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Campi di esperienza, desiderio, relazione

Bisogna rinunciare a un’istruzione-per-la-società. Invece di strappare il ragazzo a una parte di se stesso, quella più intima, per trasformarlo in un essere “civilizzato”, ossia ricostituito in conformità delle categorie predominanti nella società, occorre ricomporre la sua personalità che tende a essere scissa in due separati universi: quello caratterizzato dalle possibilità materiali (in particolare quelle professionali) offerte dalla società e più concretamente dal mercato del lavoro e quello costruito dalla cultura giovanile diffusa dai media e veicolata dal peer group. Nessuno dei due universi a cui partecipa il giovane tende di per sé a rafforzarne la capacità di elaborare progetti personali. In entrambi i casi, egli è un consumatore e risponde a stimoli e divieti.

L’istituzione scolastica deve invece il più possibile coniugare, al pari dell’istituzione familiare, le attese personali con le possibilità offerte dall’ambiente tecnico-economico. Queste attese non sono più determinate solo da un retaggio culturale e sociale, ma si individualizzano in una società in movimento che attribuisce maggiore importanza alle storie di vita individuali, nella misura in cui queste si riducono sempre meno ai percorsi previsti alle istituzioni.

Alain Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?

L’accorato e provocatorio appello del sociologo francese Alain Touraine muove dalla sua convinzione che la condizione contemporanea (che definisce “bassa modernità”) sia “caratterizzata dalla scomparsa di ogni concezione oggettivista” della vita sociale, che appare invece come “il prodotto di decisioni, politiche e programmi, anziché di equilibri naturali”. Uno scenario in cui la dislocazione (disembedding) dei fenomeni sociali nello spazio e nel tempo (Giddens, 1991), le dimensioni dell’incertezza e del rischio (con l’importanza che esse attribuiscono alla necessità di elaborare nuove forme di fiducia) e il potenziale sempre più ampio di riflessività – ovvero la crescente capacità che hanno le nostre società di trasformare le proprie pratiche con la conoscenza che ne acquisiscono – (Beck, 1986; Beck, Giddens e Lash, 1994), sono

tutti fattori di trasformazione che chiamano in causa una rielaborazione dell’attore sociale come soggetto, ne sottolineano la sempre più forte sollecitazione all’acquisizione di una capacità di comprendersi e di intervenire sulla realtà (agency). In questo quadro concettuale si iscrive pienamente il rapporto dei giovani con agenzie di socializzazione che appaiono fortemente scosse dal cambiamento e che necessitano di una reinterpretazione: scuola e lavoro non hanno più la capacità di

“integrazione” dell’individuo nella società che esprimevano in epoca fordista, mentre il campo del consumo sembra aver totalmente invaso quello dell’esperienza (Laffi, 2000).

I nostri giovani figli di immigrati si iscrivono pienamente in questo solco di inquietudine collettiva e ne sono forse interpreti più sensibili, perché più esposti alle incongruenze della “socializzazione” all’interno di una scuola che non sempre appare loro in grado di accoglierli o di fornire loro strumenti di capacitazione personale, nonché alle condizioni spesso avvilenti di un mercato del lavoro che tuttora relega il lavoratore immigrato, anche dotato di un buon livello di istruzione, a mansioni dequalificate. A ciò si aggiungono determinanti di ordine normativo e giuridico che fanno dello status di immigrato una condizione di perenne incertezza, in cui si vive “appesi al proprio permesso di soggiorno” anche quando si è nati in Italia.

Ma proprio la contiguità della biografia dei giovani di origine straniera con la dimensione dell’incertezza e la precoce esposizione alla realtà del lavoro (proprio e/o famigliare), la necessità di sobbarcarsi responsabilità che spesso i propri coetanei italiani assumono solo in una fase assai più avanzata del proprio corso di vita, se da un lato introduce certamente maggiori elementi di vulnerabilità, dall’altro irrobustisce la percezione che gli ambiti della scuola, del lavoro e perfino dei consumi costituiscano campi imprescindibili di esperienza e di apprendimento, sfide serie e cruciali cui si è chiamati a fare fronte con maggiore consapevolezza. Sfide, cioè, in cui la posta in gioco appare presto molto più alta che per i propri compagni “autoctoni”.

