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Verso una città che aiuta a crescere

II.3 Sinottica dei valori di una sensibilità in divenire

III.3.3 Verso una città che aiuta a crescere

La città - ogni città - vive “dell’invenzione continua di nuovi orizzonti di vita dei suoi abitanti” (Paba, 2001, p. 32) e questa continua invenzione si sedimenta e si rende visibile negli spazi urbani. La connotazione etnica degli spazi, naturalmente, suscita rimandi molto diversi nella sensibilità dei padri e in quella dei figli. La generazione dei padri (e delle madri) ha esigenze di radicamento, non fa economie di risorse, le usa senza risparmio, anche la propria differenza culturale può divenire una risorsa da utilizzare per sopravvivere.

Un progetto migratorio orientato a rimanere nel paese di immigrazione, conduce ad adottare una serie di scelte che vanno nella direzione del radicamento; con una doppia valenza di questo termine. L'espressione radicamento descrive, da un lato, l’atto di localizzarsi da parte di un gruppo sociale in un luogo che offra alcune opportunità insediative ed allude a tutte quelle scelte che comportano un certo grado di stabilità in un luogo, come quella, ad esempio, di ricostituire “lo spazio” dei legami familiari; il termine radicamento, in secondo luogo, allude a tutti quei processi che, a partire da tale insediamento, si innescano

localmente, creando un percorso evolutivo diverso per la città (Granata, 2003): nascita di economie etniche locali, moltiplicazione di servizi di supporto ai gruppi immigrati, apertura di luoghi di culto o centri culturali.

In questa prima fase anche l’accentuazione di caratteri etnici è funzionale al proprio radicamento: l’apertura di un ristorante etnico, ad esempio, è resa possibile dalla presenza di reti familiari di supporto, da una comunità; il ristorante è l’impresa economica che consente alla famiglia di vivere nel contesto ospitante, di mantenere una casa, di mandare i figli a scuola; il ristorante struttura e organizza tutta la vita della famiglia, il tempo libero e il tempo del lavoro, le relazioni e i contatti con amici e parenti; il ristorante, infine, diviene anche un luogo complesso che facilita gli scambi, l’incontro con i connazionali, il mantenimento e la visibilità di tradizioni e culture (momenti di festa, anniversari), al contempo suscita la curiosità dei residenti, crea un ponte con la popolazione autoctona o diversamente sospetto e preoccupazione.

La generazione successiva, quella dei figli, si trova in una situazione radicalmente differente: ha compiuto un percorso scolastico, ha preso in certo modo distanza dalla cultura di cui i padri sono portatori o l’ha fatta sua, reinterpretandola; in ogni caso, è portatrice di una molteplicità di sguardi e di culture. Nella percezione di queste generazioni anche la connotazione etnica degli spazi si carica di valenze differenti. “Il giovane non è ancora determinato ed è inseparabile da questa sua indeterminazione, dalla possibilità di proiettarsi in una molteplicità di futuri; il vecchio sa chi è e chi è diventato, ha già compiuto il suo percorso e fatto le scelte necessarie. (…) Questo rapporto di apertura alle possibilità fa anche sì che le “illusioni”

abbiano presa maggiore sui giovani: il male e il dolore sono estirpabili, è possibile un mondo dove esso sia assente o anche soltanto drasticamente ridotto. La proiezione nel futuro e l’assenza di finitezza permettono di porre tra le possibilità in campo anche quella di un futuro radicalmente altro dal presente, dove la felicità che diserta sempre le nostre contrade e popola quelle altrui, che diserta il nostro tempo e ha popolato altri tempi, l’onestà che non caratterizza i nostri governanti ma quelli altrui, dove tutto ciò che non c’è possa finalmente esserci” (Cassano, 2003, p. 56). Nura, giovane marocchina, che accompagna mal volentieri la madre al mercato di Porta Palazzo, non è

in opposizione con la cultura d’origine, né con la fede che le è stata trasmessa, ma conosce la fatica a cui la madre è sottoposta quotidianamente, gli stenti che la sua famiglia ha affrontato nei primi tempi d’arrivo in Italia. Quel mercato, colorato di spezie e di volti le ricorda quella fatica, una fatica dalla quale vorrebbe fuggire. Nura rappresenta ancora una generazione “di frontiera”, stretta tra la cultura e il mondo dei genitori e la possibilità di guardare indietro alla propria cultura e tradizione d’origine con partecipe distanza.

