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Attesi ed accolti tra luoghi amici

II.3 Sinottica dei valori di una sensibilità in divenire

III.1.4 Attesi ed accolti tra luoghi amici

Orientarsi nello spazio urbano, costruirsi nuove mappe, costruirsi delle reti di interazione, sentire che un luogo, una città ci appartiene sono risvolti differenti di un processo lungo e complesso che dipende da molteplici variabili e non è mai dato per sempre. È un processo che caratterizza tutta la vita e che porta, da punti di partenza più o meno avvantaggiati o svantaggiati, a moltiplicare i luoghi in cui “si sta bene”.

Ma di quale natura è costituito un luogo nel quale ci sentiamo bene, a nostro agio?

La dimensione misteriosa. La prima considerazione nasce da una banale quanto sconcertante considerazione. “Ci sono dei luoghi, degli ambienti, delle città che indossiamo con più agio di altri. Capita di passeggiare in una città sconosciuta e di sentire che calza bene, che ci invita ad esplorarla, che i passaggi che offre fanno affiorare una consonanza, dei sentimenti di adeguatezza. Ci sentiamo adeguati a quei luoghi ed essi a noi. La psicologia ambientale ha speso pagine e pagine su questo fenomeno e sul suo contrario, il disagio di trovarsi in un ambiente che non ispira, che va stretto o ci deprime, è indifferente o angoscioso come un abito troppo largo in cui si incespica” (La Cecla, 2005, p. 88). In alcuni luoghi ci troviamo a nostro agio, torniamo volentieri ma questa esperienza ha a che fare con il misterioso incontro tra la nostra personale condizione, il nostro umore, carattere e alcune caratteristiche dei luoghi. “Se a volte un edificio seducente ci mette di buon umore, ci sono invece momenti in cui nemmeno il luogo più ameno sarà in grado di sfrattare la nostra tristezza o la nostra misantropia. Possiamo provare ansia e invidia anche se il pavimento che calpestiamo è importato da una cava remota e anche se gli infissi delle finestre sono finemente scolpiti e dipinti con una tonalità di grigio rassicurante. Può darsi che gli sforzi di chi ha costruito una fontana o piantato una fila di querce equidistanti non facciano oscillare il nostro metronomo interiore.

Possiamo lasciarci trascinare in discussioni meschine che sfociano in minacce di divorzio anche in un edificio di Geoffrey Bawa o di Louis Kahn” (de Botton, 2006, p.15).

Certamente le parole di de Botton ci aiutano, in via preliminare, a fugare ogni dubbio sul fatto che alcune caratteristiche di spazi e luoghi di vita possano essere in qualche modo la fonte certa del nostro benessere. E allora sarà necessario rivolgere altrove la nostra ricerca, “lo spazio è denso di significati quando le sue componenti (vuoti, pieni, insieme, dettagli) sostanziano un sistema di forme che interagiscono non solo tra loro, ma anche con l’identità di chi nello spazio coesiste, usa ed esperisce: con le sue concatenate emozioni” (De Carlo, 1990).

Muoversi tra spazi amici. “Smarrirsi è un’esperienza sempre latente.

Passiamo gran parte del nostro tempo a conquistare, determinare, riconfermare le boe intorno alle quali muoverci, i punti di riferimento che determinano noi stessi come individui ambientati, capaci di non disperare nel tragitto incognito tra un luogo e un altro luogo amico. Il rovesciamento di questa latenza, anzi l’uso di questa sensazione di

pericolo possibile e imminente è il senso dell’avventura, la ‘conquista dello spazio’ cioè di nuovi spazi per i nostri movimenti, di nuovi amici, di nuovi luoghi, l’ampliamento della nostra mappa mentale” (La Cecla, 2005, p. 16/17).

Il nostro abitare una città comprende la possibilità di transitare da un interno ad un esterno senza essere sopraffatti dallo spaesamento e dal timore, di potere avere una rete di punti di riferimento, luoghi, amicizie, spazi di incontro che consentano questo movimento itinerante tra luoghi nei quali si è attesi (la casa) e luoghi dove si è accolti (la casa di amici, la scuola, l’oratorio, il centro ricreativo, il parco). Spesso nel paese d’origine questa possibilità è data dalle circostanze, dalla rete dei familiari, degli amici di famiglia; nel posto piccolo hai l’approdo assicurato oppure ce l’hai dove sei molto radicato (rete amicale e parentale, una città con funzioni chiare). Spesso l’esperienza dei ragazzi immigrati a Torino presenta il rischio di avere solo un interno, nel quale rifugiarsi e un esterno anonimo. Allora soprattutto per le seconde generazioni questo diviene un problema rilevante. La prima generazione può non averne esigenza, stretta tra i ritmi del lavoro, i vincoli di eventuali comunità o di condizionamenti culturali del paese di provenienza. La seconda ha già reciso dei legami e quindi è sempre più protratta “verso” l’esterno, verso il futuro.