II.2.1 La scuola

A mediare il primo rapporto con l’ambiente di vita torinese, soprattutto per i giovani immigrati che vi giungono in età scolare, è indubbiamente l’istituzione scolastica, contesto di socializzazione/acculturazione per

definizione, ma anche palestra di relazioni, specchio in cui confrontarsi con la propria e l’altrui diversità. La maggior parte - l’82,5% - dei giovani coinvolti nell’indagine quantitativa nelle scuole torinese dichiara di non trovarsi male a scuola, e il 35,1% non esita a dichiarare di trovarvisi

“molto bene”. Tuttavia, tale dato presenta una notevole varianza interna:

solo il 6,3% dei ragazzi cinesi, per esempio, vi si trova “molto bene”, mentre il 7,5% ritiene di non trovarsi “per niente bene” sui banchi delle scuole torinesi (cfr. Tab. II.19 nell’Appendice).

Rispetto a questo dato i giovani nati in Cina sono quelli che si distinguono in modo più marcato dagli alunni di altra nazionalità. Su questo giudizio negativo pesano diversi elementi, ma il più grave è senza dubbio rappresentato dalla barriera linguistica, che nel caso cinese costituisce un ostacolo più complesso e impegnativo da superare che per gli altri giovani di madrelingua straniera. Chi si trova meglio, se stiamo ai dati sui paesi di nascita, sono i ragazzi stranieri nati in Italia e quelli nati in Marocco e in Romania, ma peruviani e albanesi li seguono con differenze relativamente lievi. Anche in questo caso è però l’analisi per classi generazionali a mettere più efficacemente a nudo il fattore chiave di un’inserimento scolastico percepito come difficile: i giudizi negativi sull’ambiente scolastico si concentrano infatti nella classe 1,25, quella che incontra maggiori difficoltà d’ingresso e permanenza nella nostra scuola dell’obbligo. Inseriti negli ultimi anni della scuola media, dove spesso non possono contare su forme strutturate di sostegno all’apprendimento della lingua italiana, questi ragazzi subiscono uno shock culturale più intenso, anche perché nel loro caso le differenze tra la scolarizzazione pregressa e quella con cui sono chiamati a familiarizzarsi in breve tempo assumono una dimensione assai più ampia che per coloro che hanno alle spalle solo qualche anno di scuola nel paese di origine.

Tali differenze riguardano non soltanto il curriculum, i metodi di insegnamento, le modalità di rapporto con i compagni e gli insegnanti, con il relativo sistema di regole implicite ed esplicite, il carico di lavoro assegnato in classe e a casa, il tipo di interazioni che si stabiliscono tra il corpo docente e amministrativo dell’istituzione scolastica e le famiglie degli alunni, il sistema di valutazione del profitto scolastico ecc.

Qui ho meno amici e una delle cose che più mi ha dato fastidio all’inizio sono stati i voti. Qui il sistema è diverso. La prima settimana sono mancata un giorno da scuola

e nessuno mi aveva detto che si dovevano giustificare le assenze, non mi avevano nemmeno dato il libretto. La mia compagna di banco niente, non mi parlava, era timida, io non sapevo parlare, quindi era difficile.Ma non mi hanno mai trattato male.

Sono anche una brava ragazza e studiosa, tutti a scuola sono stati gentili con me. La professoressa di matematica mi ha addirittura aiutato trovandomi un lavoro per questa estate. Dal 15 di luglio vado con l’associazione in Liguria, dove portano i bambini a far vacanza. Io darò una mano in cucina, non so cucinare ma spero di imparare.

La scuola in Italia è diversa. In Romania puoi andartene a casa anche le ultime due ore. Se tu non vuoi fare quella materia puoi uscire da scuola quando vuoi. Ho fatto anche delle assenze, soprattutto quando avevo interrogazioni e non ero pronta. In Romania non esistono le interrogazioni programmate. Alla scuola superiore fai matematica, informatica, filologia, lingue straniere e poi puoi scegliere l’università che vuoi. I professori danno i 10, i 9, con 5 non hai il debito, quando incontrano i genitori soltanto un professore parla a nome di tutti gli altri e non esistono i 7+, 7-, dal 6 al 7… All’inizio non mi sono trovata bene a scuola, non ero contenta, non concepivo questi voti. Ho parlato anche con il professore di sistemi, gli ho detto “ma perché se io sono brava e posso prendere anche 10 non me lo date?” Qui ti dicono che il voto massimo è 8 mentre in Romania questo non esiste, parti da 1 e finisci a 10. In classe siamo solo tre ragazze, però mi trovo bene, tanto sono una ragazza timida a scuola, quando inizio a conoscere una persona poi mi lascio andare, però se hai difficoltà a parlare non è facile. Quando ho iniziato a parlare alcuni miei compagni ridevano e non è stato così bello.