Eppure è in questa città plurale, meticcia, dove regna la mescolanza, che più facilmente anche Nura potrà perdersi e ritrovarsi. I ragazzi, ancor più che gli adulti, si trovano a gestire il rapporto con altri, diversi da loro, nelle svariate situazioni della quotidianità: man mano che crescono si moltiplicano le occasioni di scambio, emergono le differenze, esplodono gli scontri, ma aumentano anche le opportunità di incontro, di apertura reciproca, se non proprio di comprensione empatica quando “l’altro non è più al di là del confine ma al di qua”

(Mantovani, 2006, p. 38). Sembra che i ragazzi immigrati sviluppino, in molti casi, vere e proprie competenze interculturali, capacità di negoziare, mediare, costruire dei significati e dei valori comuni, nell’esercizio quotidiano dell’arte della convivenza.

Situazioni specificatamente urbane di confronto continuo con la differenza, ambiti di interazioni ripetute tra soggetti che fanno della differenza uno degli strumenti centrali di interazione, comunicazione, attribuzione di senso. Con multiculturalismo quotidiano si vogliono indicare gli ambiti relazionali in cui la presenza continua dell’alterità (lo straniero che oggi è qui e domani rimane, come dice Simmel) richiede un lavoro di addomesticamento delle differenze deificate prodotte su scala macro. Luoghi in cui ciò che è “altro” viene continuamente dotato di senso, ricondotto al solito e al noto, ma non necessariamente al medesimo, lasciando spazio per adattamenti, conflitti, mutamenti.

Luoghi in cui la differenza non è completamente imposta, ma risultato di dialoghi e conflitti che avvengono non in condizioni di uguaglianza e parità, ma in condizioni di differenze di potere, di capacità e di risorse.

La dimensione quotidiana è qui rilevante non perché caratterizzata spazialmente, come territorio del privato, dell’intimo e del domestico, ma piuttosto perché definita relazionalmente, come “luogo”, cioè come insieme delle pratiche ordinarie, banali, costitutive, embedded (Giddens, 2008). Luogo, dunque, che costituisce la base dell’esperienza situata,

del qui e ora, ma che non è completamente definito dalla prossimità, dal territorio della comunità, dai vincoli del vicinato o della parentela.

(…) È nell’ambito del multiculturalismo quotidiano che sembra più evidente rilevare come la differenza assuma oggi un carattere di risorsa”

(Bosisio, Colombo et al., 2005, p. 67). Nel quotidiano non si incontrano le culture ma le persone, ciascuna col proprio bagaglio culturale o multiculturale.

In questo contesto storico, si insinua però anche il rischio che prevalga quella che Amartya Sen definisce la miniaturizzazione dell’essere umano, nella gabbia di un’unica e vincolante identità. “La tendenza, nel mondo contemporaneo, a privilegiare un’identità in particolare rispetto a tutte le altre ha già fatto danni, fomentando violenze razziali, conflitti intercomunitari, terrorismo religioso, repressione degli immigrati, negazione dei diritti umani fondamentali e via discorrendo. Mentre il nuovo secolo si dipana è importante riaffermare la pienezza di esseri umani non miniaturizzati nella gabbia di un’unica identità (…) Un unico, limitato sistema di classificazione non è in grado di cogliere la grandiosità dell’essere umano” (Sen, 2006). Tale metodo “solitarista” è, secondo Sen, il migliore per interpretare in maniera errata praticamente ogni essere umano sul nostro pianeta. Le identità sono sempre più sfumate, intrecciate tra loro, si “dialettalizzano” (Cambi, 2006) e sono quindi anche più difficili da definire, da cogliere nella loro completezza e dinamicità; oggi, più che in ogni tempo, è avvertita l’esigenza di un riconoscimento delle identità che tenga conto di tale complessità intrinseca. La tematica del riconoscimento pare cruciale soprattutto quando si ha a che fare con adolescenti, che continuamente misurano la propria persona sul giudizio esterno, sullo sguardo altrui. Il riconoscimento esterno è la condizione necessaria per lo sviluppo di un’identità matura, equilibrata, sicura di sé e integrata.