Alexandra proviene dalla Romania, dove viveva nella stessa città con tutta la sua famiglia allargata, i nonni, gli zii, i cugini. Le sue parole descrivono molto bene la desolazione di trovarsi un ambiente anonimo, privo di punti di riferimento, punti “affettivi”, ambiti in cui ritrovarsi nella naturalezza della rete parentale. “E lì vivevano tutti i tuoi parenti? Sì lì avevo tutti i miei amici e la mia famiglia. Mi sono ritrovata qui e non c’era nessuno. A volte qui sentivo gli altri che dicevano ‘vado a mangiare dalla mia nonna’. E io pensavo ‘magari potessi andare io’”

(ragazza rumena di 19 anni, nata a Suceava, in Italia dal 2003).

Processi di appropriazione dello spazio. Non abitiamo mai bene quelle case troppo perfette, abbiamo bisogno di spostare un mobile, un quadro ci appare troppo alto, la luce troppo fioca, ci accorgiamo che il tavolo scelto quadrato sarebbe stato meglio tondo. La piazza progettata per ospitare la socialità di un quartiere di edilizia popolare un po’ anonimo resta disattesa… resta deserta. Inspiegabilmente quel piccolo giardino in mezzo alle case è attraversato lungo il giorno da molte popolazioni,

le mamme con i bambini, poi i ragazzi e in altri orari gli anziani. Gli spazi, così come le intenzioni e i comportamenti delle persone non possono essere “interamente” piegati ad un uso dalla progettazione di qualcuno. Spesso sono stravolti nel loro uso originario, reinventati dalle pratiche, sovvertiti dalle abitudini.

Ha poco da dirci, allora, il disegno di una piazza, se non abbiamo fatto esperienza del modi in cui viene praticata, utilizzata, mal interpretata.

Ci interessa avvicinarci ai luoghi se troviamo il modo di comprendere le pratiche che li attraversano. Le pratiche che avvengono nello spazio restano impregnate dei loro luoghi. L’esperienza che avviene entro uno spazio se lo porta via, in qualche modo, cucito addosso. Ci interessano i luoghi, in quanto siamo interessati alle esperienze che le persone fanno dentro quegli spazi e alle relazioni tra loro che si vengono a creare (di reciprocità, di distanza, di sospetto, di amicizia). Questa appropriazione degli spazi vale ancora di più per i ragazzi: ritrovarsi al muretto, appoggiarsi alle macchine di una strada, andare al giardinetto, sono piccole e quotidiane pratiche di appropriazione dello spazio, che spesso ne scardinano le regole, sono modi d’uso “trasgressivi” (Goffman, 1969).

È l’esperienza che ben descrive Giovanni Ferraro nel suo Il libro dei luoghi:

“Luoghi per scrivere. Riti innocui e ridicoli della scrittura. Il quaderno comprato apposta, la penna consacrata a quell’unico compito, la luce giusta. E invece si finisce come quelli che scrivono nei caffé, incrociando la loro scrittura obliqua su strisce interminabili di carta straccia, che poi ripongono con cura nelle borse di plastica sfondate:

articoli di vecchi quotidiani diligentemente copiati, poesie inarrivabili che bruceranno per scaldarsi, la notte. Scrivono senza curarsi di chi li osserva da lontano. Anch’io tormento di geroglifici il tovagliolo di carta.

Mi accorgo che scrivo altrettanto volentieri sul mio bel tavolo antico e nella sala d’attesa del mio medico, o sulla spiaggia bruciata dal sole.

Non si scrive mai quando se ne ha il tempo o l’occasione. Si scrive in piedi tra un’ora e l’altra, tra un libro e l’altro. Forse per questo si scrive così bene in treno. Sono scritture tremolanti, difficili da decifrare, dopo, grumi di idee in corsa. Luoghi per scrivere. Ricordiamo i luoghi della lettura. Al contrario non c’è luogo per scrivere: tutti non luoghi, passaggi incrociati da estranei. Treni, caffé. Luoghi dove non si esista, dove esista solo la penna che avanza tremolando sulla carta. (…) Eppure anche le cose che scriviamo restano impregnate dei loro luoghi”

(Ferraro, 2001).