[Ragazza rumena, nata a Bacau, 18 anni, in Italia dal 2005]

Il “disagio scolastico” è espresso soprattutto da chi è emigrato in età adolescenziale, ma rispetto alle motivazioni addotte emergono differenze interessanti tra i diversi gruppi nazionali d’origine. Tra coloro che hanno scelto di spiegare perché non si trovano bene, sono soprattutto i giovani (maschi) nati in Marocco, nonché le ragazze nate in Romania e Perù a lamentare la scarsa disciplina in classe, i giovani cinesi invece spiccano per la percentuale di risposte che segnalano maltrattamenti da parte di alcuni compagni (il 17,2% di tutti i rispondenti), relativamente alta anche per i nati in Romania, Marocco e Albania. Per i giovani nati in Albania e Romania “si passa troppo tempo a scuola”. I giovani nati in Cina sono i soli per i quali una percentuale significativa (6,3%) dichiara che “a scuola non si fa abbastanza per aiutarmi a imparare l’italiano”, mentre il 7,8% dei nati in Cina ritiene

inoltre che alcuni insegnanti “li trattino male” (cfr. Tab. II.20 nell’Appendice). La diversità del curriculum rispetto a quanto si studiava prima di emigrare è indicata come una criticità rilevante un po’

da tutti i non nati in Italia (e in particolare dai nati in Perù e Cina).

Al di là delle criticità più immediatamente percepite, contribuisce al disagio degli adolescenti da poco inseritisi nelle scuole torinesi una dimensione più sottile ma ben più pervasiva, che è legata a come la scuola riproduce i codici espressivi dominanti della società, l’universo simbolico che permette alle persone di condividere i sottintesi, di

“accordarsi” sulle definizioni e gli ambiti di applicazione delle parole, dei gesti, dei comportamenti. A scuola si apprende – spesso in modo del tutto implicito – buona parte della dimensione sociale (se non morale) della cultura dominante, veicolata in primo luogo dalla lingua stessa (non più solo parlata, non più solo lessico famigliare, ma anche espressione scritta, elaborazione sofisticata di convenzioni semantiche, trasmissione “colta” di retaggi espressivi che solo di rado è possibile apprendere direttamente dai propri genitori). Per questo lo spaesamento del giovane di generazione 1,25, il cui inserimento nella scuola dell’obbligo avviene in genere quando il momento migliore - gli anni della scuola elementare - per l’acquisizione di questo complesso sottotesto espressivo è già passato, è quasi sempre maggiore e più difficile da gestire che per gli appartenenti alle altre classi generazionali.

Questa difficoltà permea sia la presentazione di sé che i rapporti con i suoi nuovi “prossimi”: insegnanti, compagni e anche sconosciuti incontrati in situazioni anonime. Tutti questi rapporti sono infatti normati da convenzioni comportamentali che al nuovo arrivato appaiono opache e incomprensibili, fonte di disagio perché non facilmente interpretabili.

La scuola media di per sé rappresenta, nel nostro sistema scolastico, una tappa piuttosto traumatica, un passaggio drastico dall’ambiente protetto e centrato sullo sviluppo della persona bambina delle elementari a uno scenario che già prefigura l’adultità, richiede più precise assunzioni di responsabilità, orientamento al compito e al risultato, ma che è anche teatro di più enfatiche resistenze e affermazioni di sé mediate anche dall’antagonismo (nei confronti degli insegnanti, di alcuni compagni, ecc.).

Non solo: la scuola media è anche il grado di scuola dell’obbligo in cui l’alunno straniero dispone di strumenti più deboli a sostegno del suo inserimento scolastico. Agli insegnanti di scuola media non si chiedono competenze nel supportare la prima alfabetizzazione. Il loro compito è quello di preparare gli alunni a quelle forme di specializzazione precoce (rispetto ad altri sistemi scolastici) che richiedono una formazione content-specific, con un’elevata mole di nozioni considerate strutturanti e propedeutiche. Insomma, alle medie “si comincia a correre”, c’è un programma molto fitto da svolgere e gli insegnanti tendono a concentrarsi sul compito di trattarlo per intero senza perdere troppi alunni per strada. Non è il contesto ideale per chi vi piomba spesso senza avere alcuna nozione di lingua italiana.