La grande risorsa alla quale può attingere questa giovane generazione è proprio la pluralità delle appartenenze e delle identità, delle comunità;

poter crescere leggendo sia Tariq Ramadan (svizzero-egiziano, progressista e nipote di Hasan al Banna, fondatore dei “fratelli musulmani”, storico movimento integralista egiziano) sia Il profeta di Khalil Gibran, ascoltando il telepredicatore egiziano conservatore Amr Khaled che lancia messaggi moralisti e tradizionalisti ma con mezzi moderni e cantando le canzoni di Tiziano Ferro, andando in vacanza al Cairo, pregando cinque volte al giorno, nascondendo un piercing sulla

lingua, tifando Italia all’ultimo mondiale di calcio. Come nel simpatico aneddoto su San Salvario a Torino richiamato da Marco Aime, a chiusura del suo libro, “in una scuola materna del quartiere, frequentata da molti bambini maghrebini, le maestre hanno deciso un giorno di preparare il couscous. Hanno cercato la ricetta ‘originale’ per cucinarlo secondo la tradizione. I bambini erano contenti. Poi la maestra ha chiesto a un piccolo marocchino: ‘Ti piace?’. ‘Sì’. ‘È come quello che fa tua mamma?’. ‘Quello di mia mamma è più buono perché mette uno strato di couscous e uno di tortellini, uno di couscous…’” (Aime, 2004, p. 136).

La particolare connotazione dell’immigrazione italiana, la pluralità di provenienze etnico-nazionali, l’assenza di quartieri-ghetto monoetnici, ma al contrario la creazione di quartieri misti dai tratti multietnici, allora, possono essere come caratteristiche certamente problematiche ma anche promettenti. Molti quartieri urbani potrebbero sviluppare nel futuro quelle condizioni necessarie affinché i ragazzi sviluppino identità complesse, sappiano gestire la precarietà della loro condizione, sempre in bilico tra appartenenza differenti, tra categorie valoriali distanti, tra modelli e stili di vita lontani. Questa natura plurale di molti contesti urbani è una sfida interessante e stimolante anche per i loro coetanei italiani.

L’ipotesi di questo lavoro di ricerca, che è sempre anche un orientamento progettuale, è che la città possa essere interpretata come il luogo che forma e educa all’alterità, al confronto, alla tolleranza nella differenza. “Il valore del confronto con la difficoltà e la diversità si pensava fosse dato dal fatto che tramite l’esposizione al mondo l’individuo trova gradatamente il proprio orientamento, un modo di mantenersi equilibrato. I greci definivano questa condizione con il termine sophrosyne, che potremmo tradurre con ‘grazia’, oppure con

‘temperanza’. Oggi per definire una persona che si mantiene equilibrata nel mondo, in inglese si direbbe che è centred, ben centrata. La città dovrebbe essere la scuola che ci insegna a condurre una vita ben centrata. Attraverso l'esposizione agli altri potremmo imparare a di-stinguere ciò che è importante da ciò che non lo è. Abbiamo bisogno di vedere le differenze nelle strade, o negli altri, senza avvertirle come minacce né come tentativi di seduzione, bensì come visioni necessarie.

Esse ci servono per muoverci nella vita con equilibrio, sia in senso individuale che collettivo” (Sennett, 1992, p. 13).

Alexandra, che cosa cambieresti di Torino? Non ha esitato a rispondere Alexandra, arrivata da Bucarest a Torino poco più che bambina: “La cosa che cambierei… farei cose che siano davvero aperte a tutti, farei incontrare di più gli italiani con i rumeni, farei delle attività insieme, metterei le tradizioni davanti per farle conoscere di più senza fermarsi solo a dire i rumeni, i nigeriani, i marocchini… io credo che dobbiamo conoscerci di più. Solo così si scoprono cose nuove, dei nuovi atteggiamenti, si scoprono le persone, che è la cosa più importante, senza pensare solo a quello che pensano, a quello che ‘si dice’, perché credo che in ogni paese ci siano le parti buone e le parti cattive”

(ragazza rumena di 18 anni, nata a Bucarest, in Italia dal 2001).