensuale all’aiuto di un medico per morire”.

La differenza tra le due situazioni è, almeno in apparenza, molto flebile. Il suicidio commesso con l’aiuto del medico viene definito come un aiuto al suicidio, dove l’aiuto al paziente affetto da una malattia grave ed incurabile, per ottenere o somministrare una medicina o qualunque altro trattamento che provochi intenzionalmente il proprio decesso, è fornito dal medico o da una persona che

agisce sotto il controllo generale del medico, nell’ambito di una relazione tra il paziente ed il proprio medico. Il ricorso consensuale all’aiuto di un medico per morire, invece, è stato definito come la somministrazione, da parte di un medico o da una persona che agisca sotto il controllo di un medico, su richiesta di un paziente affetto da una malattia grave e incurabile, e nell’ambito di una relazione tra il paziente e il proprio medico, di una medicina o di qualunque altro trattamento che provochi intenzionalmente il decesso del paziente.

In altri termini, anche se la terminologia utilizzata era diversa, i ricorrenti sostenevano che il ricorso all’aiuto del medico per morire comprendesse sia il suicidio assistito, dove il paziente stesso effettua il gesto che causa la sua morte, che l’eutanasia (attiva o passiva), dove è il gesto del medico a causare la morte del richiedente aiuto.

I ricorrenti sostenevano, quindi, che il ricorso all’aiuto di un medico per morire avrebbe dovuto essere accessibile alle “persone affette di una malattia grave e incurabile”, definite come persone affette da gravi problemi di salute, diagnosticati da un medico, per i quali non vi sia alcun trattamento accettabile, e che causino sofferenze fisiche, psicologiche e psicosociali persistenti e insopportabili, non alleviabili da un trattamento medico accettabile.

– Il processo di primo grado

Nel processo di primo grado, il procuratore generale del Canada aveva sostenuto che il divieto assoluto dell’aiuto al suicidio fosse necessario per prevenire il rischio di decessi di persone incapaci, di persone che subiscano pressioni esterne (ovvero i decessi involontari), di persone che soffrono di malattie trattabili e di persone “perplesse” o “mal informate”, nonché i decessi delle popolazioni vulnerabili, tra cui le persone anziane e le persone handicappate. Il giudice, Lynn Smith, aveva concluso, invece, nel senso della violazione degli artt. 7 e 15 della Charte.

Per il principio dello stare decisis, una pietra angolare dell’ordinamento di

common law, il giudice era, almeno in teoria, legato alla giurisprudenza

precedente, ovvero la sentenza Rodriguez. Tuttavia, il giudice Smith aveva considerato che tale precedente non impedisse di decidere in favore dei ricorrenti, fondandosi sul criterio giuridico applicato per determinare se ci fosse stata una violazione dei diritti garantiti dall’art. 7 della Charte. Si trattava, in effetti, di determinare se vi fosse una violazione del diritto alla vita, alla libertà o alla sicurezza della persona e, in un secondo tempo, qualora la violazione fosse stata constatata, di determinare se fosse contraria ai principi fondamentali di giustizia.

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Il giudice aveva respinto l’inclusione delle sofferenze psicosociali ed aveva stabilito che l’espressione “persone affette di una malattia grave e incurabile” dovesse applicarsi solamente alle persone la cui situazione medica si caratterizzasse anche da una perdita avanzata delle proprie capacità, senza prospettiva di miglioramento. Era stata respinta anche la richiesta dei ricorrenti secondo la quale l’aiuto di un medico per morire dovesse includere la possibilità di richiedere l’aiuto di persone diverse dai medici.

Per quanto riguarda la violazione dell’art. 7, il giudice Smith aveva stabilito che, quando la Corte suprema si era pronunciata sul tema nel caso Rodriguez, si era focalizzata solo sul diritto alla libertà ed alla sicurezza della persona e non sul diritto alla vita della Rodriguez. Aveva poi ricordato che la Cour non si era pronunciata sulla violazione dell’art. 15. A parere del giudice Smith, il divieto di aiuto al suicidio era invalido nella misura in cui violava i diritti garantiti ad una popolazione, definiti sia dall’art. 7 che dall’art. 15 della Charte. Il giudice aveva così stabilito che il divieto di aiuto al suicidio fosse inoperante, nella misura in cui vietava il suicidio commesso con l’aiuto di un medico, nell’ambito di una relazione tra il paziente ed il proprio medico, e nella misura in cui il paziente fosse un adulto ben informato, non “perplesso” e capace: (a) non sottoposto ad alcun tipo di coercizione o di influenza non dovuta, non sofferente di depressione clinica e richiedente l’aiuto del medico per morire personalmente (e non mediante un mandatario); (b) affetto da una deficienza fisica importante (o destinato ad esserlo in breve tempo), che avesse ricevuto da un medico una diagnosi della malattia o dell’handicap grave e che si fosse trovato in uno stato di un indebolimento avanzato delle proprie capacità, senza prospettive di miglioramento, e che soffrisse di una malattia per la quale non vi era alcun trattamento accettabile, che causasse sofferenze fisiche o psicologiche persistenti, intollerabili e impossibili da alleviare con un trattamento medico da considerarsi accettabile.

La declaratoria è stata sospesa per dodici mesi, assecondando la richiesta del Procuratore generale del Canada, il quale affermava che questo fosse il termine minimo per lasciare il tempo al Parlamento per esaminare la questione ed adottare nuove misure legislative.

Tale sospensione non avrebbe, però, permesso alla Taylor di ricorrere legalmente all’aiuto di un medico per morire prima che il termine fosse scaduto. Era stata, quindi, concessa una c.d. exemption constitutionnelle che esentava la ricorrente dall’essere sottoposta alla normativa ancora in vigore. La signora era però deceduta in seguito a una infezione nell’ottobre 2012.

– La sentenza di secondo grado

Il Governo del Canada e quello della Columbia-Britannica avevano interposto appello. Con una sentenza resa a maggioranza (da due giudici contro uno), il 10 ottobre 2013, la Cour d’appel della Columbia-Britannica aveva riformato la decisione di primo grado. La maggioranza non aveva esaminato in maniera approfondita la fondatezza delle richieste di natura costituzionale, ma aveva focalizzato l’attenzione sul principio dello stare decisis. Al riguardo, aveva stabilito che il giudice di primo grado era tenuto a concludere nello stesso senso della sentenza sul caso Rodriguez, poiché soltanto la Cour suprême avrebbe potuto discostarvisi, revocando in dubbio la costituzionalità della normativa allora dichiarata conforme a Costituzione.