Apparentemente i rapporti tra alunni stranieri e italiani a scuola sembrano buoni, ma se si scava un po’ più in profondità e si fanno emergere le opinioni dei ragazzi riguardo a tematiche più delicate, come la realtà dei Centri di permanenza temporanea o il ruolo dell’Islam in Italia, emergono spesso atteggiamenti di rifiuto e di razzismo. Per quanto riguarda l’insegnamento dell’italiano agli alunni stranieri, da noi non esistono corsi appositi. Il supporto linguistico viene gestito “ufficiosamente”

dagli insegnanti nelle ore buche, per lo più grazie all’iniziativa personale.

[Testimone privilegiato italiano, insegnante e referente per l’intercultura presso un Istituto Tecnico Industriale]

Le scuole medie e superiori cercano di ovviare a questa difficoltà strutturale nei confronti dell’integrazione scolastica di alunni stranieri in vario modo, ma senza poter contare su una “bussola” in grado di orientare le proprie strategie di inserimento in modo coerente, condiviso ed efficace. Soprattutto a partire dall’abbandono (in seguito ai tagli alla spesa pubblica introdotti in ambito scolastico a partire dai primi anni duemila, che hanno costretto le scuole dell’autonomia a dare priorità diverse ai pochi fondi a loro disposizione) da parte di molte scuole del Nord Italia delle sperimentazioni avviate nell’ambito della cosiddetta “intercultura” negli ultimi anni novanta, quando si erano cominciate a palesarsi, quasi in sordina, tracce di un vero e proprio “modello italiano” all’inserimento scolastico degli alunni stranieri (cfr. Charles Glenn, “I figli degli immigrati a scuola: lezioni per l’Italia dalle esperienze di altri paesi”, in Ambrosini e Molina, 2004), nella scuola media in questo campo si tende a “navigare a vista”. Così a scuole del tutto sguarnite di supporti specifici all’inserimento degli

alunni stranieri si alternano istituti in cui invece questa problematica gode da tempo di un’attenzione più focalizzata (non a caso sono spesso le scuole dove la presenza straniera è numericamente rilevante da più tempo), in cui per esempio si considera normale l’impiego di interpreti e mediatori per facilitare i contatti scuola-famiglia e dove si sono sviluppate “in economia” soluzioni innovative per ovviare alla mancanza di insegnanti dedicati per l’insegnamento della lingua italiana.

Anche in questo caso, però, si ha l’impressione che l’utilizzo di mediatori culturali sia una soluzione di ripiego piuttosto che l’espressione di una coerente strategia di coinvolgimento delle famiglie degli alunni stranieri e di esplicitazione chiara del modello scolastico italiano ai nuovi arrivati, tant’è vero che il ricorso alla mediazione culturale da solo non basta a socializzare l’alunno e tantomeno la sua famiglia al contesto scolastico italiano.

La nostra scuola organizza corsi di lingua italiana per facilitare l’inserimento degli alunni stranieri e si avvale anche dell’assistenza di mediatori culturali. Un altro strumento che si è rivelato molto efficace è l’uso di tutor della stessa nazionalità, ovvero di altri studenti che possano fungere da interpreti e da facilitatori in alcune ore (sia durante le ore scolastiche che al di fuori). Questo sistema sembra incentivare i nuovi arrivati, e serve da stimolo anche per i ragazzi che fungono da tutor, che si vedono così apprezzati. Il fatto di essere stranieri (e quindi conoscere la lingua del proprio paese) viene così visto come una risorsa anche da parte degli studenti italiani. Il problema maggiore per noi è però quello di riuscire ad instaurare dei rapporti con le famiglie degli studenti, che non partecipano mai ai colloqui, nonostante la presenza di mediatori culturali che possono fungere da interpreti: sono infatti soprattutto gli impegni lavorativi ad impedire loro di presentarsi ai colloqui.

[Testimone privilegiato italiano, insegnante, presso un Istituto Professionale per il Commercio]

In molte città dell’Italia centro-settentrionale (a Torino, ma anche a Milano, Brescia, Trento, Bologna, Firenze, ecc.) nel corso degli anni novanta si era sperimentato il distacco di alcuni insegnanti dall’attività scolastica normale al fine di impiegarli come “facilitatori di apprendimento” a sostegno dell’inserimento scolastico degli alunni stranieri. Questi insegnanti si specializzavano nell’alfabetizzazione mirata al rapido recupero dello svantaggio linguistico nei confronti delle materie in cui la padronanza della lingua italiana svolge un ruolo chiave allestendo laboratori linguistici paralleli al normale decorso

delle lezioni. Gli alunni stranieri potevano essere normalmente inseriti in classe, dove avevano modo di socializzare con quel gruppo ristretto di alunni che nella scuola italiana costituisce il gruppo dei pari

