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Common Cause (A Regd Society) v Union of India & Anr.,

4. La giurisprudenza

4.5. Common Cause (A Regd Society) v Union of India & Anr.,

Anr., Writ Petition (C) No. 215 del 2005, del 9 marzo 2018

La Corte suprema indiana ha riconosciuto la legittimità dell’eutanasia passiva e del testamento biologico, sull’assunto che il diritto ad una morte dignitosa è un diritto fondamentale riconosciuto dall’ordinamento indiano.

La parte ricorrente, una società, aveva depositato presso la Corte suprema una richiesta ai sensi dell’art. 32 della Costituzione. In particolare, la richiesta era volta ad ottenere: (1) una dichiarazione che il diritto a morire con dignità è un diritto fondamentale che rientra nel diritto a vivere con dignità garantito dall’art. 21 della Costituzione; (2) l’emissione di indicazioni nei confronti delle parti convenute, affinché adottassero una procedura adeguata, previa consultazione con gli Esecutivi statali, là dove necessario; (3) l’assicurazione che le persone in cattivo stato di salute o che soffrissero di malattie terminali fossero in grado di eseguire un testamento biologico che potesse essere sottoposto alla struttura sanitaria competente, affinché quest’ultima potesse intraprendere le azioni opportune nel caso in cui il testatore fosse ammesso all’ospedale in condizioni tanto gravi da poter comportare la fine della vita del paziente; (4) la nomina di una commissione di esperti che includesse medici, studiosi delle scienze sociali ed avvocati, incaricata dello studio dell’emissione di linee guida circa il testamento biologico; e (5) la predisposizione delle altre indicazioni o linee guida che fossero necessarie.

Le parti convenute argomentavano che il diritto alla vita non includeva anche il diritto alla morte. Inoltre, il diritto ad una vita dignitosa sancito dall’art. 21 della

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Costituzione riguardava la disponibilità di alimentazione, alloggio e salute, e non il diritto a morire con dignità. La principale responsabilità dello Stato era quella di salvaguardare la vita dei cittadini, di talché era necessario prestare le cure sanitarie.

La Corte suprema ha stabilito che una morte dignitosa è una componente di un’esistenza significativa. Ha rammentato che la questione giuridica non era da determinarsi esclusivamente entro il quadro del diritto. Erano infatti rilevanti anche i valori sociali e familiari, nel compiere una decisione in questo contesto, decisione che avrebbe in ultima analisi influito su tutta la comunità intorno al malato. In particolare, la questione essenziale davanti alla Corte suprema era se il diritto permettesse l’accelerazione del processo di morte senza sofferenza, quando la vita del paziente fosse inevitabilmente in declino; in caso affermativo, si trattava di determinare lo stadio e la misura in cui l’intervento fosse possibile.

Una analisi comparatistica dei diritti dei pazienti terminali sanciti a livello legislativo e giurisprudenziale ha indicato che tutti gli adulti dotati della capacità di prestare valido consenso hanno il diritto di rifiutare i trattamenti medici, nonché quello all’autodeterminazione. I medici sono vincolati dalla scelta autonoma del paziente, a condizione che ritengano incurabile la malattia del paziente e non vi sia alcuna possibilità di guarigione. Nessun’altra considerazione può dirsi nel migliore interesse del malato. Il principio della necessità od emergenza del trattamento può essere attuato solamente quando non è possibile ottenere il consenso del paziente la cui vita è in pericolo; tuttavia, nei casi in cui il paziente abbia già formulato direttive anticipate di trattamento che precisano che non desidera ricevere determinati tipi di cura e non sussistono ragionevoli dubbi circa la legittimità del documento, le volontà del paziente ivi espresse devono essere rispettate. Le persone possono decidere di non ricevere terapie salvavita, redigendo un testamento biologico quando sono in salute e dotate della necessaria capacità mentale.

