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La decisione della Corte suprema

2. La sentenza della Corte suprema n 2015 CSC

2.2. La decisione della Corte suprema

In data 15 ottobre 2014, la Cour è stata chiamata a esaminare la c.d. affaire

Carter. La sentenza è stata resa il 6 febbraio 2015. Sui nove giudici presenti

all’udienza, solo la juge en chef Beverly McLachlin era giudice della Corte al momento della sentenza Rodriguez. Aveva allora scritto una delle tre opinioni dissenzienti (concludendo per la violazione ingiustificata, da parte del paragrafo 241b) del c.c., dell’art. 7 della Charte).

La Corte ha rifiutato di pronunciarsi sugli artt. 21, 22 o 222 del c.c., di disciplina del concorso nel reato e il reato di omicidio, giacché essi si applicano solo nel caso in cui la condotta consistente nell’aiutare qualcuno a darsi la morte costituisca in sé un atto illecito. Ha quindi esaminato la validità del par. 241b) e dell’art. 14 del c.c.

In primis, contrariamente alla Cour d’appel, la Corte suprema ha stabilito che il

giudice di primo grado non era vincolato dall’arrêt Rodriguez9.

Entrando nel merito, la Cour ha stabilito che le disposizioni contestate violavano l’art. 7 della Charte. Ha considerato che il diritto alla vita entra in gioco qualora una legge adottata dallo Stato abbia direttamente o indirettamente come effetto quello di imporre la morte ad una persona o di esporla ad un serio rischio di morte (par. 62). Avendo giudicato che il divieto di aiuto al suicidio può condurre alcune persone a darsi la morte in maniera prematura quando ne sono ancora capaci, la Corte ha concluso che tale divieto violava il diritto alla vita.

Successivamente, la Cour suprême ha analizzato la questione della violazione dei diritti alla libertà ed alla sicurezza delle persone. Al riguardo, ha stabilito che

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il diritto alla libertà protegge il diritto di fare delle scelte personali fondamentali, senza l’intervento dello Stato, mentre il diritto alla sicurezza della persona si sostanzia in una nozione di autonomia personale, che comprende il controllo dell’integrità della propria persona, senza alcun intervento statale, ed è messo in pericolo dalla violazione dell’integrità fisica o psicologica di una persona da parte di tutte le misure adottate dallo Stato che causino sofferenze fisiche o gravi sofferenze psicologiche (par. 64). La Cour suprême ha, quindi, considerato che il divieto di ricorrere ad un medico per morire priva le persone affette da gravi problemi di salute della possibilità di prendere decisioni relative alla loro integrità corporea ed alle cure mediche, violando, quindi, la loro libertà. Ha proseguito affermando che, lasciando persone come la signora Taylor subire sofferenze insopportabili, il divieto di ricorrere all’aiuto del medico per morire violava la sicurezza della loro persona (par. 66).

Dopo aver constatato che tutti i diritti sanciti dall’art. 7 della Carta erano in gioco, la Cour ha proseguito il suo esame per determinare se la violazione di tali disposizioni fosse conforme ai principi fondamentali di giustizia. Non esiste alcun elenco esaustivo di tali principi, ma, in primo grado, il giudice aveva menzionato il principio della portata eccessiva e della natura totalmente sproporzionata come elementi venuti meno nella sentenza Rodriguez. La Corte ha ricordato che si può considerare che una legge abbia una portata eccessiva quando nega i diritti in maniera generalmente favorevole alla realizzazione del suo oggetto, ma “va troppo lontano” nel negare i diritti di alcune persone in una maniera che non abbia alcun rapporto con l’obiettivo della legge (par. 85). Dopo avere sottolineato che l’oggetto del divieto era quello di impedire che le persone vulnerabili fossero incitate a suicidarsi in un momento di debolezza (par. 78), ha stabilito che tale divieto aveva una portata eccessiva, in quanto impediva, non solo alle persone vulnerabili di suicidarsi, ma anche a tutte quelle persone che, come la signora Taylor, sono capaci, ben informate e libere da ogni tipo di coercizione o costrizione.

I giudici hanno infine considerato che la violazione dell’art. 7 non costituiva una violazione minima, il che significava che l’obiettivo ricercato dal paragrafo 241b) avrebbe potuto essere raggiunto, in larga misura, senza prevedere un divieto generale, ma consentendo, di fatto, ad alcuni soggetti di ricorrere all’aiuto di un medico per morire. Nello specifico, la Cour ha ricordato che la prova presentata in prima istanza indicava che un regime permissivo che comportasse garanzie adeguatamente concepite ed applicate poteva proteggere le persone vulnerabili contro gli abusi e gli errori (par. 105). Infine, avendo concluso per la violazione

dell’art. 7, i giudici hanno precisato che non vi era bisogno di esaminare se sussistesse una violazione dell’art. 15.

La Corte ha, quindi, dichiarato che il paragrafo 241b) e l’art. 14 del c.c. nulli, nella parte in cui vietavano l’aiuto del medico per morire alle persone adulte, capaci, che intendevano chiaramente mettere fine ai propri giorni e che erano affette da problemi di salute gravi e incurabili (…) che causassero loro sofferenze persistenti e insopportabili” (par. 127).

Di fronte alle preoccupazioni espresse da alcune parti intervenute nel giudizio, in merito alla possibile violazione della libertà di coscienza e di religione dei medici, protetto dal paragrafo 2a) della Carta, nel caso in cui dovessero essere forzati ad aiutare qualcuno a morire, la Cour ha precisato che nulla, nella dichiarazione di incostituzionalità, costringeva i medici ad aiutare un paziente a morire, sottolineando, altresì, la necessità di conciliare i diritti garantiti dalla

Charte ai pazienti e ai medici. Infine, ha sospeso per dodici mesi (quindi, fino al 6

febbraio 2016) gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, al fine di dare ai governi federale e provinciali il tempo di adottare le misure legislative necessarie.

In data 15 gennaio 2016, la medesima Corte ha accettato la richiesta di proroga della sospensione per altri quattro mesi: entro il 6 giugno 2016, i governi dovevano adottare le misure necessarie per attuare la decisione della Cour.

3. Il seguito alla decisione Carter c. Canada: l’adozione