“istituzionalizzato” (la classe, appunto), ma passavano alcune ore della loro giornata scolastica insieme ad altri ragazzi neo-arrivati nel laboratorio linguistico. A differenza di altre soluzioni proposte per facilitare l’alfabetizzazione dei minori immigrati, come le pre-classi di alfabetizzazione linguistica (le cosiddette “classi ponte”) o i corsi di lingua italiana organizzati come attività di doposcuola, questa prassi ha il merito di scongiurare lo stigma di un’educazione “speciale” e dove è stata applicata ha permesso agli alunni stranieri di di mettersi al passo con i compagni italiani nel giro di uno o due anni, senza sentirsi particolarmente “diversi” o “minorati”. Le scuole italiane che ritengono di potersi permettere il distacco di uno o più insegnanti sono oggi davvero poche (a Milano per esempio il crollo nella sperimentazione di questo tipo di strategia integrativa è stato del 90% negli anni 2001-2005): quelle che mantengono iniziative analoghe di laboratorio linguistico “in parallelo” rispetto al normale inserimento in classe tendono a farlo ricorrendo al supporto di personale (mediatori ed educatori) fornito da realtà del terzo settore. Nel panorama attuale torinese, forse l’esperienza più positiva e ricca di stimoli per i giovani di generazione 1,25 e 1,5 è proprio quella del doposcuola, specie quando l’insegnamento della lingua italiana si colloca all’interno di un contesto più ampio di accompagnamento e di socializzazione. Una delle esperienze più significative in tal senso è senza dubbio quella dell’Associazione ASAI, con sede a San Salvario, dove accanto all’insegnamento dell’italiano si organizzano attività extracurriculari e di animazione spesso coordinate dagli stessi ragazzi immigrati.

Crediamo che i ragazzi debbano essere accompagnati in questo percorso di inserimento.

Su questi temi occorre rompere il silenzio e non dare per scontato che per il fatto che sono nati in Italia automaticamente siano italiani, dal punto di vista della cittadinanza intesa come partecipazione, o che siano inseriti in un territorio, in un gruppo, in una comunità locale. Abbiamo anche dei ragazzi italiani in età adolescenziale che pur essendo cittadini italiani con il marchio D.O.C. non si sentono parte della nostra città, non vivono la cosa pubblica, i problemi. Questo presuppone un lavoro educativo, e a maggior ragione con ragazzi immigrati che si autopercepiscono e molte volte vengono percepiti dalla collettività ancora come una presenza strana, temporanea, e quindi in qualche modo vivono e si sentono come degli

ospiti. Io credo invece che sia importante lavorare su percorsi, processi che li vedano davvero come protagonisti, che li portino all’inclusione di tutti quelli che vivono sul territorio, non degli uni piuttosto che degli altri. Non è quindi una questione di politica specifica per ragazzi immigrati, ma di politiche di intervento per la fascia giovanile che si occupa davvero del protagonismo di tutti quelli che abitano e si muovono su un determinato territorio.

L’associazione ASAI non opera solo con adolescenti ma rivolge l’attività ai bambini sia delle elementari che delle medie e delle superiori. Le attività sono quelle solite di un centro aggregativo, ma le due per noi prioritarie sono l’attenzione all’esperienza scolastica e quella dedicata all’orientamento scolastico e lavorativo, perché crediamo che sia bello che i ragazzi si aggreghino e facciano delle cose insieme, ma poi è anche bello che abbiamo concretamente un progetto di vita che li vede inseriti nel mondo della scuola e nel mondo del lavoro.. Quindi da un lato abbiamo il supporto ai corsi di italiano per minori, il rafforzamento dei corsi di L2 che magari fanno già all’interno

L’associazione ASAI non opera solo con adolescenti ma rivolge l’attività ai bambini sia delle elementari che delle medie e delle superiori. Le attività sono quelle solite di un centro aggregativo, ma le due per noi prioritarie sono l’attenzione all’esperienza scolastica e quella dedicata all’orientamento scolastico e lavorativo, perché crediamo che sia bello che i ragazzi si aggreghino e facciano delle cose insieme, ma poi è anche bello che abbiamo concretamente un progetto di vita che li vede inseriti nel mondo della scuola e nel mondo del lavoro.. Quindi da un lato abbiamo il supporto ai corsi di italiano per minori, il rafforzamento dei corsi di L2 che magari fanno già all’interno