La Corte ha ricordato che l’eutanasia passiva comporta, essenzialmente, l’assenza di alcun atto da parte del paziente, dei suoi prossimi congiunti o dei medici. Si tratta, invece, di evitare che si compiano intrusioni non necessarie nel corpo di una persona, poiché la non-azione è tesa a favorire una dipartita serena. È pertanto intrinsecamente diversa dall’eutanasia attiva, la quale necessita di un atto positivo. È fondamentale che l’individuo sia in grado di tutelare la propria dignità alla stregua di un elemento inseparabile dal diritto alla vita e che includa un processo di morte dignitoso ed indolore. A differenza di quanto stabilito nella sentenza Shanbaug (v. supra, par. 4.4.), non è necessario l’intervento

parlamentare affinché si possa legittimare l’eutanasia passiva nell’ordinamento indiano.

Il diritto alla vita sancito dall’art. 21 della Costituzione è privo di significato, se non ricomprende la dignità individuale. È un elemento del diritto ad una vita dignitosa, che include a sua volta anche la facilitazione del processo di morte nel caso di un malato terminale o di individuo in stato vegetativo permanente senza possibilità di guarigione. Il mancato riconoscimento del testamento biologico o delle direttive anticipate di trattamento potrebbe tradursi in un ostacolo all’esercizio di questi diritti, peraltro riconosciuti in molti altri ordinamenti.

Il principio della sacralità della vita deve essere osservato; tuttavia, nel caso di malati terminali o in stato vegetativo permanente, è necessario accordare la precedenza alle direttive anticipate ed al diritto all’autodeterminazione del singolo.

LUSSEMBURGO

di Céline Torrisi

1. Introduzione

La disciplina sul fine-vita lussemburghese contempla, allo stato attuale, il diritto all’autodeterminazione del paziente, che si sostanzia nel diritto all’interruzione delle cure, sancito dalla legge del 28 agosto 19981, e nel diritto

all’eutanasia ed al suicidio assistito, sancito dalla legge del 16 marzo 20092.

Gli autori della proposta di legge sull’eutanasia si erano posti il problema del conflitto tra il diritto all’autodeterminazione dei pazienti ed il diritto alla vita, sancito dall’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti, Convenzione EDU) e dall’art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (d’ora in avanti, PIDCP). Al riguardo, i deputati lussemburghesi avevano sottolineato che il problema era già stato esaminato dal Conseil d’État belga quando fu adito dal Senato in merito alla proposta di legge sull’eutanasia e sull’assistenza al suicidio3 ed avevano fatto proprio il ragionamento sviluppato nel

parere dell’alta autorità amministrativa.

In sostanza, le disposizioni della legge sull’eutanasia lussemburghese riprendono, quasi passo per passo, quelle della legge belga del 28 maggio 20024.

Tuttavia, contrariamente al legislatore del paese confinante, quello lussemburghese ha scelto di disciplinare anche il suicidio medicalmente assistito e non ha legalizzato tali pratiche per i minori. Sia l’eutanasia che il suicidio medicalmente assistito sono vietati qualora il paziente non sia maggiorenne. L’altra differenza con il Belgio è l’introduzione, nel codice penale, di un articolo specifico, l’art. 397-1, che stabilisce la non perseguibilità delle pratiche di eutanasia o di suicidio assistito che rispettino le condizioni stabilite dalla legge del 2009.

1 La legge è reperibile on line alla pagina

http://legilux.public.lu/eli/etat/leg/loi/1998/08/28/n1/jo.

2 La legge è reperibile on line alla pagina

http://legilux.public.lu/eli/etat/leg/loi/2009/03/16/n2/jo. 3 Si rimanda al contributo del presente dossier sul Belgio.

4 Legge n. C-2002/09590 del 28 maggio 2002 sull’eutanasia, reperibile on line alla pagina

https://www.health.belgium.be/sites/default/files/uploads/fields/fpshealth_theme_file/loi20020528 mb_frnl.pdf.

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Anche se l’adozione della legge sull’eutanasia ha suscitato notevoli conflitti istituzionali5 (v. infra, par. 3.1), devesi sottolineare che, da un punto di vista

giuridico, la depenalizzazione, in maniera condizionata, sia dell’eutanasia che del suicidio assistito, ha limitato l’insorgere di complesse problematiche di qualificazione giuridica delle condotte legate al fine-vita. In effetti, qualunque condotta che non rientri nelle disposizioni di legge può essere qualificata “automaticamente” come omicidio colposo (art. 418 c. p.), omicidio doloso (art. 392 c.p.) o avvelenamento (art. 397 c.p.).

2. La normativa sulle cure palliative e sull’interruzione