Spazi interculturali. Infine, abbiamo bisogno di spazi plurali, all’interno dei quali poterci sentire accolti nei nostri molti modi di essere, nelle nostre molteplici appartenenze e identità. E questa valenza plurale è quanto mai importante per queste seconde generazioni che vivono come connaturata l’essere in bilico tra mondi diversi, tra città diverse, tra lingue, modelli educativi e culturali diversi. E questa valenza plurale è quanto mai importante per le seconde generazioni di stranieri che vivono come connaturata l’essere in bilico tra mondi diversi, tra città diverse, tra lingue, modelli educativi e culturali diversi.

“Imparare a stare in questo processo sempre aperto e, forse, inconcluso, sempre, è imparare a stare nell’instabilità e nella migranza, è vivere-nella-ricerca. (…) In tale processo formativo si è migranti rispetto a se stessi e rispetto al mondo. Si è migranti in quanto l’oltre è già in noi come possibile, in quanto la differenza entra in noi come risorsa, in quanto lo ‘stare nell’aperto’ è la radiografia del nostro stato d’animo e della nostra mente”(Cambi, 2006 p. 42-43). Vivere la differenza dentro di sé è un’esperienza comune a tutti gli individui ma per cui i ragazzi di seconda generazione possono presentare una particolare attitudine, a motivo della loro origine cosmopolita e a motivo dell’urgenza di costruirsi un’identità complessa, come sostiene Langer: “consentire e favorire, invece, una nozione pratica più flessibile e meno esclusiva dell’appartenenza e permettere quindi una certa osmosi tra comunità diverse e riferimento plurimo da parte di soggetti ‘di confine’ favorisce l’esistenza di ‘zone grigie’, a bassa definizione e disciplina etnica e quindi di più libero scambio, di inter-comunicazione, di inter-azione”

(Langer, 2005, p. 299).

L’interazione tra differenti appartenenze culturali, tra identità molteplici può essere favorita da ambiti urbani contraddistinti da mescolanza e possibilità di “approssimazione” (Cassano, 2003) tra diversi. Questa possibilità dipende dal fatto che la città sia luogo abitabile, dove poter transitare da un interno ad un esterno senza essere sopraffatti dallo spaesamento e dal timore, dove contare su una rete di punti di riferimento, luoghi, amicizie, spazi di incontro che consentano questo movimento itinerante tra luoghi nei quali si è attesi (la casa) e luoghi dove si è accolti (la casa di amici, la scuola, l’oratorio, il centro ricreativo, il parco).

Pensiamo a quanti ragazzi stranieri rimangono chiusi nelle loro case per paura o per mancanza di alternative alla solitudine. Questa possibilità dipende dal fatto che la città consente una pluralità di appartenenze e modi di essere, ci consenta di sapere chi siamo anche quando ne siamo lontani. “Che cosa è una città? E Firenze? Firenze che cosa rappresenta nell’immaginario di uno che ne è fuggito ragazzo, pur tenendola in petto come faro d’orientamento, termine di paragone anche per gustare tutto

‘l’altro’? E tu dove hai la tua stella? In quale memoria trovi il tuo orientamento? Dove è la tua sicurezza? A quale immagine di città ricorri quando vuoi sapere chi sei? Quando vuoi trovare la forza di sentirti diversa dal montare della marea altrui? Il vantaggio di noi europei è almeno quello di avere ancora delle città in cui riconoscersi, in cui non tutti i punti di riferimento sono cambiati, in cui si può ancora voltare l’angolo e sapere che ci si para dinanzi una chiesa o una colonna, un albero o il portone, sempre dello stesso colore, di una vecchia casa. A Macao non c’è neppure più il mare a rassicurarmi col suo monotono respiro delle onde contro il muro di pietre sotto i grandi alberi. Anche il mare è stato portato via” (Terzani, 2007, p. 28).

III.2 Attraversare

In una città si fanno incontri, la città si incontra.

Ma non è l’incontro di qualcuno, di un’unità individuata e ben delineata:

si tratta piuttosto di un attraversamento, con impressioni e brancolamenti, esitazioni e approssimazioni

Jean-Luc Nancy, La città lontana Il tempo della crescita è scandito da attraversamenti. Se nati in un altro paese i ragazzi hanno vissuto l’esperienza del viaggio che ha sovvertito la loro vita e si è impresso indelebile nella memoria. Se nati in Italia hanno accumulato nel ricordo gesti, parole, contesti che hanno costruito socialmente la loro diversità ed estraneità, magari sulla base dei loro tratti somatici, o dell’inflessione linguistica, o dell’appartenenza religiosa. In entrambi i casi, questa esperienza dell’attraversamento permane a connotare la quotidianità: ogni giorno sono chiamati a varcare soglie, ad adattarsi a sempre nuove cornici entro le quali vigono regole e lingue diverse ed essi, crescendo, si attrezzano per comprenderle e utilizzarle diversamente nei vari contesti.